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mercoledì 11 giugno 2008

I ricchi e i poveri

L’inafferabile ministro della Funzione pubblica ha ormai messo le mani dappertutto e si sta muovendo con così poca discrezione che, ormai, la rivoluzione prossima ventura della pubblica amministrazione o sarà epocale o sarà seppellita da una fragorosa risata. Poiché di parole se ne susseguono a fiumi ormai da un decennio (dall’ultima volta, cioè, in cui si verificarono dei fatti: leggasi Bassanini e le sue leggi di semplificazione), attenderei prima di gridare al miracolo. Sempre pronti tuttavia a giudicare con ammirato entusiasmo gli eventuali esiti positivi delle mille attività contemporaneamente messe in cantiere. Quella che ho appena intravisto in un breve pezzo di spalla sullo Struzzo giallo rappresenterebbe (notate l’insistenza del condizionale) un vero e proprio spartiacque nella gestione amministrativa degli enti locali. Mi riferisco alla ventilata abolizione del bilancio di previsione per i “piccoli comuni”.
La questione, messa in questo modo, non è neppure troppo chiara. Da un lato si dice in modo esplicito che gli enti in questione non dovranno più approvare il bilancio, senza tuttavia spiegare cosa accadrà una volta entrata in vigore la norma. Dall’altro il riferimento ai piccoli enti è certamente fuorviante, poiché per consuetudine tutti i comuni sotto i 5.000 abitanti sono considerati ‘piccoli’, ma le parole di Renato Brunetta fanno pensare piuttosto a realtà dalla demografia irrisoria (ci si rivolgerebbe agli enti “spesso con un solo dipendente o addirittura con solo il sindaco”), confinati in zone impervie e montagnose e, in ogni caso, numericamente limitate. Giudicando nel merito la proposta, posto che, nelle parole del ministro, il fatto che questi microscopici enti debbano seguire lo stesso iter di un capoluogo di provincia è “un modello inaccettabile e insopportabile”, verrebbe da dire: era ora che qualcuno si accorgesse della differenza.
Della enorme differenza che passa tra un ente senza risorse a disposizione e uno che dovrebbe averne a sufficienza, quando sono alle prese con gli stessi (per numero e contenuto) adempimenti durante tutto l’anno (fatte salve poche eccezioni). Quante volte ci si è trovati di fronte in questi lustri a leggi finanziarie che certificavano una realtà che non c’è mai stata, introducendo norme dall’applicazione indistinta e, ovviamente, capestro per gli enti meno dotati. Basterebbe rammentare il recente divieto di affidare incarichi professionali a soggetti non laureati, sul quale i comuni senza ragioniere o geometra hanno pianto calde lacrime, non potendo più affidare a un diplomato la reggenza dell’ufficio. Daremmo così il più caloroso dei benvenuti a un provvedimento che introduce una discriminazione positiva nel nostro immobile ordinamento.
Ci viene però un malizioso dubbio. Che ne sarà del bilancio dell’ente, se non sarà più obbligato ad approvarlo? Posto che, in ogni caso, se l’ente mantiene la sua autonomia giuridica e funzionale, non potrà non averne uno. Dalla riscossione dei tributi al pagamento dei fornitori, dall’esazione dei diritti di segreteria all’estinzione dei mutui, l’attività amministrativa dell’ente non può prescindere da un documento contabile. L’alternativa, allora, parrebbe porsi tra l’instaurazione di una procedura semplificata, che elimini allegati superflui e consenta di programmare senza compilare relazioni complesse, e l’esternalizzazione dell’approvazione. A cura, magari della prefettura competente. La praticabilità della prima ipotesi mi pare più aderente a un modello che non può far scomparire le piccole realtà. Sulla seconda non scommetterei un centesimo e sarebbe pure l’antitesi di un federalismo fiscale ancora in fieri. A meno di accorpamenti forzosi tra comuni limitrofi, altrettanto improbabili, tuttavia. La notizia, in questo caso, semina il vento della rivoluzione. Speriamo di non raccogliere presto la relativa tempesta.

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