Too Cool for Internet Explorer

lunedì 18 febbraio 2008

Niagara

La linea è ormai tracciata, dunque non è più tempo di stupirsi. Regoliamoci sulla lunghezza d'onda di un ministero che utilizza criteri di valutazione opposti secondo la propria convenienza. La detrazione statale dall'ICI è alla seconda risoluzione in quindici giorni e già la posizione ufficiale si è delineata. Dopo le ampie prove generali, arriva un quesito specifico che riguarda i residenti all'estero, possessori in Italia di un immobile non locato. Spetta anche a loro la detrazione introdotta dalla Finanziaria? Chi ha letto la prima lunga risoluzione di fine gennaio sa che per il Ministero esistono due tipologie di soggetti passivi ICI: quelli che nell'abitazione principale ci vivono realmente e coloro che, per i motivi più disparati, abitano altri fabbricati. Ciò non significa, però, disporre due soli trattamenti. Ricorda la vecchia storia dell'arabo e dell'israeliano: quando si incontrano e discutono, ne escono almeno tre opinioni diverse. Così è anche per il diritto alla detrazione: chi ci abita, teoricamente, ne avrebbe sempre diritto perché ciò che conta è il fatto che il fabbricato sia adibito ad abitazione principale dal soggetto passivo. Già sono state esposte le versioni per: coniuge non assegnatario (spetta, lo dice la legge); anziani o disabili in casa di riposo (non spetta, lo dice un regolamento comunale); unità immobiliari appartenenti alle cooperative edilizie a proprietà indivisa, adibite ad abitazione principale dei soci assegnatari e alloggi assegnati dagli enti di edilizia residenziale pubblica con uguali finalità (spetta, lo dice la legge); titolare che dà l'abitazione in uso gratuito a parenti definiti (non spetta, lo dice un regolamento comunale). Si aggiunge ora la fattispecie dei residenti all'estero (spetta, lo dice la legge). Qui, tuttavia, si introduce un'ulteriore spiegazione che, a mio avviso, costituisce un'autosmentita della stessa posizione ministeriale. I riferimenti normativi sono tutti al posto giusto ed è diritto del dicastero sostenere che le determinazioni dei singoli enti (benché autorizzate dalla legge) non bastano a fare di un'abitazione un caso meritevole di agevolazione. Così come è nostro diritto ribattere che tale interpretazione risulta estremamente rischiosa, essendo passibile (al limite) di eccezione di incostituzionalità, per violazione del principio di eguaglianza. Piuttosto, fa sobbalzare il penultimo paragrafo della risoluzione nel quale il DPF sostiene quanto segue: "A fondamento del riconoscimento dell’ulteriore detrazione statale anche ai soggetti non residenti in Italia milita anche la circostanza che le norme introdotte in materia di ICI dalla legge n. 244 del 2007 innanzitutto non modificano in alcun modo la nozione di abitazione principale che resta, dunque, fissata dalle norme già esistenti -ed in secondo luogo non recano alcuna limitazione espressa dell’ambito soggettivo di applicazione dell’ulteriore detrazione in esame." Quindi, una sconfessione completa della tesi sostenuta appena ieri: se non esistono limiti espliciti dell'ambito di applicazione soggettivo, allora tutti coloro che sono stati messi alla porta dalla prima risoluzione, rientrano dalla finestra a causa della seconda. Mi sembra, sensatamente, che quest'ultima posizione sia l'unica a potersi dire plausibile e giuridicamente sostenibile. Certo, servirebbe un piccolo sforzo di umiltà ministeriale per correggere le posizioni oltranziste della prima risoluzione per adattarle al principio coerente della seconda. Sperare non costa niente, in fondo.

venerdì 15 febbraio 2008

Senso vietato

Manca poco meno di un mese e mezzo all'ultima chiamata per il bilancio di previsione 2008 (salvo non improbabili ulteriori rinvii) e le cassandre che battono sulla grancassa del fisco locale come spugna mai sazia si ripresentano puntuali con i loro termometri. Misureranno settimana dopo settimana la temperatura di casse comunali esose, libere di incrementare l'aliquota dell'addizionale IRPEF sino all'impossibile 0,8 per cento. E con finto distacco proporranno, cifre alla mano, il quadro di una finanza locale che sfrutta le opportunità della legge, puntando al massimo profitto con il minimo sforzo (una deliberazione del Consiglio, che volete che sia). Fosse tutto così semplice, non dovremmo neppure commentare questo "contaddizionale", coniato dal Lenzuolo rosa con simpatico cinismo. Si registrerebbe il dato di fatto, scevro di ogni commento, e si passerebbe oltre, come un qualsiasi report di quotazioni borsistiche. Non sfugge, tuttavia, all'osservatore più smaliziato che quel tabellino ha un valore oltremodo diverso, poiché è preceduto e annunciato da strilli inequivocabili (quello di lunedì scorso: "Irpef al rialzo nel 31% dei casi"). Che le nude cifre, poi, inevitabilmente, ridimensionino la sparata iniziale serve e non serve. Esaminandole se ne deduce che i comuni che hanno deliberato ad oggi le aliquote per il 2008 sono 567 (il 7 per cento del totale). Se il 31% di questi enti (151) ha incrementato le aliquote rispetto all'anno scorso, è parecchio prematuro concludere che, al 31 marzo, la percentuale di aumento rimarrà la stessa. E' lo stesso quotidiano a rilevare che l'anno scorso, alla stessa data, il numero di enti che avevano deliberato l'addizionale era più consistente (841). E, quest'anno, gli enti avevano una buona ragione in più per affrettarsi ad incrementare le aliquote: per effetto dell'art. 40, c. 7, D.L. 1° ottobre 2007, n. 159, il termine per pubblicare sul sito ministeriale le deliberazioni 2008 è stato anticipato al 31 dicembre 2007. E non si tratta di una scadenza priva di conseguenze, poiché l'acconto d'imposta è calcolato sulle aliquote temepstivamente aggiornate. Ma anche fosse come paventa surrettiziamente il Lenzuolo, e ci ritrovassimo fra un paio di mesi con un deciso balzo in avanti della pressione fiscale locale, dovremmo piuttosto riflettere sul perché esso si sia verificato. Ad oggi, gli enti non sanno quale sarà l'ammontare dei contributi erariali 2008. L'unica certezza è che non aumenteranno, anzi. Non sappiamo neppure quanta parte dei contributi per maggior (sic) gettito ICI verranno (se verranno) restituiti e come saranno calcolati quelli per il 2008 (sempre presunti, in attesa di una certificazione che non vogliono farci presentare). In più, l'autonomia fiscale perde un altro pezzetto con la detrazione ICI a carico dello Stato. Gli incrementi nelle tariffe delle utenze elettriche e per il riscaldamento sono un'altro dato di fatto. Ce n'è a sufficienza per ipotizzare che l'incremento delle aliquote dell'addizionale, alla fine, possa essere anche superiore di quello per il 2007. Ironicamente, se le peggiori ipotesi saranno smentite, a nessuno verrà in mente di complimentarsi con le amministrazioni che, per l'ennesimo esercizio, hanno fatto le nozze con i fichi secchi. Vien quasi voglia di pubblicare l'anti-contaddizionale.

giovedì 14 febbraio 2008

Incubo di mezza primavera

Tale proroga, che modifica il termine fissato al 30 aprile 2008 dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 14 dicembre 2007, è accordata in considerazione del breve tempo a disposizione dei comuni e delle imprese che gestiscono lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani per la comunicazione dei dati relativi all’anno 2007, in quanto il provvedimento, per motivi tecnici di perfezionamento del suo iter, è stato pubblicato in G. U. il 28 dicembre 2007." Ora, da quella data sono trascorsi meno di cinquanta giorni. In questo lasso temporale, l'unico evento di rilievo che ha interferito con l'originaria scadenza è l'ansia montante di tutti coloro che pensavano già alle corse da fare per adempiere in orario a una scadenza nuova di zecca. Per giunta accavallante con almeno altri due momenti clou dell'annata contabile: 1. L'invio al Ministero dell'interno della certificazione del minor gettito ICI stimato in applicazione della detrazione a carico dello Stato e 2. La trasmissione del primo elenco clienti e fornitori a fini IVA, già rinviato dallo scorso anno e non più ulteriormente procrastinabile. In verità ci sarebbe pure la ventilata proroga del mod. 770/2008 Semplificato che un sibillino comunicato stampa avrebbe, appunto, spostato proprio alla vigilia della festa del lavoro (casualità sospette) nonché il presumibile invio del certificato al bilancio di previsione e la seconda edizione della comunicazione dei dati sulle società partecipate. Insomma, i primi caldi porterebbero un tornado di scadenze negli uffici finanziari. Ciò che rende indubitamente comico il rinvio è il fatto che, in primo luogo, non si sia pensato a introdurre già nel provvedimento post-natalizio una scadenza meno oppressiva. Se un decreto attuativo ci mette mesi (in questo caso, ben dodici) prima di essere finalmente partorito, non c'è alcuna ragione perché poi debba contenere disposizioni che accendono la fiamma ossidrica sotto i pantaloni dei funzionari. In questo caso, poi, la legge non stabiliva alcun termine per la pubblicazione del provvedimento, quindi all'Agenzia delle Entrate il tempo era stato ampiamente concesso. E comunque, anche quando la norma fissa un momento preciso entro il quale elaborare i decreti, quale sarebbe la sanzione per non rispettarlo, a carico del dicastero competente? E se entro febbraio non fosse pubblicato quello per la certificazione ICI? In questo caso, con le scadenze non si potrebbe giocare troppo, perché senza quella certificazione lo Stato non aprirebbe i rubinetti dell'acconto. Non è neppure marzo, ma comincio ad avere caldo.

mercoledì 13 febbraio 2008

Responsabilità condivise

Nel segno di una lineare interpretazione normativa, la Funzione pubblica sforna a ripetizione pareri sulla recente Finanziaria, anche quando l'ente che ha proposto l'interpello aveva chiesto lumi su un altro argomento. Tuttavia, questa bulimia insospettabile è di sicuro aiuto dopo l'ennesima mini-rivoluzione ad opera della manovra 2008. Nel parere n. 6/2008 dello scorso 28 gennaio il tema centrale è la possibilità di attingere a una graduatoria concorsuale ancora vigente per poter assumere a tempo indeterminato a copertura di un posto vacante in dotazione organica. Per l'UPPA, il fattore discriminante (in favore dell'ente) è l'aver previsto il posto prima di aver bandito il concorso. In linea generale, il tema non ha necessità di essere sviscerato oltre. Ciò che conta davvero sono le condizioni per poter procedere all'assunzione, che non dipendono in ogni caso dalla teorica possibilità confermata dal dipeartimento. Il comune non è soggetto al Patto di stabilità e quindi soggiace, prima di poter anche solo immaginare di assumere a tempo determinato, al doppio limite della spesa di personale sostenuta nel 2004 e della cessazione avvenuta nell'anno precedente a quello in cui si intende introdurre linfa nuova nell'organico. Quando il quesito è stato posto (17 dicembre, come si evince dal testo del parere) non erano ancora entrate in vigore le deroghe della L. 244/2007 e l'ente doveva verificare prima il rispetto delle due condizioni citate prima di approfittare del lasciapassare ministeriale. E l'asino casca proprio qui. Le nuove disposizioni in vigore da gennaio allargano il corridoio delle assunzioni per fare passare gli enti che, pur non essendo in linea con spesa e cessazioni, presentano valori di due parametri di vecchia conoscenza più bassi della media. Il primo, quello inserito nel gruppo degli otto scelti per certificare gli enti strutturalmente deficitari, deve essere inferiore del 15% rispetto a quello della fascia di appartenenza, applicato alla spesa del personale in servizio. Il secondo, scelto per mettere a confronto dimensioni dell'organico e popolazione residente, deve essere ridotto del 20%. Ma non è tutto. E vero che, come precisa l'UPPA finalmente fugando eventuali dubbi, la deroga funziona sia sul lato della spesa sia su quello del meccanismo del turn-over. Peraltro, se anche i parametri sono matematicamente a posto, il Comune non è esentato dal rispetto della norma generale (Art. 19, c. 8, L. 28 dicembre 2001, n. 448) che invita i revisori ad accertare "che i documenti di programmazione del fabbisogno di personale siano improntati al rispetto del principio di riduzione complessiva della spesa di cui all’articolo 39 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni, e che eventuali deroghe a tale principio siano analiticamente motivate". Quindi, lo scorrimento di quella graduatoria potrà avvenire solo dopo aver documentato in modo analitico la rispondenza di quella nuova spesa a una strategia che deve comunque tendere alla riduzione delle spese di personale. Teoricamente, quindi, se l'assunzione proposta non fosse determinata dalla necessità di sostituire personale nel frattempo cessato, sarebbe difficile convincere il revisore dei conti che quel provvedimento si iscrive in un disegno di razionalizzazione. E però la Funzione pubblica lascia aperte due porte importanti: le motivazioni per assumere, infatti, devono "essere connesse con indifferibili esigenze di servizio di particolare rilevanza debitamente relazionate, nonché, eventualmente, con interventi di potenziamento di servizi all’utenza anch’essi opportunamente rappresentati." C'è molto spazio all'interno di questi concetti, espressi chiaramente ma senza linee di demarcazione che potrebbero evitare applicazioni troppo lasche di una norma che possiede una ratio evidente. Purtroppo, la Funzione pubblica non può andare oltre. Tocca, dunque, a noi.

martedì 12 febbraio 2008

Scienze esatte

Che strana razza, i vicesegretari. Ibrido non indispensabile tra dirigenti e quadri, appare all'orizzonte con l'unica concreta ragione di sostituirsi all'autentico titolare quando quest'ultimo non può essere presente. Ne discende un rapporto affatto speciale tra lui (o lei) e l'ufficio contratti. Quest'ultimo deve sottoporre all'attenzione del vice le scritture da rogare nel periodo di assenza del titolare. E' anche la sua funzione, ora. E non vi si può sottrarre. Con un pizzico di malizia in più possiamo dire che è l'unica funzione amministrativa, intesa in senso stretto. L'assistenza in Giunta e in Consiglio, infatti, rappresenta una mera cortesia con poche conseguenze sulla concreta gestione, data l'assenza ormai decennale di qualsiasi parere di legittimità sulle deliberazioni degli organi collegiali. Se ne ricava, cioè, la sensazione di una categoria di notai in sedicesimo che, non riuscendo a convincere il Sindaco della necessità di affidargli le funzioni di direttore generale, non possono che ripiegare sulla comunque redditizia rogazione dei contratti. E i vicesegretari? Se la figura del titolare di sede assume già contorni sfuocati, figuriamoci quella di chi ne fa le veci. Tranne che, appunto, nell'incamerare le somme dovute per diritti di segreteria. Lì, essa si staglia in tutta la sua sonante autorevolezza e incontestabile utilità. A questo proposito, in un recente intervento della Corte dei conti sarda, si discute di un problema assolutamente prosaico (come quantificare questi diritti quando sono a favore dei vicesegretari), ma per niente trascurabile. Ben sapendo che vi è un limite all'attribuzione del quantum (il ben noto terzo della retribuzione in godimento), si avvicina strisciante l'ipotesi che persino il vice, quando non fa il vice, possa beneficiare di diritti su contratti rogati fino al 33,33% periodico dello stipendio del titolare. La bella pretesa è oggetto del dubbio di un sindaco evidentemente pressato dalle richieste del vice che chiede una lettura pro domo sua della normativa anche contrattuale. La soluzione è dietro l'angolo, benché l'intenzione dell'istante sia malevola. Lo stipendio su cui il vicesegretario può calcolare il terzo è, ahimé, il suo. Quello, certo più succoso, del segretario titolare è suo esclusivo appannaggio, poiché il compenso spettante per rogare i contratti è, di fatto, un'indennità a ristoro del rischio sostenuto quando vengono sottoposti al funzionario testi complessi che possono essere fonte di letture equivoche e, quindi, di rogazioni incaute. Quindi, valutata la portata dell'attività rogatoria, può ben essere affermato che la percentuale di diritti di segreteria spettante deve essere conteggiata sulla retribuzione tabellare del sostituto. A conti fatti, tuttavia, mi chiedo per quanto tempo, in media, un vice salta il fosso e si siede sul trono. Fosse anche per un mese all'anno, è necessaria una fortuna sfacciata, oppure una incredibile generosità del titolare, per rogare nel periodo di vacanza contratti à go-go. Tra l'altro, il parere dei giudici sardi chiarisce anche, a beneficio stavolta dei vice, che lo stipendio da considerare non è quello maturato nel solo periodo di sostituzione, ma quello spettante su base annuale. Se parità di trattamento dev'essere, che almeno non si trasformi in beffa. Infine, benché esuli dal contenuto del parere qui commentato, un appunto va mosso alla prossima parificazione dei segretari ai dirigenti degli enti locali, probabilmente introdotta nell'ordinamento già dal CCNL quadriennio giuridico 2006-2009. Se i vantaggi economici devono essere ancora quantificati, non si vede alcuna ragione per attribuire in modo del tutto posticcio un'identico status giuridico che non corrisponde assolutamente all'assunzione di identiche responsabilità gestionali, ma neppure lontanamente. Anche perché se il segretario produce atti amministrativi vuol dire che è stato nominato responsabile di un servizio, e quindi svolge quelle funzioni non più in veste di segretario. Invece, i quotidiani riempiono colonne su polemiche di secondo ordine (si veda lo Struzzo giallo nell'ultima settimana) che ci allontanano dalla vera ciccia.

lunedì 11 febbraio 2008

Una goccia nel mare

Nella guerra civile degli emolumenti arretrati, agli uffici tecnici tocca perdere una decisiva battaglia, a proposito di un controverso emolumento: l’indennità di vigilanza. Non che fosse mai stata contrattualmente in discussione. Fin dal 1987, con il D.P.R. n. 268 (allora non ci si poteva ancora definire privatizzati, dunque senza un decreto presidenziale non c’era alcun CCNL in vigore), è prevista un’indennità destinata esplicitamente al personale dell’area vigilanza che svolge funzioni di: polizia giudiziaria, polizia stradale, e ausiliarie di pubblica sicurezza, a patto che il Prefetto abbia attribuito a quei dipendenti la qualità di “agente di pubblica sicurezza”. Si tratta naturalmente dell’esito della legge quadro n. 65/1985 sulla polizia municipale che anche di questo si occupava esplicitamente. Ora, alla Corte dei conti veneta è stato sottoposto un preciso quesito in ordine alla spettanza di quell’indennità a favore del personale dell’ufficio tecnico comunale che svolge funzioni di vigilanza, ovviamente in materia edilizia, in particolare nella verifica degli abusi edilizi. Questi ultimi, infatti, sono contestati dagli addetti in qualità di ufficiali di polizia giudiziaria. Questo sarebbe sufficiente, secondo il Sindaco (preoccupato dei risvolti finanziari di una massiccia erogazione di aretrati), a mettere i tecnici in condizione di esigere l’indennità. I contratti successivi, tuttavia, hanno più volte rimesso mano alla disciplina delle indennità, giungendo, infine, alla seguente formulazione, contenuta nell’ultimo CCNL quadriennio normativo 2002-2005 (art. 16 - Indennità del personale dell’area di vigilanza - 1. L’indennità prevista dall’art. 37, comma 1, lett. b), primo periodo, del CCNL del 6.7.1995 per il personale dell’area di vigilanza, ivi compresi i custodi delle carceri mandamentali, in possesso dei requisiti e per l’esercizio delle funzioni di cui all’art. 5 della legge n. 65/1986, è incrementata di € 25 lordi mensili per 12 mensilità ed è rideteminata in € 1.110,84 annui lordi con decorrenza dall’1.1.2003. 2. L’indennità prevista dall’art. 37, comma 1, lett. b), secondo periodo, del CCNL del 6.7.1995 per il restante personale dell’area di vigilanza non svolgente le funzioni di cui all’art. 5 della citata legge n. 65/1986, è incrementata di € 25 mensili lordi per 12 mensilità ed è rideterminata in € 780,30 annui lordi a decorrere dall’1.1.2003.” Senza soffermarci sulla dimensione economica dell’indennità, che qui non interessa, è importante precisare che sotto il tetto del ‘personale dell’area vigilanza’ abitano esclusivamente gli addetti alla polizia locale, che siano o meno in possesso dei requisiti per poter accedere alle funzioni previste dalla legge quadro del 1986. Il CCNL del 2006, infatti, ridetermina gli importi, ma non l’ampiezza del diritto all’indennità. E qui sta il punto. Il Sindaco chiede lumi fondando le proprie perplessità su una sentenza del Consiglio di Stato che darebbe anche ai tecnici dignità di agenti di polizia giudiziaria (nelle occasioni già specificate) e dunque attribuirebbe loro il relativo compenso mensile. E non si tratta di una pronuncia antica, benché non recentissima (n. 7232/2003). Ma ai giudici contabili non par vero di poter smentire, sia pure in un parere, ciò che avevano deciso a Palazzo Spada. Ne risulta una negazione precisa del diritto all’indennità per gli uffici tecnici, poiché quella sentenza “non rileva in quanto decide su una fattispecie diversa ovvero la mancata copertura della spesa e solo incidentalmente tocca la questione della indennità di vigilanza, senza tuttavia esprimersi in merito all’aspetto sostanziale della vicenda.” In questo minuetto di giurisprudenza, però, che valore dare a un ‘parere’ che si sovrappone con tanta sicurezza a una ‘sentenza’. Nello scontro tra giurisprudenza in senso stretto e in senso ampio, non dovrebbe in ogni caso prevalere la prima? Sul terreno, per ora, restano i cannoni ormai inservibili del personale tecnico. Si rifaranno, ne sono certo, con i compensi per progettazioni interne.

venerdì 8 febbraio 2008

Il guardiacaccia

Quando cominciano a mettersi in moto certi meccanismi, fermarli diventa realmente complicato. Nei mesi dell'avversione nei confronti di tutto ciò che sa di politica, il legislatore ha messo in cantiere una lista non esaustiva di norme (quasi tutte confluite nell'ultima Finanziaria) destinate a tamponare quella che sembra diventata un'emergenza nazionale, ben più del cumulo di spazzatura che ristagna nei pressi del Vesuvio. Il variegato elenco è perlopiù costituito da specchietti per le allodole, difficilmente traducibili in consistenti e duraturi contenimenti di spesa. Quelli passibili di efficacia, guardacaso, sembrerebbero essere quelli destinati a limitare una serie di costi a carico delle Amministrazioni locali, per i quali si sarebbe addirittura già quantificato l'impatto positivo sul bilancio consolidato della P.A. Ad esse, tuttavia, se ne aggiunge una che ambiguamente vincola pubblico e privato insieme, producendo effetti ancora non misurabili sull'economia nazionale. Si tratta dell'introduzione del divieto di clausole arbitrali per regolare le controversie in tema di appalti pubblici (beni e servizi nonché lavori). L'essenza dell'art. 3, cc. 19-23, L. 244/2007 è riassumibile in un rapido concetto: il privato è più efficiente del pubblico, ma costa di più. Sembra una contraddizione in termini, a prima vista. Contrapporre la naturale indole dell'imprenditore a stringere i cordoni della borsa per ottenere il miglior risultato possibile alla placida indifferenza dell'apparato burocratico a qualsiasi vincolo di spesa appare davvero azzardato. Eppure è ciò che si sostiene qui. Negli anni, si è calcolato, gli arbitrati decisi da professionisti delle contese contrattuali sono costati troppo. Tanto da far sospettare che dietro tale progressiva espansione ci fossero mire lucrative pure e semplici. E così, la spinta a eliminare questa pratica esosa è arrivata forte nientemeno che dall'ormai uscente ministro, il quale ha ritenuto, rimembrando il suo passato in toga nera, di poter affidare agli ex colleghi il compito di sostituirsi a costo zero ai collegi arbitrali pagati a peso d'oro. Eppure, qualcosa non torna. Se nessuno può tirarsi, in coscienza, indietro di fronte a iniziative che tentano di limitare lo sperpero di risorse pubbliche, è ugualmente vero che consegnare nelle mani dell'attuale sistema giudiziario l'intero pacchetto di controversie d'appalto è altrettanto antieconomico. Quanti anni servono, in media, per chiudere una causa civile? Non meno di cinque, stando a numerose e benemerite inchieste di stampa. E si vorrebbe sostenere che tale procedura è, nonostante ciò, a costo zero? Tra il nero dell'arbitrato selvaggio e il bianco di una magistratura che si occupa di contratti, le sfumature di grigio sono numerose. A partire da una più stringente disciplina che impedisca il formarsi di monopoli arbitrali e permettano un ricambio frequente dei professionisti autorizzati a svolgere quell'attività. Più trasparenza e meno clientele, insomma. Certo, qui c'è di mezzo persino la responsabilità erariale di chi non si cura del divieto, ma il rischio vero e tangibile è che gli investitori esteri rinuncino anzitempo a proporsi per appalti italiani, appena fiutino l'aria stagnante dei tribunali del Belpaese.

giovedì 7 febbraio 2008

Caos calmo

Ossimoro per ossimoro, anche l'INPDAP ci introduce ad almeno un paio di interessanti considerazioni sulla recente Finanziaria e le conseguenze in termini pratici per gli uffici personale. E' tutto contenuto nella tradizionale nota circolare di inizio anno che si premura di fare il punto sulle nuove disposizioni che possono interessare i gestori delle risorse umane nelle amministrazioni pubbliche. E' un testo corposo dal quale estraiamo due punti che, in realtà, sono più collegati di quanto possa sembrare. Al punto 6 si ricorda che l'art. 1, c. 217, L. 244/2007 ha prorogato di quattro mesi (dal 31 marzo al 31 luglio) il termine per la presentazione del Mod. 770, già dal 2008. Manca però un'osservazione decisiva e cioé: il rinvio riguarda esclusivamente il 770 ordinario, mantenendo al 31 marzo il termine per il 770 semplificato, inviato dalla maggioranza degli enti locali. Se si è trattato di svista o di scelta consapevole non è ancora dato sapere. Di certo, quella situazione è già mutata nelle settimane successive. Benché il decreto Milleproroghe non abbia modificato una virgola di quel comma, lasciando ancora senza speranza gli uffici personale, il Ministero ha provveduto con uno specifico comunicato stampa ad avvertire che anche per il modello semplificato si profila il rinvio. Di un solo mese però: sino al 30 aprile. Che senso abbia dare due termini diversi alla stessa dichiarazione (le due versioni si discostano soprattutto per la quantità, non per la qualità dei dati comunicati), nessuno lo sa. Tanto che, nella fase parlamentare di discussione del Milleproroghe, qualche saggio ha proposto di allungare sino al 31 luglio i termini anche per il Semplificato. Tuttavia, ad oggi, nessuna norma giuridica ha cambiato i termini originari, a meno che in una nuova gerarchia delle fonti del diritto, ai comunicati stampa possa essere attribuito un posto d'onore. A questo punto, non ci resta che attendere. E l'attesa si fa ancora più inquietante per la seconda questione ripresa dalla nota INPDAP: l'annunciata semplificazione della dichiarazione dei sostituti d'imposta (art. 1, cc. 121-123, L. 244/2007). Ne abbiamo già parlato nei mesi scorsi, attribuendo alla voglia di scherzare del legislatore questa impropria definizione di un meccanismo che moltiplicherebbe le denunce, altro che semplificarle. Dal 2009, infatti, è previsto l'invio in esclusiva forma telematica al Ministero dell'Economia e delle Finanze di una dichiarazione a cadenza mensile che riporterebbe per ciascun percettore i relativi dati fiscali nonché quelli previdenziali e assistenziali. Per come è costruita, la norma lascia intendere che il decreto attuativo necessario a organizzare il nuovo flusso di dati informerà gli interessati sulla "semplificazione ed armonizzazione di tutti gli adempimenti relativi alla certificazione di cui all’ art. 4 del D.P.R. n. 322 del 1998", cioè il CUD. Nulla è detto sull'eventuale sostituzione della DMA con la nuova dichiarazione. Per l'INPDAP, invece, è tutto chiaro: dal 2009 la DMA sarà assorbita dalla denuncia unica telematica. La granitica certezza dell'istituto ci conforta. Vorremmo però anche comprendere quali sono i termini di tanto ottimismo. Certo, se quel decreto arrivasse subito...

mercoledì 6 febbraio 2008

Le facce toste

La grama esistenza dei giudici del lavoro, che affogano in cause frustranti la cui durata è paragonabile solo a quella dei tribunali civili, è talvolta risollevata dalla moda del secolo: le cause per 'mobbing'. Poiché dell'istituto vessatorio per eccellenza ancora non esiste (almeno nel diritto italiano) una definizione normativa che ne possa circoscrivere l'ambito e chiarire l'attribuzione di responsabilità, ogni volta che quel vocabolo è utilizzato per chiedere risarcimenti pecuniari o riammissioni in servizio i tribunali devono inventarsi letteralmente una giurisprudenza che non c'è e che, nel suo accumularsi, si fa appunto norma. E' come se, per un lungo istante, si instaurasse in Italia un regime di 'common law', confinato alla risoluzione delle angherie subite dai lavoratori. Pubblico e privato, in questo caso, sono categorie di riferimento senza più alcun valore, senza quei confini che qualcuno vede ancora così netti (a favore, ovviamente, dei dipendenti da una pubblica amministrazione, a causa di privilegi su cui generalizzare resta, a mio avviso, un grossolano errore). Qui, però, ogni differenza si stempera e i datori di lavoro (o i superiori in via gerarchica) manifestano uguale cinismo e crudeltà nell'intrappolare le loro vittime in un vicolo cieco, dal quale si esce solo dimettendosi o crollando in depressione. Nella composita galassia delle moderne schiavitù, incontriamo seri casi di violenza morale e comiche richieste di ristoro monetario a causa di indimostrabili angherie. Non potrebbe essere diversamente, finché l'ago della bilancia è il pretore. In una recente sentenza della Cassazione, si giunge a un nuovo, singolare livello di definizione del 'mobbing'. E il paradigma aggiornato è merito di un lavoratore pubblico. Infatti, vince una causa importante la dipendente di un'amministrazione comunale che, assunta con mansioni di coordinatrice economa dell'asilo nido comunale, fu in seguito destinata a svolgere mansioni di "prevenzione e accertamento delle violazioni in materia di sosta", ausiliaria del traffico, insomma. Il tema non dovrebbe contenere elementi di novità significativi, se non fosse che, appunto, la dipendente ha ritenuto che il comportamento dell'amministrazione (anzi, del Sindaco in persona) non dovesse essere sanzionato per evidente violazione di norme contrattuali in termini di esigibilità della mansione di lavoro. A questo proposito, basta partire dal Codice civile (Art. 2103), secondo il quale le mansioni del lavoratore sono quelle "per le quali è stato assunto o considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi." Le declaratorie del contratto del 1999, ancora validissime, contengono le 'caratteristiche essenziali delle funzioni inquadrate nelle categorie e i requisiti fondamentali di preparazione professionale, le esperienze, le capacità, l’abilità, l’autonomia e il livello culturale del lavoratore'. Si tratta però di un documento volutamente generico che per essere riempito di senso specifico deve fare riferimento alle mansioni specifiche del lavoratore e alle disposizioni del datore di lavoro (inteso in senso ampio anche come dirigente dell'ufficio). L'elasticità del giudizio di quest'ultimo, però, non può andare oltre i limiti che gli impone il contratto per la specifica categoria. In questo senso, cioè, le mansioni sono esigibili 'in quanto professionalmente equivalenti'. Nozione che va intesa in senso limitativo, nel senso che sono esigibili solo le mansioni che si equivalgono dal punto di vista professionale, e non si può traghettare il dipendente da un posto all'altro indipendentemente dalla sua specifica preparazione professionale. Nella causa che qui ci interessa, si fa un passo oltre. Perché viene riconosciuta la rilevanza penale di un comportamento chiaramente discriminatorio e penalizzante, che spazia dall'abuso d'ufficio al 'mobbing'. Un monito da prendere con adeguate pinze prima di muovere qualsiasi pedina nello scacchiere comunale.

martedì 5 febbraio 2008

Il cacciatore di aquiloni

L’ossessione nazionale per le tasse (che non piacciono a nessuno ma che, se non altro, rappresentano un male necessario) è come un filo di seta, sottile ma resistente, che collega senza distinzione ogni soggetto politico ed economico. Tutti disposti a fare carte false pur di ottenere qualsiasi vantaggio fiscale. Non che ciò sia un male. Ma quando l’obiettivo rasenta pericolosamente l’elusione, il giudizio positivo si stempera e fa posto a una sensazione di inafferrabilità. Per questo motivo una sentenza della Corte di Cassazione funge da tisana istituzionale, a calmare i bollenti spiriti e, soprattutto, a impedire impropri assalti alla diligenza. C’è di mezzo, come ormai accade di frequente, un avviso di accertamento Ici. A riceverlo è stata una società per azioni il cui oggetto sociale è la produzione di energia elettrica. Ciò che dovrebbe convincere i giudici del diritto all’esenzione della società sarebbe il fatto che quest’ultima agisce in qualità di società partecipata da enti locali (che ne posseggono la maggioranza del capitale) e dunque è a sua volta un soggetto che, benché privato, svolge servizi istituzionali, a beneficio della collettività. Questa tesi è emersa solamente nel terzo grado di giudizio, dopo due opposte decisioni in sede provinciale e regionale. Ma la Cassazione non intende cedere neppure di un millimetro di fronte alle pretese della società. D’altronde, come negare che l’attività produttiva della Spa sia affatto diversa da un servizio istituzionale? In questo modo, non è difficile argomentare che il concetto di servizio pubblico è altro da fine istituzionale e che, in questo caso, la produzione di energia elettrica rientra nella prima fattispecie, poiché è attività commerciale. Non potrà così godere di alcuna esenzione e il caso si chiude. Una delle sentenze più succinte che abbia letto negli ultimi mesi e anche una delle più prevedibili. Perché dunque tanto clamore? Mi concentrerei piuttosto sulla atavica mancanza di una definizione, diciamo così, tranciante del carattere istituzionale di un servizio. Basta la sola assenza di fini commerciali per garantire l’istituzionalità? Se invece di ragionare per esclusione, provassimo a trovare una definizione positiva di servizio istituzionale potremmo iniziare dalla elencazione dei servizi indispensabili dei comuni che fece molti anni fa un decreto del Ministero dell’Interno (D.M. 28 maggio 1993 Individuazione ai fini della non assoggettabilità ad esecuzione forzata, dei servizi locali indispensabili dei comuni, delle province e delle comunità montane): 1. servizi connessi agli organi istituzionali; 2. servizi di amministrazione generale, compreso il servizio elettorale; 3. servizi connessi all’ufficio tecnico comunale; 4. servizi di anagrafe e di stato civile; 5. servizio statistico; 6. servizi connessi con la giustizia; 7. servizi di polizia locale e di polizia amministrativa; 8. servizio della leva militare; 9. servizi di protezione civile, di pronto intervento e di tutela della sicurezza pubblica; 10. servizi di istruzione primaria e secondaria; 11. servizi necroscopici e cimiteriali; 12. servizi connessi alla distribuzione dell’acqua potabile; 13. servizi di fognatura e di depurazione; 14. servizi di nettezza urbana; 15. servizi di viabilità e di illuminazione pubblica. Già all’interno di questa elencazione, peraltro, qualche distinguo è necessario. Per l’esercizio di alcuni di questi servizi, infatti, numerosi enti hanno costituito apposite società di capitali le quali, senza dubbio, sono società commerciali. Quindi la natura istituzionale non sarebbe una qualità intrinseca del servizio ma potrebbe riguardare qualsiasi attività della Pubblica amministrazione, secondo la forma con la quale è gestito. Tesi suggestiva, se non fosse che alcuni servizi non possono assolutamente (perché così dispone la legge) essere esternalizzati: la polizia locale, ad esempio, ma anche lo stato civile. Si deve concludere, allora, che l’unica strada per non finire in un vicolo cieco è procedere in modo parallelo, dopo aver individuato il servizio, escludendo eventuali vincoli di legge e solo dopo verificare che la forma di gestione non ne determini la natura commerciale. Non sempre il solo diritto può dare risposte definitive.

lunedì 4 febbraio 2008

Non iniziate la rivoluzione senza di me

Ci voleva proprio questa risoluzione. Per accelerare i flussi di adrenalina. Per entrare finalmente nel merito della questione. Per continuare a polemizzare con il nostro Ministero favorito. La detrazione statale ICI non è ancora stata concretamente applicata e già stanno nascendo dubbi e problemi a iosa sulla sua portata. Non potrebbe essere altrimenti, data l’assenza di qualsiasi disposizione attuativa ad accompagnare la norma principale. E, poiché dubitiamo che il decreto ministeriale da emettere entro il 28 febbraio vada oltre i prestabiliti confini della forma e del contenuto dell’autocertificazione sul minor gettito d’imposta, sapevamo che presto o tardi l’Agenzia delle Entrate avrebbe sciolto qualsiasi riserva e si sarebbe pronunciata. Attenzione, però. Questa circolare va maneggiata con cura, poiché affronta solo alcuni aspetti della questione, in particolare legati alle fattispecie soggettive che possono usufruire dei benedetti 200 euro. Per tutto il resto, aspettatevi (aspettiamoci) una non breve sequela di interventi nei prossimi mesi, a mano a mano che l’applicazione dell’agevolazione si svelerà in tutta la sua munifica complicatezza. E in una risoluzione lunga sei pagine ci sta di tutto: la banalità e l’invenzione, la forzatura e il dubbio amletico. La banalità: qualcuno ha chiesto al Ministero se la detrazione statale si aggiunge solo alla detrazione standard di € 103,29 oppure anche all’eventuale maggiorazione decisa autonomamente dal comune. Si tratta di un dubbio finto, poiché in ogni caso la detrazione decisa dal comune è unica e quella statale vi si addiziona fino a concorrenza dell’imposta, indipendentemente dalla sua entità. Se, ad esempio, l’ente ha aumentato la detrazione a € 200, è questo l’importo che i contribuenti potranno scalare dall’imposta. A quel punto, se il debito ICI è ancora maggiore di zero e l’immobile per cui si paga l’imposta non appartiene alle tre categorie escluse dal beneficio statale, si applicherà anche la nuova detrazione, fino, eventualmente, all’azzeramento dell’imposta. Tutto ciò, dunque, è assolutamente indipendente dall’ammontare della detrazione comunale. L’invenzione: se prendessimo l’attuale disciplina dei versamenti e la sovrapponessimo a quella introdotta con la Finanziaria 2008, ne ricaveremmo un inestricabile mistero. Infatti, se si deve pagare l’acconto “sulla base dell'aliquota e delle detrazioni dei dodici mesi dell'anno precedente” si potrebbe ritenere che a giugno la detrazione statale non si applica. Il Ministero, generosamente, riconosce che, invece, si può. Ma si inventa una motivazione che non c’entra con il senso della norma. Prima, infatti, ragiona in termini di "irragionevolezza", perché il legislatore vuole agevolare i contribuenti da subito, concludendo con l'affermazione che quella norma si applica in ogni caso, in sede di acconto. Ma non aveva sostenuto, poco prima, che “la nuova ulteriore detrazione è assoggettata ad un regime del tutto autonomo” e dunque che bisogno c'era di invocare l'art. 10, c. 2, del D.Lgs. n. 504/1992? La forzatura: l’Agenzia sostiene che la detrazione statale non si può applicare alle abitazioni che il comune ha, esercitando la propria potestà regolamentare, assimilato a quelle principali (anziani e disabili con residenza in istituti di ricovero che risultano proprietari o usufruttuari di immobili non locati; immobili concessi in uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale). La motivazione sarebbe che la nuova detrazione è un sollievo introdotto dal legislatore ad esclusivo beneficio di coloro che possiedono l’abitazione in cui abitano, “mentre l'assimilazione rappresenta un processo posto in essere dal comune nell'ambito della propria politica tariffaria, che risulta del tutto ininfluente ai fini dell'applicazione della norma in esame.” Questa scelta, che non condivido affatto, evidenzia una furbissima contraddizione. Se i comuni “nell'esercizio della loro potestà regolamentare” alzano la detrazione minima, nessun problema (e ci credo: si riduce il contributo dello Stato); se, invece, “nell’ambito della propria politica tariffaria”, ampliano il novero delle abitazioni principali, il problema si crea (perché inevitabilmente sono comprese più abitazioni di quelle che l’Agenzia sperava). Ricordiamoci che siamo di fronte ad un’interpretazione, dunque a un’opinione (per quanto autorevole). E dunque: la lettera della legge non consente, a mio avviso, di escludere a priori anche i beneficiari delle disposizioni regolamentari che ho ricordato. Pertanto, se davvero il legislatore intende non comprenderle tra quelle beneficiate, dovremo trovare nello schema di certificazione da inviare entro il 30 aprile uno spazio per indicarle separatamente. Altrimenti, mi sentirò autorizzato a non considerarle diversamente e chiederò anche per esse il rimborso di quanto dovuto. Il dubbio amletico: se alcune categorie di abitazioni non possono beneficiare della detrazione (benché il comune le abbia legittimamente assimilate ad abitazioni principali), perché ci si affretta a precisare che gli “alloggi regolarmente assegnati dagli istituti autonomi per le case popolari e dagli enti di edilizia residenziale pubblica aventi le stesse finalità” sono tra i fortunati? Un’assimilazione ex lege statale è più assimilazione di una introdotta ex lege comunale? E non dite che sono letture noiose.

venerdì 1 febbraio 2008

Non è un paese per vecchi

Il cicaleccio di queste settimane intorno alla detrazione statale sull'ICI (disposizione che, prevedo, non ha ancora finito di sorprendere) ha distratto gli operatori dalle conseguenze di una piccola, indispensabile rettifica che la Finanziaria 2008 ha apportato al regime di gestione del servizio di smaltimento rifiuti. La mobilitazione autunnale che aveva chiesto con forza la proroga di un anno del regime TARSU per evitare di finire tutti, indistintamente, nella fornace della tariffa Ronchi, ha avuto infine successo. Ma si è trattato di un semplice ritocco cosmetico che, lasciando immutata la situazione di partenza, non rappresenta in alcun modo il necessario salto di qualità che ci attendevamo. Infatti, mantenere ancora per un anno il sistema di prelievo attualmente in vigore, che significa nella sostanza rimanere in regime TARSU, è doppiamente inutile se: a) non si danno tempi altrettanto certi per l'avvio della tariffa regolata dal Codice dell'Ambiente; b) non si autorizzano gli enti a effettuare un atterraggio morbido passando, sia pure per breve tempo, al regime TIA. Il primo punto è quello che sorprende di meno, purtroppo. Anno dopo anno, l'allungamento senza fine della vita della TARSU è quasi un fatto compiuto. Tuttavia l'entrata in vigore definitiva del D.Lgs. n. 152/2006 è talmente fuori dall'orizzonte normativo attuale che sarebbe stato più onesto e lungimirante ammettere di non poterne prevedere l'avvio in tempi ragionevoli e stabilire che il regime vigente prosegue sine die, o almeno sino al fatidico e inafferrabile T-Day. Tra l'altro, al momento di approvare quell'emendamento, le Camere erano ancora nel pieno delle loro funzioni, dunque sarebbe stato ulteriormente prudente gestire l'epocale passaggio prendendo tempo. Ma, a conti fatti, neppure questa sarebbe stata la soluzione appropriata. C'è infatti un'incomprensibile ottusità nell'imposizione del sistema di prelievo. Che riguarda, come più volte abbiamo ricordato, la maggioranza degli enti locali. I comuni che adottano già il sistema Ronchi rimangono del tutto indifferenti a questa diatriba apparentemente fondata sull'aria fritta. Tutti gli altri potrebbero, al contrario, essere interessati a sviluppare un percorso tariffario coerente che, avendo come obiettivo finale un sistema molto vicino a quello ideato da Ronchi, non dovrebbe escludere a priori la facoltà di un passaggio intermedio da TARSU a TIA per approdare al nuovo sistema. E invece è proprio questo il pessimo esito della proroga. In questo modo, gli enti che vorrebbero non possono, quelli che non ci hanno ancora pensato proseguiranno a non curarsi del passaggio. Penso anche a cosa potrebbe accadere se il nuovo sistema dovesse sparire nell'oblio di legislature brevi e senza sbocchi. Cio che nel febbraio 1997 era nato con l'intento di riorganizzare l'intera questione rifiuti, sarebbe infine utilizzato da un campione poco rappresentativo degli enti locali, che rimarrebbero ancorati a una normativa la quale, a parità di superfici occupate, penalizza chi produce pochi rifiuti e, per converso, offre vantaggi interessanti a coloro che ne producono molti. Il paradosso di tre distinte discipline che convivono contemporaneamente sotto l'identico tetto è, al momento, irrisolvibile. Ai punti, però, vince ancora il regime più vecchio, quasi a dire che il sistema resta irriformabile. Che grande novità...