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mercoledì 7 febbraio 2007

Il limite della derivata

Quando apparvero per la prima volta, ad inizio millennio, nel mezzo di una Finanziaria al solito eclettica, furono salutati da una salva di risate (preoccupate) da parte di coloro che avversavano la "creatività" dell'allora ministro valtellinese. Ricevettero, al contrario, il plauso incondizionato di quanti subivano, da amministratori locali, il peso del debito per spese di investimento contratto con i più disparati istituti di credito (Cassa DD.PP. Spa in primis). Era la prima volta che le banche, dopo aver prestato denaro a costi elevati (di mercato, per carità) nei decenni pre-euro, potevano presentarsi in Comune con il compito di risanare gli enti sommersi fino al collo nelle rate di ammortamento. L'era degli swap cominciava. Certo le proposte suonavano vantaggiose alle orecchie dei sindaci, desiderosi di incamerare i generosi up-front che gli istituti proponevano. I tassi erano bassi ed entrambe le parti avrebbero concluso un affare conveniente. La montagna del debito da rinegoziare era tale che qualsiasi conversione di mutui a tasso fisso in altrettanti prestiti a tasso variabile (nelle infinite varianti dello swap-system) dava una boccata d'ossigeno alle esigue casse comunali. Ingolositi da questo ben di dio, alcuni amministratori pensarono bene di improvvisarsi raider, manco fossero Gordon Gekko, e gli swap sugli swap sarebbero diventati molto popolari, non fosse intervenuto un primo stop ministeriale, nel dicembre 2003. Il secondo stop al proliferare della finanza derivata lo diede il rialzo progressivo dei tassi, a segnare il veloce tramonto della prospettiva di liquidità facile facile. Ora, questi strumenti (croce e delizia degli uffici ragioneria, specie quando si tratta di spiegare all'Assessore di turno la differenza tra cap, floor e collar), finita l'euforia (e forse la convenienza a buon mercato) mantengono il loro ruolo di cuscinetti, per ammorbidire la pesantezza di quote interessi e capitale tuttora elevatissime. Ma il Ministero non crede alla buona fede dei comuni. E le briglie sciolte diventano improvvisamente strettissime. La circolare MEF del 31 gennaio ne è esempio lampante. Riprendendo le norme della L. 296/2006 che ridisegnano le opportunità di finanza derivata per gli enti locali, ne elenca le alternative, ma soprattutto, ben mascherati da una patina di ammiccanti vantaggi (essenzialmente, l'ampliamento delle operazioni possibili), i vincoli. Dunque i comuni non si facciano troppe illusioni: la cuccagna è finita. Ora, entra in azione la swap-police. La circolare (figlia di tanta madre) infatti:
a) conferma il divieto tassativo dell'utilizzo dei derivati sui derivati;
b) richiede dall'operatore finanziario la certificazione di una società di
rating (ma l'assunzione di rischi così sostanziosi non può certo essere appannaggio di un Credito cooperativo qualsiasi);
c) obbliga gli enti a inviare al Ministero, prima di firmare qualsiasi contratto derivato, tutta la documentazione rilevante, anche per operazioni già concluse benché non formalizzate; adempimento talmente vincolante che, se si omette la trasmissione, il contratto è nullo (da qualche parte, nella circolare, si menziona "
il doveroso rispetto dell'autonomia della finanza locale": sentori di incostituzionalità.....);
d) avverte che, nel malaugurato caso in cui le intimazioni precedenti non fossero raccolte, è pronta un'immediata segnalazione alla Corte dei conti, alla quale non sembrerà vero di raccogliere delazioni così autorevoli senza neppure faticare.
Ma allora, se i derivati sono così pericolosi, perché la percentuale teorica di indebitamento è di nuovo aumentata al 15%?

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