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mercoledì 6 febbraio 2008

Le facce toste

La grama esistenza dei giudici del lavoro, che affogano in cause frustranti la cui durata è paragonabile solo a quella dei tribunali civili, è talvolta risollevata dalla moda del secolo: le cause per 'mobbing'. Poiché dell'istituto vessatorio per eccellenza ancora non esiste (almeno nel diritto italiano) una definizione normativa che ne possa circoscrivere l'ambito e chiarire l'attribuzione di responsabilità, ogni volta che quel vocabolo è utilizzato per chiedere risarcimenti pecuniari o riammissioni in servizio i tribunali devono inventarsi letteralmente una giurisprudenza che non c'è e che, nel suo accumularsi, si fa appunto norma. E' come se, per un lungo istante, si instaurasse in Italia un regime di 'common law', confinato alla risoluzione delle angherie subite dai lavoratori. Pubblico e privato, in questo caso, sono categorie di riferimento senza più alcun valore, senza quei confini che qualcuno vede ancora così netti (a favore, ovviamente, dei dipendenti da una pubblica amministrazione, a causa di privilegi su cui generalizzare resta, a mio avviso, un grossolano errore). Qui, però, ogni differenza si stempera e i datori di lavoro (o i superiori in via gerarchica) manifestano uguale cinismo e crudeltà nell'intrappolare le loro vittime in un vicolo cieco, dal quale si esce solo dimettendosi o crollando in depressione. Nella composita galassia delle moderne schiavitù, incontriamo seri casi di violenza morale e comiche richieste di ristoro monetario a causa di indimostrabili angherie. Non potrebbe essere diversamente, finché l'ago della bilancia è il pretore. In una recente sentenza della Cassazione, si giunge a un nuovo, singolare livello di definizione del 'mobbing'. E il paradigma aggiornato è merito di un lavoratore pubblico. Infatti, vince una causa importante la dipendente di un'amministrazione comunale che, assunta con mansioni di coordinatrice economa dell'asilo nido comunale, fu in seguito destinata a svolgere mansioni di "prevenzione e accertamento delle violazioni in materia di sosta", ausiliaria del traffico, insomma. Il tema non dovrebbe contenere elementi di novità significativi, se non fosse che, appunto, la dipendente ha ritenuto che il comportamento dell'amministrazione (anzi, del Sindaco in persona) non dovesse essere sanzionato per evidente violazione di norme contrattuali in termini di esigibilità della mansione di lavoro. A questo proposito, basta partire dal Codice civile (Art. 2103), secondo il quale le mansioni del lavoratore sono quelle "per le quali è stato assunto o considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi." Le declaratorie del contratto del 1999, ancora validissime, contengono le 'caratteristiche essenziali delle funzioni inquadrate nelle categorie e i requisiti fondamentali di preparazione professionale, le esperienze, le capacità, l’abilità, l’autonomia e il livello culturale del lavoratore'. Si tratta però di un documento volutamente generico che per essere riempito di senso specifico deve fare riferimento alle mansioni specifiche del lavoratore e alle disposizioni del datore di lavoro (inteso in senso ampio anche come dirigente dell'ufficio). L'elasticità del giudizio di quest'ultimo, però, non può andare oltre i limiti che gli impone il contratto per la specifica categoria. In questo senso, cioè, le mansioni sono esigibili 'in quanto professionalmente equivalenti'. Nozione che va intesa in senso limitativo, nel senso che sono esigibili solo le mansioni che si equivalgono dal punto di vista professionale, e non si può traghettare il dipendente da un posto all'altro indipendentemente dalla sua specifica preparazione professionale. Nella causa che qui ci interessa, si fa un passo oltre. Perché viene riconosciuta la rilevanza penale di un comportamento chiaramente discriminatorio e penalizzante, che spazia dall'abuso d'ufficio al 'mobbing'. Un monito da prendere con adeguate pinze prima di muovere qualsiasi pedina nello scacchiere comunale.

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