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mercoledì 28 febbraio 2007

Home sweet home

La favola del federalismo fiscale finalmente realizzato continua a esserci raccontata prima di andare a dormire, ogni sera. Non parliamo, ovviamente, di quello in salsa verde, che confonde il federalismo con il secessionismo e predica senza pudore la conservazione dei tributi incassati sul territorio (e chi non ne raccoglie a sufficienza, peggio per lui), producendo uno straniante effetto tipo 'socialismo in un solo paese', per chi ha ancora qualche ricordo di economia politica. Ci riferiamo invece alla versione riformista del federalismo fiscale. Quella che consegna alle autonomie locali le chiavi per gestire in modo indipendente dal centro la politica fiscale, all'interno di poche leggi-quadro che regolino i principi, lasciando agli enti la competenza di applicarli in concreto. Purtroppo, invece che agli happy ending alla Andersen, ci tocca assistere ad orrori come neppure i migliori Grimm avrebbero descritto meglio. Appare oggi su Repubblica il periodico, demagogico annuncio sull'abolizione dell'ICI sulla prima casa per decreto. Sappiamo bene perché è demagogico. D'altra parte, però, in questa forma di annuncio pubblicitario è totalmente privo di qualsiasi soluzione pratica per coprire il minor gettito subito dai Comuni. Si vorrebbe addirittura approvare un D.L. d'urgenza prima della scadenza della rata di giugno 2007. Se provvederanno per tempo, dovranno anche dirci come predisporre l'indispensabile variazione di bilancio: minore entrata contro minori spese, con buona pace della programmazione originale, oppure minore entrata contro maggiore entrata (più trasferimenti, s'intende)? E comunque, insisto, il problema, per tornare alle considerazioni iniziali, non è neppure questo. L'ICI è un tributo, per quanto dannato, la cui applicazione ha rappresentato negli ultimi quindici anni il primo vero passo per una gestione virtuosa delle entrate tributarie comunali (molto più che con l'addizionale IRPEF, semplice balzello aggiuntivo privo di aggiustamenti e regolazioni). Ora, con queste iniziative estemporanee (ma evidentemente ben orchestrate dai geni del marketing politico di ogni colore), l'erario se ne riappropria. A questo punto, discutere di Codice delle Autonomie fa quasi sorridere. Comprereste un'auto usata da questi uomini? (foto a piacere, please).

martedì 27 febbraio 2007

La pizza nel cassonetto

La lettura del veloce libro di Luigi Furini ("Volevo solo vendere la pizza", date un'occhiata alle Buone letture, nella colonna di sinistra) è, per molti versi, educativa. La lotta impari tra un neo-imprenditore del commercio e la burocrazia ricorda precedenti di alta letteratura come Don Chisciotte alle prese con i mulini a vento. A parte un intermezzo sul versante privato che coinvolge il giornalista e, soprattutto, l'inquilino (sedicente dentista) di un appartamento da lui posseduto in una brutta storia di spaccio e degrado, al centro del racconto c'è un anno (o quasi) di soldi spesi per controlli, corsi, multe, ricorsi e chi più ne ha, più ne metta. La sensazione è indubbiamente quella di essere nel paese più kafkiano che esista. Facciamo due piccoli appunti all'intera vicenda. Il primo è inutilmente benaugurante. Di tutti gli uffici pubblici che il nostro si trova a frequentare per ottenere permessi e autorizzazioni varie, l'unico che (a parte le immancabili marche da bollo) gli consente di avere il necessario nel giro di ventiquattr'ore è quello comunale (per l'esattezza, la polizia municipale). E' una goccia nel mare, e un esempio casuale forse, ma ci fa stare dalla parte meno impervia della burocrazia. Il secondo è, purtroppo per Furini, una constatazione da Ufficio tributi. Infatti, egli descrive con minuzia di particolari tutti gli adempimenti, anche fiscali, che prima di aprire l'attività e nel suo breve corso ha dovuto rispettare. A meno di una dimenticanza nel resoconto (o di una ritenuta irrilevanza a fini narrativi), balza subito all'occhio deformato (professionalmente) una mancanza. Non si fa mai cenno alla denuncia ai fini della tassa (o tariffa) rifiuti. L'autore si aspetti dunque fra qualche tempo un avviso di accertamento. Ma non aveva pagato profumatamente anche un commercialista?

lunedì 26 febbraio 2007

Patto di disonore

Liberi tutti, allora. Di assumere, cioé, anche se non si è rispettato il patto di stabilità nel 2006. La sanzione più restrittiva e vincolante per gli enti locali pare destinata a scomparire, dopo che un emendamento lampo alla legge di conversione del decreto 'milleproroghe' la cancellerà destinandola ad un meritato oblio. Il testo del comma fatidico è il seguente: "8-sexies. Per l’anno 2007 agli enti che non abbiano rispettato per l’anno 2006 le regole del patto di stabilità interno non si applicano le disposizioni previste dall’articolo 1, comma 561, della legge 27 dicembre 2006, n. 296."
Peccato che sia troppo tardi. Peccato che gli enti si siano preoccupati in sede di programmazione (e quando, se no?) di gestire i propri servizi con il personale in quel momento in organico, senza quindi attingere alle eventuali disponibilità finanziarie. Così, a posteriori, la beffa suona ancora più atroce. Anche perché l'emendamento è giustificato esplicitamente proprio con l'opportunità di non infierire sui comuni, rischiando di ridurre la qualità dei servizi offerti, a causa della limitazione nell'acquisizione di nuovo personale. Ma la faccenda assume contorni anche più ampi. Preso atto, infatti, che anche le regole del patto per il 2007 riprendono le sanzioni previste per il 2006, e che gli enti hanno già approvato il bilancio (o, in ogni caso, sono in avanzato stato di preparazione) che deve essere proprio da quest'anno redatto nel rispetto dei vincoli del patto, quale amministrazione non si sentirebbe presa in giro dopo un provvedimento del genere? La tentazione è quella di non sentirsi, d'ora in poi, vincolati dalle restrizioni di legge relative al personale. Tentazione subito scacciata, perché ovviamente l'illecito amministrativo sarebbe palese. Certo che, di fronte a colpi di spugna così spudorati, si potrebbe tranquillamente parlare di illecito morale. Si noti infine il tempismo del legislatore (a chiunque sia attribuibile l'idea dell'emendamento). La notizia arriva proprio pochi giorni dopo che il Ministero ha diramato con la consueta circolare le prime istruzioni operative sul patto per il 2007.

domenica 25 febbraio 2007

Volo a bassa aliquota

La polemica sull'applicazione dell'addizionale comunale all'IRPEF sta infittendosi, proprio a ridosso dell'approvazione dei bilanci di previsione. Stavolta però gli indirizzatari degli strali di esperti o dei giornalisti del settore sono tutti indirizzati verso il Ministero dell'Economia e delle Finanze, reo di avere (inconsapevolmente?) fornito un'interpretazione estensiva della norma, assolutamente non autorizzata. Questo punto era già stato toccato da Altiero Grandi, sottosegretario, il quale aveva respinto la possibilità che i comuni potessero liberamente decidere di applicare l'aliquota stabilendo, ad esempio, scaglioni di reddito oppure esenzioni particolari. Sembrava cioè che il Ministero di fronte all'impennata di fantasia di alcune amministrazioni locali avesse preso una definitiva posizione sulle modalità inderogabili di applicazione dell'addizionale. Pare, invece, che i sottosegretari siano anche sottovalutati e da autorevoli pulpiti sono uscite espressioni di favore per una maggiore libertà creativa degli enti, liberi insomma di variare (eventualmente in 8.000 modi diversi) le modalità di applicazione del tributo. Questa improvvisa accondiscendenza suona più come un tentativo, non troppo riuscito in verità, di recuperare consensi dopo che da più parti si è fatto rilevare che l'effetto-addizionale rischierebbe, se applicato come chiaramente stabilito dalla norma, di vanificare la rimodulazione delle aliquote e l'introduzione delle detrazioni d'imposta. Anche perché, in un valzer di contraddizioni più vorticoso che al concerto di Capodanno, i tecnici del Ministero hanno osservato che la pubblicazione delle deliberazioni sul sito web appositamente dedicato (per ricevere gli acconti 2007 calcolati sulla nuova aliquota) non solleva gli enti da un successivo controllo di legittimità, per verificarne la rispondenza alla lettera della legge. Adesso, giustamente, anche i tributaristi si sentono presi in giro. Piccatamente, fanno anzi rilevare che continuare a chiamare addizionale quella che tecnicamente è una sovraimposta è di per sè un errore (v. Enrico de Mita, Il Sole-24 Ore, 25 febbraio 2007, p. 19). Ma queste osservazioni sono certamente secondarie rispetto al cuore della questione, inutilmente riproposto, visto che la norma non lascia spazio, così com'è scritta, a interpretazioni diverse. Resta il fatto che non sono una pletora le amministrazioni che hanno utilizzato la finestra offerta dalla Finanziaria per moltiplicare il prelievo fiscale. Una tempesta in un bicchiere d'acqua, dunque.

Tolleranza zero

A proposito del trasferimento di funzioni, quelle catastali intendo, di cui si parlava ieri. Ho consultato il dettaglio dei contributi erariali previsti per il 2007 del Comune dove lavoro (circa 4.500 abitanti). La voce corrispondente alla erogazione di parte corrente per funzioni trasferite ex D.Lgs. n. 112/1998 (compreso il catasto, dunque) ammonta alla stratosferica cifra di € 1.598,10. Se poi si scende nel dettaglio, si scopre che neppure un centesimo della ricca prebenda è relativo alle funzioni catastali. Proprio un'operazione a costo zero per l'erario...

sabato 24 febbraio 2007

Le particelle elementari

Cosa accadrà realmente il prossimo 1° novembre? Sarà davvero improrogabile il passaggio delle funzioni catastali in capo ai comuni? Ipotizziamo di sì. Diamo fiducia, stavolta, all'inchiostro della Gazzetta Ufficiale. Non sfugge a nessuno che quella data rappresenta, se rispettata, una vera e propria rivoluzione. Non si tratta di un trasferimento di funzioni ordinario, dalla portata secondaria. Come quelli, cioè, risolvibili con qualche trasferimento erariale aggiuntivo che finanzi le nuove competenze, ma che non compromettono gli equilibri finanziari degli enti (e neppure quelli organizzativi). Qui, basta pensarci per pochi secondi, si affidano agli uffici tecnici compiti di gestione, organizzazione e aggiornamento di dati assolutamente inusitati. Benché sia possibile, infatti, trovare una soluzione in convenzione tra più enti, e ridurne l'impatto, la questione è decisamente più complessa. Innanzitutto, c'è il problema degli spazi. La quantità di pratiche cartacee che inonderà gli enti insieme alla indispensabile banca dati informatica richiederà la messa a disposizione di locali idonei per stoccare (senza lasciarle marcire, va da sè) le migliaia di pratiche che ciascun ente dovrà poi tenere aggiornate ("tenuta dei registri immobiliari (...), trascrizione, iscrizione, rinnovazione e annotazione (...)". Quanti municipi hanno già disponibili le stanze da dedicare appositamente all'archiviazione? Certamente non quelli più piccoli. Tra l'altro, se si scegliesse la forma della convenzione tra enti, il problema sarebbe moltiplicato per il numero degli enti convenzionati.
Altro elemento critico: la formazione del personale. Che è cosa, naturalmente, indispensabile. Ma la forma del distacco, prevista dalla norma, non è certamente la più facilmente praticabile. Posto, cioè, che le risorse di tecnici e amministrativi sono mediamente limitate, o comunque tarate verso il limite minimo organizzativo, se una parte delle trentasei ore settimanali dovrà essere dedicata al lavoro in tandem, con i tecnici dell'Agenzia del Territorio, immagino un livello di criticità molto prossimo al crash. Infine, l'esclusione di qualsiasi forma di esternalizzazione del servizio, giustificata con la necessità di non gravare ulteriormente sulle finanze pubbliche, ha uno strano aroma di ipocrisia: come appena ricordato, in fatti, quanti enti possono disporre di personale eccedente da assegnare alle nuove funzioni? Se poi si considerano le restrizioni alle assunzioni, sempre riproposte e mai allentate, si può rapidamente verificare che il carico di lavoro sarà pressoché insostenibile. E dei trasferimenti finanziari sinora non ha parlato nessuno. Così, se il maggior costo del trasferimento sarà pressoché interamente a carico delle autonomie locali, il cerchio sarà chiuso. L'unico zuccherino, ad oggi, è fornito dalla gradualità con la quale la documentazione cartacea sarà trasferita agli enti, previa verifica del progressivo adattamento operativo e professionale dei comuni alle nuove funzioni. Ma sembra davvero troppo poco.

venerdì 23 febbraio 2007

La fiducia è una cosa seria

Il dodecalogo con il quale il presidente del consiglio uscente/rientrante si è presentato ai suoi fedeli alleati dovrebbe costituire una sorta di programma minimo per continuare a governare il Paese. Non è ancora dato sapere se il Presidente della Repubblica accetterà questa soluzione o ne proporrà un'altra: le ipotesi non si esauriscono in due o tre alternative. Una cosa è però certa. Nessuno dei dodici punti affronta uno qualsiasi degli innumerevoli temi posti dalla finanza locale in questi mesi. Se si esclude, infatti, il punto 7 (immediata riduzione significativa della spesa pubblica e dei costi della politica), nell'agenda del secondo Prodi non si trova spazio per le autonomie e anche il contenimento delle spese ripete stancamente il solito refrain: se è rivolto agli enti locali, cioé, siamo tentati di ribattere un classico "da che pulpito!"; se, al contrario, si riferisce alla propensione agli sprechi delle amministrazioni dello Stato, ci esclude anche dall'unico punto plausibile e si resta a guardare il grande gioco della politica.
Proviamo allora a integrare quella fatidica lista con alcune proposte che avrebbero dovuto essere inserite, almeno come postille, e che invece restano per ora nei desiderata delle amministrazioni locali. L'elenco che segue è rigorosamente in ordine sparso.
1. Libertà di assunzioni agli enti finanziariamente sani. Poiché la maggior parte dei comuni non rientra nei vincoli del patto di stabilità, non si capisce per quale motivo anche questi debbano sottostare a restrizioni sul turn-over che riducono inevitabilmente la qualità dei servizi offerti.
2. Approvazione in tempi rapidi del Codice delle Autonomie, senza però ammannirci negli anni a venire lo stillicidio di modifiche che ha crivellato il corpo del vecchio TUEL, costruendo un testo snello e sufficientemente operativo.
3. Dare agli enti certezza di risorse finanziarie per un arco temporale ragionevole. Non come accade da troppo tempo, con le Amministrazioni costrette a costruire bilanci provvisori in attesa della comunicazione ufficiale dei trasferimenti all'ultimo minuto (a proposito, da oggi sul sito del Ministero dell'interno, sono consultabili tutte le spettanze per il 2007).
4. A proposito di autonomia fiscale, renderla finalmente reale, rifiutando il concetto per il quale, se il patto di stabilità non è rispettato, la prima sanzione è l'incremento forzoso del prelievo tributario, neanche si trattasse di enti dissestati.
5. Razionalizzare le richieste di trasmissione che provengono dagli enti. Oggi, ogni volta che trasmettiamo a un ente pubblico elenchi, schemi e tabelle contenenti dati anche minimamente sovrapponibili, dobbiamo duplicare, triplicare le informazioni perché le amministrazioni riceventi tra loro non comunicano. Se e-government dev'essere, che sia reciproco.
Vi sono certamente questioni anche più urgenti sul tappeto, per le autonomie locali, ma l'impressione è che neppure quelle citate, goccia nel mare, saranno prese in considerazione.

giovedì 22 febbraio 2007

La nuova frontiera

Si diceva ieri della indeterminata sorte dei provvedimenti attuativi della Finanziaria 2007. Tra questi, ve n'è uno che possiede un valore finalmente universale, unendo nelle aspettative positive enti minori e grandi centri. Al comma 893, infatti, si istituisce il Fondo per il sostegno agli investimenti per l'innovazione negli enti locali. Specificamente, si tratta di finanziamenti da destinare a "interventi di digitalizzazione dell'attività amministrativa", rivolti in modo particolare a facilitare i rapporti con cittadini e imprese. La somma stanziata non è mastodontica, benché comunque significativa, data l'assoluta essenzialità dell'obiettivo: 15 milioni di euro. In attesa che il decreto necessario per fissare criteri di assegnazione e erogazione esca dal pantano istituzionale di queste ore, è comunque interessante fare quattro conti per verificare quali misure un comune di piccole dimensioni (la tipologia più frequente nel territorio nazionale) può progettare per migliorare la qualità dei propri servizi. Nonostante la solennità di un termine come 'digitalizzazione', più prosaicamente alle realtà minori serve soprattutto un sistema informatico efficiente e stabile. Il costo rapidamente in calo dell'hardware rende più che conveniente investire ogni anno somme non impossibili per rinnovare il parco delle postazioni informatiche. I punti centrali diventano dunque due: la qualità del software applicativo e la costante formazione degli addetti ai lavori. E' inutile predisporre uffici con i migliori PC sul mercato se non si scelgono fornitori adeguati per la gestione delle procedure e se non si crede alla istruzione perenne del personale. Non è certo sufficiente qualche nozione di videoscrittura o fogli elettronici per ritenere di avere rispettato i criteri minimi di alfabetizzazione informatica. E questo è vero purtroppo anche per le categorie meno elevate: anche un collaboratore amministrativo non può essere ignaro di come funzioni un database e di come serva proteggerne costantemente l'integrità. Basterebbe dunque partire da qui. Un serio e rinnovabile programma di istruzione sulla gestione delle banca dati (vero cuore del sistema informativo di qualsiasi ente locale) insieme a un acquisto intelligente di applicativi che sul mercato non mancano. Sarà necessario spendere somme aggiuntive per farsi consigliare al meglio da un professionista del settore? E sia. Sarà sempre un esborso inferiore a quello attualmente verificabile in (quasi) tutti gli enti, terreno di caccia di commercianti hard/software molto più interessati a gonfiare il fatturato che a migliorare la qualità dei servizi digitali delle amministrazioni (e del resto, quest'ultimo non è davvero compito loro). Se, con il decreto, il Ministero dovesse chiedere indistintamente la realizzazione di progetti di innovazione particolare, potremmo reagire chiedendo invece di investire quote significative di quei fondi per dare a tutti gli enti un livello di informatizzazione decente. Ne guadagnerebbe quello che viene definito 'Sistema Paese' e, contemporaneamente, cittadini e imprese della singola realtà. Ovviamente, chi questi passi li ha già compiuti (e sotto questo profilo vi sono esempi di municipi davvero brillanti nella semplificazione attraverso la tecnologia) chiederà, al contrario, appoggio per traguardi più ambiziosi (la sete di innovazione non si placa, per chi si appassiona). Gli altri, che purtroppo sono maggioranza (mi piacerebbe essere smentito), stavolta dovrebbero alzare la voce e chiedere con insistenza di non raccoglierne solo i rimasugli.

mercoledì 21 febbraio 2007

Le briciole del panettone

Le notizie dello scenario politico nazionale sovrastano oggi tutti gli altri argomenti. Ma in realtà, mai come questa volta, ciò che accade a Roma produce i propri effetti a catena su tutto il resto del territorio. Così, dopo aver masticato per settimane (e non abbiamo ancora finito) una legge mastodontica e piena di sorprese, già dobbiamo fare i conti con un possibile cambio di governo, con tutto quel che segue. E' vero che gli scenari possibili questa sera sono molti e molto differenti per le conseguenze che avrebbero sulla politica economica nazionale. Tuttavia, proprio in relazione alle diverse ipotesi formulabili, ciascun ente si chiede cosa accadrà delle norme contenute nella Finanziaria e, soprattutto, se e quale forma prenderanno i provvedimenti attuativi che da quel coacervo di commi devono derivare nei prossimi mesi. Non sono evidentemente questioni di poco rilievo se si tiene conto della linea d'azione dettata all'interno della legge che opera decine di interventi 'pesanti', tra i quali moltissimi bisognosi di una specificazione ulteriore (qualcuno si è per caso preso la briga di farne un sintetico censimento?). Si propone, insomma, un dilemma tecnico-politico. I dirigenti dei ministeri competenti avranno comunque la possibilità e l'autonomia per produrre la messe di decreti e interpretazioni oggi necessaria?

martedì 20 febbraio 2007

Pochi, maledetti e subito

Numeri interessanti, benché tutt'altro che definitivi, escono da un primo esame delle deliberazioni adottate dai comuni riguardanti l'addizionale IRPEF. Interessanti perché, nonostante le preoccupazioni sollevate nelle ultime settimane (quelle dei datori di lavoro per le infinite diversificazioni di aliquote ed esenzioni, consentite dalla norma, quelle dei lavoratori per la facoltà data agli enti di elevare il prelievo fino allo 0,8%, in un colpo solo), gli incrementi delle addizionali sono stati approvati da meno di un comune su dieci. Per amore di verità, i comuni indecisi hanno ancora un mese abbondante di tempo per introdurre o elevare l'aliquota, fino cioè al 31 marzo, data ultima (ad oggi) per l'approvazione del bilancio di previsione. Resta il fatto che solo gli enti che hanno deliberato e comunicato le aliquote entro il 15 febbraio potevano beneficiare di acconti 2007 calcolati sull'addizionale tempestivamente aggiornata. In sostanza, un comune che non ha mai applicato l'addizionale o che l'ha azzerata prima o durante il blocco, se non si è affrettato, vedrà gli incassi dell'addizionale solo alla fine dell'esercizio (se va bene). Questo evidente svantaggio riduce la possibilità che da qui a fine marzo aumentino in modo significativo gli enti che introdurranno o aumenteranno l'aliquota opzionale. D'altronde, vi sono, benché pochissimi, enti che prima del 15 febbraio hanno azzerato o ridotto un'aliquota applicata in precedenza. E conviene precisare che, tra gli enti neo-impositori, vi sono anche quelli che applicano esenzioni dall'addizionale per redditi entro una certa soglia. Tutti questi esempi di virtuosità fiscale (o di limitata persecuzione, secondo i punti di vista), insieme alla mancata corsa al rialzo, dovrebbero far riflettere chi si ostina a ritenere l'addizionale comunale la dimostrazione finale della natura vessatoria delle amministrazioni. Certo, gli enti preferirebbero una compartecipazione all'IRPEF duratura e proporzionale al gettito territoriale. Ne verrebbe, tuttavia, danneggiata qualsiasi politica redistributiva e perequativa per le realtà svantaggiate. In secondo ordine, sarebbe preferibile una compartecipazione come quella che si prefigura per i prossimi anni, in percentuale fissa per ciascun ente, salvo appunto il riequilibrio anti-sperequativo. Se, insomma, ciò fosse possibile, i sindaci non chiederebbero maggiore autonomia fiscale per introdurre l'addizionale, la cui impopolarità è seconda solo all'ICI (ma solo perché gli italiani sono una nazione di proprietari della casa in cui abitano).
Nonostante la cronica carenza di risorse, il ricorso all'aliquota opzionale si è dunque rivelato moderato. E sì che il blocco durava da ormai cinque anni. Vale la pena di osservare che questo è anno elettorale per una percentuale ampiamente minoritaria degli enti locali. Il che significa che la gran parte di essi è ancora nel periodo nel quale è statisticamente più probabile che gli amministratori giochino la carta fiscale per finanziare i propri programmi elettorali. Certo non è opportuno mettere il carro definitivamente davanti ai buoi: attendiamo i primi di aprile per avere le conferme o le smentite del caso.

lunedì 19 febbraio 2007

La livella

Altro che Imposta di scopo, altro che ICI. Soprattutto, altro che Addizionale comunale all'IRPEF. L'inchiesta sparata oggi in prima pagina da Il Sole-24 Ore svela uno dei segreti peggio custoditi dalle amministrazioni comunali: le multe per infrazioni stradali sono sempre più di frequente il salvagente dei bilanci degli enti locali. Il dato è, ad un tempo, impressionante (per dimensioni finanziarie medie) e coerente (con le ristrettezze alle quali non si sa spesso come far fronte). Al di là, infatti, degli eccessi citati nelle pagine rosa (come quel comune livornese di 1.500 abitanti che con un autovelox è riuscito ad accertare la bellezza di 1 milione e settecentomila euro in un solo anno), non è assolutamente un mistero che la possibilità offerta dalla tecnologia di cogliere in fallo gli automobilisti e quindi incassarne le ammende sia sfruttata ordinariamente come risorsa supplementare per finanziare la spesa corrente. Certo, da qui a raggiungere (se non superare) il gettito complessivo delle entrate tributarie ce ne corre. Ma, possiamo osservare senza tema di essere smentiti, che il famoso articolo 53 della costituzione, quello che introduce il concetto di capacità contributiva, trova un pilastro essenziale nelle sanzioni stradali. Si tratta o no della forma più democratica di tassazione? Vabbé, la troviamo mascherata da punizione pecuniaria, ma, in fondo, si tratta pur sempre del prezzo da pagare per indulgere nel più italico dei vizi: la velocità su strada. Di fronte al quale nessuna distinzione di classe e censo regge a lungo. Risolto (forse) il problema sociologico, resta un busillis contabile non indifferente. E certamente più serio, almeno sotto il profilo dell'equilibrio finanziario di lungo periodo. Se è vero che le entrate da multe sono per natura economica sicuramente extratributarie, quindi correnti, è altrettanto pacifico che la loro alea dipende, a differenza dei tributi in senso stretto o delle tariffe per le prestazioni di servizi, da elementi non predeterminabili: ad esempio, dalla virtuosità degli automobilisti, dalla loro propensione all'autolesionismo (se sanno della presenza dell'infernale macchinetta), dagli effetti positivi dell'obbligatoria spesa per prevenire le infrazioni (finanziate come noto con una quota di quegli stessi proventi). Tutti elementi questi che contribuiscono a trasformarle in un'entrata incerta. Non sottovaluterei in sintesi il rischio che queste entrate possano diventare, surrettiziamente, una sorta di 'oneri di urbanizzazione di nuova generazione': potenzialmente una miniera d'oro, ma il cui filone rischia di esaurirsi senza preavviso.

domenica 18 febbraio 2007

Debitum manent

La Corte di cassazione è da sempre croce e delizia degli amministratori degli enti locali. Come è scontato che sia, dato lo spettro delle competenze che le sono affidate. Sentenze spesso controverse e talvolta contraddittorie accompagnano il quotidiano lavoro di uffici legali e segretari comunali nella ricerca di un lineare percorso giurisprudenziale che li aiuti a costruire una difesa vincente in giudizio. Negli ultimi tempi è stata soprattutto l'ICI la materia più esaminata nelle pronunce della magistratura suprema. Con la sentenza n. 1752 del 26 gennaio scorso, invece, siamo entrati per l'ennesima volta nel terreno minato degli incarichi professionali. Brevemente, la contesa giuridica nasce dalla decisione di una giunta comunale di non liquidare a un professionista le parcelle per la direzione lavori (poi revocata) relativa a una struttura adibita a mercato. L'incarico era stato assegnato con regolare deliberazione, ma non era stato successivamente sottoscritto dalle parti alcun contratto, il che era sufficiente per l'amministrazione comunale a ritenere di poter resistere in giudizio contro l'inevitabile citazione del professionista. In appello il tecnico era riuscito ad ottenere quanto inizialmente sperato, ma il successivo ricorso al giudice di merito ha definitivamente dato ragione al comune. E la ragione è proprio quella inizialmente addotta dall'ente: in assenza di contratto in forma scritta, non esiste alcun incarico, nonostante la deliberazione dell'organo esecutivo che assumerebbe l'esclusivo valore di autorizzazione a sottoscrivere la convenzione con il direttore dei lavori. Può darsi che il tecnico se ne faccia una ragione, anche perché la successiva revoca dell'incarico fa supporre il sorgere di contrasti di altra natura tra committente e professionista. Ma in linea generale, mi sembra che la questione non si possa dire completamente risolta. Anzì, semmai sorgono almeno due ordini di problemi: il primo attiene alla dimensione finanziaria dell'incarico. La Cassazione, di fatto, pone una soglia (indeterminata) d'ingresso oltre la quale la deliberazione d'incarico non avrebbe di per sè autonomo valore giuridico ("complesse opere di progettazione o di direzione dei lavori"). E dunque ci si chiede se a questa sentenza possano d'ora in poi appellarsi altre amministrazioni per giustificare la mancata liquidazione di prestazioni professionali per le quali manchi una separata sottoscrizione. L'aspetto più delicato, invece, è essenzialmente contabile. La deliberazione d'incarico, regolarmente adottata, non può non aver contenuto il parere di regolarità contabile e l'attestazione di copertura finanziaria. Quindi, l'atto (che in linea teorica non dovrebbe essere ritenuto nullo) è divenuto esecutivo ed è stato successivamente comunicato al professionista per poter essere richiamato nei documenti fiscali da lui emessi in acconto delle sue prestazioni. Che sono state svolte proprio sulla base di quell'atto. Ora la Corte lo ritiene inefficace. Dall'ufficio del Sindaco sento provenire un sapido profumo di debito fuori bilancio. Se, come sembra, sia il primo cittadino sia l'assessore delegato al commercio hanno, con lettere separate, avallato l'incarico della giunta, hanno realizzato la fattispecie più tipica del debito fuori bilancio, quella prevista dall'art. 194, lett. e), D.Lgs. n. 267/2000: "acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza." Quello che non salderà l'ente, graverà dunque presumibilmente sulle loro spalle.

sabato 17 febbraio 2007

Festa dell'Unità

Il Grande fratello di orwelliana memoria si mette all'opera sugli enti locali. Nasce, infatti, grazie al comma 724 della Finanziaria 2007, l'Unità per il monitoraggio. "Al fine di assicurare un controllo indipendente e continuativo della qualità dell'azione di governo degli enti locali", premette il legislatore. Il quale non si rende conto di essersi cacciato in un tremendo pasticcio. Oppure sì. Il mostruoso lavoro che attende questa commissione (della quale non è ancora stata determinata la composizione, in attesa del consueto decreto ministeriale attuativo) non sostituisce, per esplicita previsione dello stesso comma, il compito istituzionale della Ragioneria generale dello Stato e della Corte dei conti. Queste ultime continueranno a effettuare controlli a campione e, nel caso soprattutto della magistratura, sulla base di segnalazioni di danno erariale. Ma l'Unità no. L'Unità è destinata a sobbarcarsi il peso della verifica delle dimensioni organizzative ottimali degli enti locali "anche mediante la valutazione delle loro attività, la misurazione dei livelli delle prestazioni e dei servizi resi ai cittadini e l'apprezzamento dei risultati conseguiti." Quest'opera davvero improba non può funzionare decentemente senza la collaborazione degli stessi enti controllati. E infatti avete capito benissimo come andranno le cose. I membri della commissione (saranno parecchi perché la Finanziaria stanzia ben 2 milioni di euro per il primo anno di funzionamento) attenderanno pazientemente che i controllati inviino montagne di dati (ce ne informerà presto il decreto attuativo), possibilmente non cartacei, che saranno poi elaborati e studiati e sintetizzati. Ne uscirà uno studio ponderoso da presentare con regolarità al Parlamento. Mi immagino già l'aula semivuota seguire con attenzione sonnolenta il resoconto del sottosegretario agli interni, comandato per l'occasione.
Oppure, in alternativa, l'Unità controllerà qualche decina di enti all'anno, per non essere costretta all'inattività, e il valore statistico della sua indagine sarà così prossimo allo zero. L'effetto collaterale della prima ipotesi è che gli enti dovranno programmare altro tempo per riempire il database che ci sarà indicato (ovviamente incompatibile, sennò che gusto c'è, con qualsiasi altro già utilizzato in precedenza, ad esempio quello per il monitoraggio delle spese per il personale, ricco e articolato come pochi altri). La seconda ipotesi, invece, farà ricadere il peso dell'Unità su pochi sfortunati estratti. Il Bingo può cominciare.

venerdì 16 febbraio 2007

Children's corner

Sul sito del Ministero dell'interno è stato pubblicato lo scorso 12 febbraio l'importo assegnato a ciascun comune sotto i 5.000 abitanti relativo al maggior contributo ordinario previsto dalla lettera b) del comma 703 della Finanziaria. Quella lettera assegna, fino al 2009 compreso, una somma complessiva di 71 milioni di euro agli enti nei quali il rapporto tra bambini residenti fino a cinque anni e popolazione residente è superiore al 5%. Un incentivo, insomma, alle collettività giovani. Il vincolo richiesto dalla legge è che almeno la metà del maggiore contributo sia destinati a politiche di natura sociale. Il comune dove lavoro riceverà una somma pari a 150.000 euro (solo 9 enti in tutta la regione, raccolgono una somma superiore). Si tratta di uno dei comuni con la maggiore presenza di stranieri residenti in percentuale sull'intera popolazione, su tutto il territorio nazionale. E se la cava non male anche in numeri assoluti. I 75.ooo euro che dovranno essere spesi nel sociale sono da soli sufficienti a finanziare un anno di attività degli insegnanti di sostegno per la scuola dell'obbligo. Nella pagina web accanto, sono inoltre riepilogate le assegnazioni per quanto previsto dalla lettera a) dello stesso comma: altri 55 milioni di euro da destinare, anche qui almeno al 50%, per "interventi di natura sociale e socio-assistenziale". Siccome questa quota è assegnata ai comuni dove la popolazione residente è più anziana della media, per il mio comune non c'è neppure un euro (in tutta la provincia, solo cinque comuni, tutti di montagna, hanno ottenuto la loro quota). Vorremmo proporre una osservazione sul contributo dato al ringiovanimento della popolazione dalle coppie extracomunitarie. Vorremmo fare un riferimento alla effettiva redistribuzione di tale maggiore contributo sull'intera popolazione (infantile o meno, lo deciderà la Giunta). Ci asteniamo, non per obiettività, che non esiste, ma perché sarebbe davvero pleonastico. Lasciamo parlare i numeri.

Frettolosamente

Perché lo struzzo giallo pubblica un modello di comunicazione relativo ai dati su consorzi e partecipate? Il comma 587 della Finanziaria parla di invio "in via telematica o su apposito supporto magnetico". Non si fa riferimento ad alcun indirizzo di posta elettronica, né ad alcun formato dei dati. Se ne dovrebbe dedurre, come accennato ieri, che il Dipartimento della Funzione pubblica debba dare istruzioni operative sulla trasmissione. D'altronde, la scadenza non è dietro l'angolo (30 aprile). Il tempo per un piccolo decreto c'è.

giovedì 15 febbraio 2007

De Coubertin insegna

Nel fiume carsico delle disposizioni di una Finanziaria raramente così logorroica, cinque commi si insinuano a imporre un nuovo adempimento agli uffici finanziari. Si tratta del quintetto che va dal n. 587 al n. 591. Vi si dice che ciascun ente locale deve comunicare annualmente al Dipartimento della funzione pubblica una serie di dati riguardanti le partecipazioni dell'ente a consorzi (intesi in senso stretto, naturalmente; il che esclude le convenzioni per l'esercizio di alcuni servizi) e società. La mancata trasmissione è sanzionata in modo già determinato, quindi con una sufficiente dose di efficacia e perentorietà: da un lato, gli enti non potranno erogare somme a favore delle entità partecipate a qualsiasi titolo. Se, nonostante il divieto, ciò accadesse comunque, il Ministero decurterà dai trasferimenti a favore dell'ente una quota pari a quanto erogato in violazione. Sarà sicuramente necessario un decreto ministeriale per approvare le specifiche di trasmissione, visto che è previsto esclusivamente il sistema telematico o comunque informatico. In questa disposizione sono contemplate le partecipazioni infinitesimali degli enti a società che, ad esempio, gestiscono forniture di acqua o gas, e quelle, molto più significative, in società appositamente create per la gestione di servizi da parte di enti di dimensioni significative. Credo che il problema principale, per la maggior parte degli enti, nasca qui. Laddove la partecipazione è consistente o, addirittura, maggioritaria, il rapporto con gli organi societari è evidentemente paritario e la comunicazione di dati e notizie sostanzialmente biunivoca. Non poco diversa è, invece, la situazione (per numero di enti coinvolti, certamente più frequente) di una partecipazione frammentaria in società di capitali. Nonostante la costante tiritera secondo la quale l'efficienza del privato è, per definizione, nettamente superiore a quella del pubblico, chiunque si sia trovato nella situazione ricordata, avrà sperimentato la frequentissima tendenza della struttura di queste società a fornire quasi con riluttanza i dati relativi alla propria attività.
Sarà la quantità di soci, che moltiplica le fotocopie da distribuire, sarà la scarsa attenzione verso azionisti, che, probabilmente, non hanno neppure un membro nel consiglio di amministrazione, fatto sta che i documenti più elementari restano quasi un segreto industriale. Le nuove disposizioni dovrebbero eliminare qualsiasi alibi e restituire un dignitoso livello di collaborazione con gli enti che, di fatto, sono la società partecipata.

Giusta osservazione

A pagina 8 della guida "La Finanziaria per gli Enti locali" de Il Sole-24 Ore, pubblicata lo scorso lunedì all'interno del quotidiano, trova conferma la teoria che vuole i collegi dei revisori di enti fino a 15.000 abitanti in carica sino a scadenza naturale del mandato in corso. Al momento del rinnovo si dovrà procedere alla nomina del revisore unico. L'autorevole opinione è di Carmine Cossiga, membro, tra l'altro, dell'Osservatorio sulla Finanza e la contabilità degli enti locali.

mercoledì 14 febbraio 2007

Modello di completezza

Ora che il documento pdf è disponibile, insieme alle relative istruzioni di compilazione, sul sito delle Finanze, possiamo finalmente chiarire come sarà possibile per il datore di lavoro (o per il CAF delegato) compensare l'ICI del dipendente che desidera presentare la dichiarazione dei redditi semplificata, meglio nota come 730. O forse no. Chiarire è verbo definitivo, non lascia spazio ai dubbi. Che qui invece, in certa misura, sorgono. L'introduzione, a partire proprio da quest'anno, a facoltà del contribuente, del modello F24 per il versamento dell'ICI ha aperto la strada per l'integrazione del debito dell'imposta comunale con (anche) il credito derivante dalla dichiarazione dei redditi. Così, nel quadro I del modello 730/2007, il contribuente può, barrando l'apposita casella, autorizzare il CAF a utilizzare il credito IRPEF scaturente dalla dichiarazione per assolvere il debito ICI (interamente). In alternativa, è possibile indicare esplicitamente l'ammontare di ICI che si intende versare, autorizzando il datore di lavoro a rimborsare la differenza fra credito IRPEF e debito ICI. In ogni caso, il quadro è sufficiente in sè a fornire agli operatori interessati i dati necessari alla liquidazione, comunicati direttamente dall'interessato. Allora non si capisce quale sia il valore informativo del precedente quadro B, nella sezione I. Nella colonna 9, per i soli fabbricati, si chiede di indicare l'imposta comunale sugli immobili dovuta per il 2006. Anche nella sezione II è prevista la compilazione della colonna 6 per indicare "l’anno di presentazione della dichiarazione ICI relativa all’immobile in questione", dove la questione di riferisce alla possibilità di ottenere una riduzione d'imposta se il comune dove insiste l'immobile è ad alta densità abitativa, ma quest'ultimo dato non è una novità, essendo presente da tempo. In ogni caso, rileviamo che i dati dell'ICI dovuta sono comunque parziali, perché il contribuente potrebbe possedere terreni e aree fabbricabili (queste ultime, in ogni caso assenti da una dichiarazione dei redditi, essendo a questo fine improduttive). In quest'ultima ipotesi, poi, trattandosi di dati relativi ai versamenti, gli enti ne sono comunque in possesso, sia che riscuotano tramite concessionario, sia che abbiano adottato la riscossione diretta. Anche fossero le prove generali per le annate a seguire, il modello sarebbe comunque carente, perché l'ente non potrebbe confrontare questi dati con quelli risultanti dalla compensazione con F24. Il modello Unico del prossimo anno sarà il primo a contenere i dati delle variazioni ai fini ICI, e sostituirà a tutti gli effetti qualsiasi comunicazione diretta ai comuni. Speriamo nel frattempo si diradi un po' la nebbia ancora stagnante nelle stanze ministeriali.

martedì 13 febbraio 2007

Troppa grazia

Avete notato, come è capitato a me in queste settimane, qualcosa di nuovo in edicola? L'effetto Finanziaria produce, ormai da qualche anno, un moltiplicarsi di iniziative (inserti speciali, paginate a tema, fascicoli da vendere a parte) di entrambi i quotidiani economico-finanziari soprattutto, ma non solo, dedicate agli enti locali. Questo fiume di inchiostro, negli ultimi anni, si è ingrossato, a conferma di un'acquisita consapevolezza da parte dell'editoria professionale: che esiste una platea di lettori esigenti e preparati oltre i consueti settori dell'industria e dei servizi. La qualità dell'informazione è un elemento cruciale nella interpretazione della complessa (spesso, purtroppo, complicata) evoluzione normativa in Italia. E anche nei comuni operano funzionari che meritano l'attenzione che, tradizionalmente, si dedica ai temi dell'economia privata. Sarà anche merito (o colpa, secondo i punti di vista) del ruolo della finanza pubblica europea e dunque italiana nella rincorsa alla competitività degli ultimi anni. Il fatto è che l'interdipendenza tra pubblico e privato richiede di approfondire sempre di più gli aspetti specifici della gestione delle realtà locali e sono anni che, a questo proposito, non ci si accontenta più di qualche articolo ogni tanto e di una pagina ad hoc a settimana.
E infatti, consapevoli di questa sete di analisi seria, collateralmente, dalle case più rinomate continuano a nascere come funghi periodici tecnico-amministrativi, generalisti o di settore, e l'editoria mette in campo risorse importanti per conquistare quote di un mercato che, in questo caso, è per di più chiuso. Tanta attenzione merita dunque di essere ricambiata con altrettanto interesse. A coloro che propongono servizi editoriali agli enti locali diamo perciò un consiglio spassionato. La fiducia di chi opera attorno al mondo delle autonomie si conquista con l'approccio pratico delle proposte, perché l'operatività è indispensabile, al contrario della teoria. Privilegiare internet rispetto all'editoria tradizionale, poi, può essere una carta vincente, a patto che quest'ultima sia sempre un'alternativa possibile.

lunedì 12 febbraio 2007

Frutta fresca

Con piglio deciso, l'ANCREL torna a discutere dell'estensione del revisore unico ai comuni fino a 15.000 abitanti. Sceglie la consueta platea dello struzzo giallo, che le dedica una pagina periodica, e adopera argomenti forti (ben noti) per sostenere la causa dei collegi perduti: nuove e più vincolanti funzioni di controllo, svalutazione della professionalità del revisore, attività complessa anche nelle piccole realtà.
Dobbiamo supporre che un intervento pubblico sul secondo quotidiano economico nazionale rifletta la posizione ufficiale dell'associazione. Questo dovrebbe indurre l'estensore della nota a pesare toni e concetti. E tuttavia soffia nel pezzo una brezza autolesionistica che non dovrebbe lasciare indifferenti i membri della stessa ANCREL; e pure amministratori e funzionari dovrebbero in qualche modo sentirsi chiamati in causa. Andiamo per ordine. Si sostiene, fin dalle prime righe, che in molti enti è diventata pratica comune una sorta di trattativa sottobanco (definita nell'articolo niente meno che 'mercimonio') per accaparrarsi il revisore che si propone con il compenso più basso. Anche fosse dimostrata la presenza di un suk del professionista (e un'affermazione di questa gravità andrebbe come minimo sostenuta da qualche dato effettivo, se non statisticamente rilevante), non si capisce perché dovrebbero sentirsi responsabili solo gli Amministratori. Da quando in qua i revisori hanno la necessità di lavorare presso gli enti locali? Svolgono un servizio di alta professionalità e hanno il diritto di esigere le tariffe minime che l'ordine ritiene inderogabili. Qualora un Sindaco giochi al ribasso, si alzi la posta, oppure si abbandoni il tavolo. Si sostiene poi che spesso (anche qui, si dice una cosa che molti di noi hanno spesso pensato, ma che non è dimostrabile se non con una buona dose di qualunquismo) i revisori nominati siano prescelti attraverso un criterio di affinità politica con l'amministrazione in carica. Anche in questo caso, suddividerei equamente le colpe. Se nell'associazione ci sono mele marce, le si escluda dal cesto da esporre in vetrina. Direi però che l'argomento più controproducente è quello che caratterizza il resto dell'articolo. Si sostiene, in un velato gioco di sottintesi, che, poiché nelle realtà più piccole gli uffici finanziari, normalmente ridotti all'osso, riescono con sempre maggiore fatica a operare un controllo di gestione coerente ed efficace, laddove ci riescono, il ruolo del revisore potrebbe essere addirittura sostitutivo del ragioniere. Concludendo, con un parallelismo davvero singolare, che se i revisori possono essere ridotti di numero, anche il dipendente debba essere trattato alla stessa stregua, e dunque licenziato se non riesce a tenere testa al suo ruolo. Mi sembra che il senso delle proporzioni vada ripristinato. Se non altro per ricordare che le responsabilità del revisore sono ampie ma sempre delimitate da un'autonomia operativa pressoché totale. A differenza di chi, lavorando nella struttura, è periodicamente sottoposto a pressioni di natura e direzione differenti, senza avere la stessa libertà di movimento. Gli enti locali hanno bisogno dei revisori e, nei comuni dove questi ultimi sono in sintonia professionale con gli uffici ragioneria, questa collaborazione dà frutti di efficienza valevoli a lungo termine. Non varrebbe la pena di diminuire il tono della polemica, se è la qualità della pubblica amministrazione di cui ci si preoccupa davvero?

domenica 11 febbraio 2007

Non piace a troppi

Parafrasando un vecchio film con la Bardot, si potrebbe dire: "Non piace a troppi". L'avvicinarsi della scadenza per l'approvazione del bilancio 2007 ha fatto scoprire le carte delle amministrazioni comunali. Il grande flop della stagione si chiama: imposta di scopo. Saranno molto pochi i Consigli comunali che vi ricorreranno per finanziare una quota del costo di un'opera pubblica. Il Sole-24 Ore di oggi ne fornisce un rapido resoconto, demograficamente trasversale, poiché coinvolge le grandi città e i comuni di minori dimensioni. L'insuccesso è alimentato da una serie di svantaggi, anche concomitanti, che rendono addirittura rischiosa l'introduzione del tributo. Si va infatti dalla possibilità che l'opera progettata non possa essere iniziata per ragioni esogene (una procedura di esproprio, ad esempio), innescando una procedura di rimborso che può comportare anche elementi di danno erariale a carico degli amministratori (verosimilmente dei consiglieri che ne hanno approvato l'introduzione), alla vera e propria idiosincrasia che le amministrazioni provano nei confronti di un'imposta (sempre che sia corretto definirla tale) che funge da addizionale all'ICI, il tributo più inviso ai Sindaci d'Italia. Si chiedono, infatti, i Sindaci più rappresentativi perché debbano essere solo i soggetti passivi ICI a finanziare la quota dell'opera pubblica. In ogni caso, pare che il problema concreto non si porrà in maniera statisticamente rilevante, e l'imposta potrebbe rapidamente essere destinata alla rottamazione.
Vorremmo qui aggiungere alle considerazioni del quotidiano milanese, un'altra ragione dello scarso appeal della IdS. Una ragione molto meno politica e più di opportunità tecnica. Ricapitolando: l'IdS è un tributo, quindi deve essere introitato al titolo I. Finanzia una spesa d'investimento, che quindi deve essere imputata al titolo II. Prima complicazione: per i cinque anni di applicazione, l'ente deve andare in avanzo economico; non è un problema in sè, ma la chiarezza dei documenti di bilancio rischia di andare a farsi benedire.
Non c'è dubbio, inoltre, che la sua contabilizzazione pone qualche disagio supplementare. Dovendo scorporare l'IdS dall'ICI introitata, sarà necessario ad ogni accredito suddividere quanto di competenza della prima e quanto della seconda. Tenendo conto che da giugno il contribuente potrà utilizzare il mod. F24 per il versamento dell'ICI, sia che la riscossione passi attraverso un concessionario o che sia gestita direttamente, sarà più complicato accedere rapidamente ai dati d'incasso e operare la corretta divisione delle somme.
Niente di insormontabile, certamente. Ma un inutile aggravio di procedure del quale non si sentiva davvero la necessità.

sabato 10 febbraio 2007

L'erba fasciata

Sillogismi pericolosi si diffondono nella discussione su come migliorare la produttività nel settore pubblico. La logica appare stringente. Le amministrazioni pubbliche sono inefficienti. I comuni sono pubbliche amministrazioni. Dunque i comuni sono inefficienti. Mai come in questo caso, però, direi che sono necessari, di più: indispensabili, dettagliati distinguo. Che andrebbero ribaditi con la stessa enfasi con la quale si procede al ragionamento deduttivo. Mi riferisco, in particolare, al pure interessantissimo dibattito originato la scorsa estate da un intervento appassionato di Pietro Ichino sulla sostanziale impunità del dipendente pubblico di fronte a palesi violazioni dei propri doveri d'ufficio. L'interesse del tema sta, mi sembra, nella necessità di scoperchiare finalmente una pentola che ha continuato a bollire senza che qualcuno si ricordasse di spegnere il fuoco. Cioè, diciamo senza troppi trucchi che ci sono sacche di inefficienza, nella pubblica amministrazione, che tutti sanno esistere (se non altro per aver frequentato qualche ufficio pubblico) ma che, finora, hanno goduto di una sorta di immunità per ragioni molteplici (non necessariamente riconducibili alla protezione sindacale, che pure ha giocato un ruolo importante). La discussione si è poi ulteriormente sviluppata con l'intenzione di giungere a un protocollo comune che, finalmente, su base legale, restituisca dignità a chi svolge bene il proprio compito e sanzioni in modo certo chi invece preferisce imboscarsi. E chi non è d'accordo con un messaggio del genere? Il punto è che, in gran parte degli interventi (le eccezioni esistono sempre a confermare la regola), la valutazione dell'efficienza è riferita in modo semplificato alla Pubblica Amministrazione nel suo insieme, senza operare una distinzione di metodo (prima ancora che di merito) tra i suoi numerosi comparti e senza verificare che quanto si riporta abbia valore erga omnes. La difesa d'ufficio di un intero settore (quello appunto degli enti locali) non ci compete; tanto più che all'interno dello stesso comparto le differenze di efficienza sono a mio parere sostanziose. Ma quello che va considerato innanzitutto è il rapporto tra numero di dipendenti della P.A. interessata e numero di potenziali "clienti". Una distribuzione statistica di questo tipo farebbe emergere, credo, la difficoltà operativa nella quale lavorano migliaia di enti, fra l'altro limitati nelle loro possibilità di assumere dai vincoli più recenti dei D.P.C.M. tuttora in vigore, nonché da quelli introdotti a carico dei comuni soggetti al patto di stabilità. Tali limiti si riflettono nella qualità complessiva dei servizi offerti e, nonostante ciò, molti enti svolgono i propri compiti più che egregiamente. Se poi l'ARAN rileva incrementi nelle retribuzioni pubbliche fuori linea rispetto all'inflazione, dovrebbe essere automatico procedere a disaggregare quei dati e dimostrare se di tale aumento sono responsabili e in che misura le amministrazioni locali. Di fatto, come è noto, la contrattazione decentrata integrativa può pesare in modo sostanzioso sul totale delle retribuzioni. Tuttavia come non sottolineare che, un conto è sostenere che tali incrementi sono omogenei all'interno del comparto ministeriale, altro invece ritenere che ciò sia dimostrabile per ciascuno degli ottomila enti nei quali il compenso incentivante è oggetto di contrattazione con la parte pubblica. In ballo c'è non solamente la sburocratizzazione degli apparati (desiderio generalizzato a cui si associano anche i comuni, quando hanno a che fare con enti pubblici elefantiaci), c'è direi la percezione (tuttora pessima) che l'opinione pubblica ha del dipendente pubblico e, dunque, di quello comunale. I primi a doversi distinguere siamo ovviamente noi. Ma la mancanza di oggettività nell'informazione può solo peggiorare le cose.

venerdì 9 febbraio 2007

Indegnità di carica

Questa la segno rapidamente sul taccuino. Oggi è arrivato in visita semiufficiale il console della Slovenia. Il comune è gemellato con una cittadina di laggiù. Per rappresentanza, vuoi che il Sindaco e la giunta non lo portino fuori a pranzo? Però, accidenti a voi, non facendosi rimborsare dall'economo! Sembra provare un sottile piacere, il primo cittadino di turno, a infischiarsene bellamente di qualsiasi regola minima di gestione delle spese. Il fenomeno dei debiti fuori bilancio, oggi, si tenta di addebitarlo a una faciloneria dei responsabili dei servizi. Mi sembra invece che, anche negli esborsi di minori entità, non si possa far finta di non vedere una sostanziale recidiva dell'esecutivo nell'allegra attribuzione a destra e a manca di incarichi la cui unica premessa è un impegno verbale. Tutto ciò si verifica, specie nelle realtà più piccole, a prescindere da qualsiasi indicazione contraria e, cosa ancora meno accettabile, da parte di amministratori di lungo corso, abituati a frequentare più il municipio che il proprio tinello. C'è poi un'aggravante collaterale: l'acquiescenza a un tale andazzo da parte del segretario comunale. Il clima di generale sufficienza con il quale sono accolte le rimostranze di chi, correttamente, fa presente che una tale procedura è al di fuori di qualsiasi criterio legittimo è il sintomo di una superficialità ad amministrare che, purtroppo ma inevitabilmente, si riflette sulla qualità della gestione complessiva. Sarei curioso di apprendere quanto diffuso sia questo malcostume.
Nel frattempo, guardo il calendario. Fra due settimane è fissato il prossimo incontro con il revisore. C'è già uno scontrino sospetto che lo attende...

giovedì 8 febbraio 2007

La promozione laterale

Una scrivania nuova, tutta sua. Un panorama fantastico, vista sulla città. Anche l'aumento gli avevano concesso, compresa la categoria superiore. Cosa voleva di più? Eppure, qualcosa non gli tornava. Mentre, sulla sua fiammante poltrona in pelle, rigirava fra le dita il tagliacarte d'argento che la moglie gli aveva regalato a Natale, rifletteva sul suo futuro. E sul suo passato. Provava una sensazione ovattata di accantonamento: d'altronde, di cosa di lamentava, aveva accettato in meno di un quarto d'ora la proposta del Direttore generale di coordinare una fantomatica unità operativa creata appositamente nella dotazione organica. Insieme a lui, un istruttore direttivo e quattro categoria C, trasferiti in un batter d'occhio dalle rispettive aree. 'Ufficio per l'assistenza giuridica', l'avevano denominato. Il cimitero dei dinosauri, gli pareva. Età media dei cinque: cinquantatre anni. Nessuno laureato in giurisprudenza, compreso lui. "Con il suo curriculum e l'esperienza accumulata in venticinque anni di carriera, non le serve certo aver passato l'esame di diritto romano" gli aveva detto il Direttore. Se ne era convinto solo dopo che ebbero varcato la soglia del nuovo ufficio. Gli arredi luccicanti avevano, ma solo per un attimo, annebbiato la sua vista. Gli ritornò, infatti, immediatamente dopo. Il tempo di rendersi conto che, così, aveva perduto la strada maestra verso la dirigenza, preclusa forse per sempre. Ma era quello il suo vero traguardo? Aveva sempre pensato che raggiungere un ruolo di prestigio in una pubblica amministrazione fosse il non plus ultra. Posto al sicuro, sino alla pensione. Settimana di trentasei ore, qualche straordinario solo se necessario. Responsabilità mai adeguata alla retribuzione (cioè, bassa la prima, alta la seconda), tranne per quei flagellanti dell'ufficio a fianco, destinati a firmare a ripetizione documenti potenzialmente compromettenti senza un benefit in più di quelli che assegnavano a tutti gli altri. Tuttavia, non si era prefissato un limite. Il comune è grande, ogni ripartizione ha il suo dirigente, pensava. Posso arrivarci anch'io. Certo, una volta lì, i risultati avrebbe dovuto garantirli davvero, altrimenti poteva dire addio alla retribuzione accessoria. Ma che gli importava. Con il tabellare garantito, compresa l'indennità di posizione, si sarebbe portato a casa ogni mese quello che oggi poteva solamente sognare. D'altronde, i colleghi non è che gli fossero mai particolarmente andati a genio. Tutti impegnati in una corsa a chi faceva di più o di meglio. Per avere una fetta più grande del compenso incentivante, certo. Mai creduto alle buone intenzioni. Negli ultimi anni, poi, non si era curato troppo delle voci che circolavano sul suo conto. Niente di personale, per carità. Solo un insistente ronzio che ripeteva: fannullone, fannullone... Una nenia così fastidiosa che aveva smesso di farci caso: l'impermeabilità del giusto. Non era certo uno stakanovista, ma al giorno d'oggi chi lo vorrebbe essere. Il suo motto rimaneva sempre: 'lavorare per vivere', mica come quegli illusi del piano di sotto: pensa, diceva tra sè e sè, a volte non si fanno neppure liquidare gli straordinari. E non sono nemmeno posizioni organizzative. In fondo, cosa c'era di meglio?
Poi gli venne in mente un articolo che aveva letto tempo fa in un settimanale, mentre aspettava il suo turno dal barbiere. Tra un
gossip e la recensione di un ristorante era spuntata questa inchiesta sui dirigenti americani e sulle tecniche adottate per incentivare il personale. C'era un metodo, appunto, in auge da quelle parti: il principio di Peter, l'avevano denominato. Fai carriera fino a che non raggiungi il tuo livello di incompetenza. Poi, prima che sia troppo tardi, ti offrono una lateral promotion. Costa un poco cara, ma mai quanto i danni che produrresti se salissi un altro gradino della gerarchia. Non ci aveva più ripensato, da allora. Neanche quando il Direttore generale lo aveva fatto accomodare nel suo studio, per illustrargli la proposta. Solo ora ricordava.
Si alzò dalla poltrona e si voltò verso la città. Nel riflesso della splendida vetrata, i suoi occhi sorridenti si mischiavano al traffico di mezzogiorno.

mercoledì 7 febbraio 2007

Il limite della derivata

Quando apparvero per la prima volta, ad inizio millennio, nel mezzo di una Finanziaria al solito eclettica, furono salutati da una salva di risate (preoccupate) da parte di coloro che avversavano la "creatività" dell'allora ministro valtellinese. Ricevettero, al contrario, il plauso incondizionato di quanti subivano, da amministratori locali, il peso del debito per spese di investimento contratto con i più disparati istituti di credito (Cassa DD.PP. Spa in primis). Era la prima volta che le banche, dopo aver prestato denaro a costi elevati (di mercato, per carità) nei decenni pre-euro, potevano presentarsi in Comune con il compito di risanare gli enti sommersi fino al collo nelle rate di ammortamento. L'era degli swap cominciava. Certo le proposte suonavano vantaggiose alle orecchie dei sindaci, desiderosi di incamerare i generosi up-front che gli istituti proponevano. I tassi erano bassi ed entrambe le parti avrebbero concluso un affare conveniente. La montagna del debito da rinegoziare era tale che qualsiasi conversione di mutui a tasso fisso in altrettanti prestiti a tasso variabile (nelle infinite varianti dello swap-system) dava una boccata d'ossigeno alle esigue casse comunali. Ingolositi da questo ben di dio, alcuni amministratori pensarono bene di improvvisarsi raider, manco fossero Gordon Gekko, e gli swap sugli swap sarebbero diventati molto popolari, non fosse intervenuto un primo stop ministeriale, nel dicembre 2003. Il secondo stop al proliferare della finanza derivata lo diede il rialzo progressivo dei tassi, a segnare il veloce tramonto della prospettiva di liquidità facile facile. Ora, questi strumenti (croce e delizia degli uffici ragioneria, specie quando si tratta di spiegare all'Assessore di turno la differenza tra cap, floor e collar), finita l'euforia (e forse la convenienza a buon mercato) mantengono il loro ruolo di cuscinetti, per ammorbidire la pesantezza di quote interessi e capitale tuttora elevatissime. Ma il Ministero non crede alla buona fede dei comuni. E le briglie sciolte diventano improvvisamente strettissime. La circolare MEF del 31 gennaio ne è esempio lampante. Riprendendo le norme della L. 296/2006 che ridisegnano le opportunità di finanza derivata per gli enti locali, ne elenca le alternative, ma soprattutto, ben mascherati da una patina di ammiccanti vantaggi (essenzialmente, l'ampliamento delle operazioni possibili), i vincoli. Dunque i comuni non si facciano troppe illusioni: la cuccagna è finita. Ora, entra in azione la swap-police. La circolare (figlia di tanta madre) infatti:
a) conferma il divieto tassativo dell'utilizzo dei derivati sui derivati;
b) richiede dall'operatore finanziario la certificazione di una società di
rating (ma l'assunzione di rischi così sostanziosi non può certo essere appannaggio di un Credito cooperativo qualsiasi);
c) obbliga gli enti a inviare al Ministero, prima di firmare qualsiasi contratto derivato, tutta la documentazione rilevante, anche per operazioni già concluse benché non formalizzate; adempimento talmente vincolante che, se si omette la trasmissione, il contratto è nullo (da qualche parte, nella circolare, si menziona "
il doveroso rispetto dell'autonomia della finanza locale": sentori di incostituzionalità.....);
d) avverte che, nel malaugurato caso in cui le intimazioni precedenti non fossero raccolte, è pronta un'immediata segnalazione alla Corte dei conti, alla quale non sembrerà vero di raccogliere delazioni così autorevoli senza neppure faticare.
Ma allora, se i derivati sono così pericolosi, perché la percentuale teorica di indebitamento è di nuovo aumentata al 15%?

martedì 6 febbraio 2007

I lupi dell'Ontario

"Ministro, lei è particolarmente amato dagli industriali, i quali hanno individuato nella burocrazia il principale impedimento allo sviluppo del Mezzogiorno. Il lavoro che stiamo facendo con il ministro Bersani è finalizzato alla sburocratizzazione del sistema della Pubblica amministrazione. Appena i nostri disegni diventeranno legge vedrà come cambierà la situazione. Il rinnovamento sarà più che visibile. Un rinnovamento che avverrà sul modello di e-government canadese, che mi sembra quello ragionevolmente più vicino al nostro."
Da un'intervista a Luigi Nicolais, Ministro dell'Innovazione e della Tecnologia nella P.A.

"Per il terzo anno consecutivo, il Canada si colloca al primo posto nella lista dei 22 Paesi che più hanno migliorato i propri servizi on line e le pratiche di e-government. Lo studio "eGovernment Leadership: Engaging the Customer", è stato realizzato per il quarto anno consecutivo dalla società Accenture che ha intervistato oltre 140 senior executive delle agenzie governative americane, europee e asiatiche e ha condotto ricerche separate sulle pratiche di e-Government in 22 paesi.
Accenture ha suddiviso i Paesi presi in esame in cinque livelli: il primo corrisponde al più basso grado di maturità e comprende quei paesi che non vanno al di la della semplice presenza in rete con un proprio sito ufficiale. Al quinto e più alto livello si trovano invece quelle amministrazioni che hanno totalmente trasferito in rete i propri servizi e hanno riscontrato la totale soddisfazione dell'utenza.
Per il momento solo il Canada ha raggiunto il quinto livello, grazie all'efficienza dei servizi offerti e ad un approccio all'e-Government incentrato proprio sulla soddisfazione dei cittadini. Al quarto livello di maturità troviamo Singapore, gli Stati Uniti, la Danimarca, l'Australia, la Finlandia, Hong Kong, la Gran Bretagna, il Belgio, la Germania e la Francia che - secondo il rapporto - hanno raggiunto buoni livelli nei servizi agli utenti e offrono, attraverso i propri portali, "servizi importanti e utili ai cittadini".
L'Italia si piazza al terzo livello assieme a Olanda, Spagna, Giappone, Norvegia e Malaysia. Questi Paesi sono dotati di portali di base, ma hanno assunto l'impegno a rendere disponibili on line al più presto altri importanti servizi su cui già si sta lavorando assieme ad agenzie esterne."
Dalle cronache a proposito dell'indagine annuale 2003 sull'e-government di Accenture.

"Per quanto riguarda infine l'Italia, l'indagine ha messo in evidenza la limitata penetrazione di Internet e dei servizi di eGovernment. Tuttavia, nonostante permanga la propensione ad utilizzare il contatto diretto per la fruizione dei servizi pubblici – ad esempio gli sportelli o il telefono - vi è una percezione positiva, soprattutto da parte dei giovani, nei confronti dell'eGovernment e delle sue possibili evoluzioni."
Dall'indagine annuale 2006 sull'e-government di Accenture.

"(...) In alternativa ai motori di ricerca tradizionali, il punto di partenza per un viaggio nel web della Pa può essere il portale del Governo. Un ambiente internet identico a quello della precedente "gestione", fatta eccezione per l'aggiunta di rettangoli colorati attraverso i quali accedere direttamente alle pagine interne o consultare documenti di vario genere e di altrettanto vario appeal: dalla Finanziaria 2007 all'Albero del programma; dal Dpef all'Agenda di Caserta. Una volta entrati nella sezione dedicata ai ministeri, si può proseguire la ricerca. Ammesso di capire dalla semplice denominazione chi fa che cosa. (...) Troppo spesso tocca al navigatore farsi largo a colpi di mouse per trovare ciò di cui ha bisogno. Con delle conseguenze paradossali. Valga un esempio per tutti: un imprenditore vuole partecipare a una fiera; si connette via internet allo Sviluppo economico; accede alla sezione dedicata alle aziende; legge "Convegni, eventi e fiere" e crede di essere a buon punto. Peccato che l'avvenimento più recente, tra quelli pubblicizzati, risalga al giugno 2004. (...)"
Più vetrine che servizi sui siti del Governo, Il Sole-24 Ore, lunedì 5 febbraio 2007

S
pesa pro-capite per l’e-government nei Paesi dell’Unione Europea:
Svezia 101, Danimarca 89, Finlandia 75, Lussemburgo 69, Regno Unito 57, Olanda 36, Francia 32, Germania 25, Repubblica Ceca 22, Austria 20, Estonia 15, Irlanda 15, Belgio 14,
Italia 13, Portogallo 13, Slovacchia 13, Spagna 11, Malta 10, Grecia 6, Cipro 5, Ungheria 5, Lituania 3, Lettonia 1, Polonia 1, Slovenia 1
Fonte dati 2006 eGep (eGovernment Economics Project)

lunedì 5 febbraio 2007

Piè di lista

Tra meno di quattro mesi (circolano le prime indiscrezioni intorno a un week-end di fine maggio) molti enti rinnoveranno i consigli e nuovi amministratori riempiranno le sale e gli scranni per far sentire la propria voce. Anche nel mio comune si affilano le armi e la situazione è più o meno questa: il sindaco uscente non sarà candidato dalla sua lista. Sta dunque cercando alleati (senza badare troppo al bacino d'utenza) per ripresentarsi: d'altronde, non accetterebbe qualcosa di meno della fascia tricolore (non avendo competenze particolari, la rappresentanza alle feste comandate gli calzerebbe a pennello). Il penultimo sindaco, dopo essere restato fermo un giro (accidenti al terzo mandato che non arriva mai!), può finalmente tornare in carica. Ha un sacco di gente che lo conosce e, anche se non lo stima, lo voterebbe, se non altro per legami di famiglia o professionali (tanto sapete di che professione parlo...). Poi ci sono le eterne minoranze, che quando si presentano divise vanno incontro a una sicura batosta. Allora, stavolta hanno (almeno finora) superato le reciproche diffidenze e si propongono sotto la bandiera di una lista civica fuori dal campo di influenza venefica dei partiti. Per tutti loro, oggi, il problema più grande è: chi metto in lista? La questione non è per niente peregrina. L'ultima volta, la lista che poi ha vinto era così a corto di nomi (e non parlo delle idee) che ha dovuto riempire il carnet con il figlio di un candidato e la sorella di un altro. Come pretendere, poi, che qualcuno eletto con questi criteri possa programmare l'attività pluriennale di un mandato amministrativo? E' come se, nei consigli di amministrazione delle società commerciali, la proprietà mettesse solo membri estratti a sorte e poi si affidasse alla provvidenza (nell'accezione meno manzoniana possibile). Per questo, vorremmo che non ci ripetessero troppo spesso che se gli amministratori sono il treno, i dipendenti comunali sono la stazione e che, di conseguenza, non fa alcuna differenza chi governa, perché tutto scorre. Non è vero che le maggioranze sono tutte uguali. Purtroppo, se abbiamo a cuore la qualità del nostro lavoro, ce ne accorgeremo presto.

domenica 4 febbraio 2007

La base ATO

La guerra è appena iniziata e probabilmente non durerà poco. Chi l'ha dichiarata era perfettamente consapevole del putiferio che avrebbe scatenato. La fazione pacifista, infatti, non vuole mediare: sospensione immediata o la crisi politica sarà grave e duratura. A gettare acqua sul fuoco (letteralmente) ci ha pensato Enrico Letta. Solo per qualche giorno, però; poi anche quella evaporerà. E allora... Non siamo a Vicenza. Non centrano gli eserciti, per ora, almeno. E al posto dell'oro nero, ci si contende la gestione di quello che qualcuno ha già definito 'blu': l'acqua. Questione delicatissima, perché il giro d'affari mosso dalla sua distribuzione è elevatissimo, perché le implicazioni ecologiche sono sempre più evidenti (a partire dall'asimmetria distributiva a livello mondiale, anche all'interno dello stesso stato, come accade in Italia, e dal consumo smodato nei paesi più industrializzati), perché è l'ultimo baluardo dei fautori dell'intervento pubblico in economia e i privatizzatori ad ogni costo non ci stanno. Le conseguenze, però, dovrebbero interessare tutti. Il quadro che si delinea è piuttosto chiaro: da un lato, le grandi aziende municipalizzate e le ATO provinciali che già oggi coprono una fetta maggioritaria del mercato (basta guardare il fatturato per mc. realizzato dalle prime 10 imprese del settore, pubblicato su il Sole-24 Ore di oggi); dall'altro, i comuni (sempre di meno) che ancora gestiscono in proprio la distribuzione, mantenendo quindi anche la proprietà della rete. Per questi ultimi le prospettive di redditività sono al lumicino e legate esclusivamente alla presenza sul territorio di un depuratore funzionante. La redditività della sola distribuzione dell'acqua, come è noto, è addirittura nulla per le gestioni in economia, poiché vige il limite di copertura dei costi all'80% che ha, tra l'altro, impedito di adeguare nel tempo le tariffe (in Italia già più basse che nel resto d'Europa). In questo modo, i proventi del canone di fognatura, per gli enti che gestiscono un loro depuratore, hanno una destinazione prioritaria a finanziare la manutenzione dell'impianto e, una volta coperti i costi di struttura e quelli (pochi) variabili, sono impiegati in altri settori, prevalentemente quelli dei servizi alla persona (assistenza, istruzione, ecc.). Gli investimenti sono però sempre più onerosi e l'unica soluzione nel medio periodo sembra proprio quella di cedere alle pressioni delle ATO provinciali. Le quali, peraltro, non essendo soggette a limitazioni di copertura e, anzi, dovendo fare profitti, finiranno per trasferire sugli utenti i maggiori costi di gestione. Le gestioni in perdita, onestamente, sono un controsenso economico anche nelle piccole pubbliche amministrazioni. Anche perché i deficit obbligatori sono comunque coperti da tributi o altre tariffe locali. Perciò, ben vengano le macrostrutture che possono liberare risorse per altre esigenze di spesa. A patto però di vedere che le economie di scala siano destinate a migliorare il servizio. Ci saranno meno sprechi, se l'acqua costa il doppio? Auspicabilmente, sì. Ma le municipalizzate non sono enti orientati all'ecologia. La privatizzazione della rete e, presumibilmente, della gestione devono essere accompagnate da un controllo sui prezzi costante. Altrimenti, anche chi modera i consumi pagherà l'acqua in regime di oligopolio.

sabato 3 febbraio 2007

Gazzetta Quiz

Vi piacciono i rebus? No? Beh, dovrebbero, perché a leggere la Gazzetta Ufficiale in questi giorni sembra di affrontare la Settimana della Sfinge. Parliamo ovviamente della carambola di correzioni che hanno tormentato l'entrata in vigore del Codice degli Appalti.
E' cominciato tutto con la pubblicazione del decreto che corregge il D.Lgs. n. 163/2006 e che però, non contenendo norme esplicite, sarebbe entrato in vigore dopo l'ordinaria vacanza di quindici giorni. Il che determinava la conseguenza di accavallare la validità di alcune norme del nuovo codice con la 'vecchia' Merloni del 1994, rendendole tutte di fatto inapplicabili (per alcune, liberalizzazione della trattativa privata, appalto integrato di progettazione e costruzione, dialogo competitivo, centrali di committenza, la proroga era prevista sino al 1° agosto di quest'anno). All'errore (di stampa?) rimedia con tempismo olimpico il legislatore che nel numero di ieri reintroduce l'immediata (?) vigenza delle correzioni, con decorrenza quindi 1° febbraio. Evidentemente c'è un alone di magia nera che avvolge il Codice, poiché anche nello scorso mese di luglio si era verificato un intoppo come quello descritto. In quel caso si era trattato di un buco clamoroso, perché la sospensione del Codice era stata adottata addirittura dieci giorni abbondanti dopo la sua effettiva entrata in vigore. Così il rimedio era stato comunque tardivo, benché irrinunciabile.
Lo sviluppo dello strumento dei codici è sicuramente benefico per la razionalizzazione del sistema di leggi che ci regola. Pare, però, che da qualche parte ci sia un agente al servizio di Sua Maestà Pioggia normativa che intende sabotare questa tendenza.