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lunedì 27 ottobre 2008

U-Haul


Stiamo traslocando in una nuova e più accogliente casetta, non più in comodato. Chi ha avuto pazienza sino ad ora, resista solo per poche settimane. Grazie e a presto.

giovedì 12 giugno 2008

Prezzi pazzi

Da quando è entrata in vigore, la norma sul blocco dei pagamenti della P.A. ha creato soprattutto confusione. Inizialmente a causa dell´assenza di qualsiasi disposizione attuativa (che aveva dato modo al Ministero di esercitarsi nella sua più frequente abitudine, quella di legiferare per circolari). Infine, dopo che si era giunti alla definizione di un pacchetto congruo di regole snelle e apparentemente efficaci, per effetto della carente struttura informatica messa a disposizione degli enti per comunicare i nominativi dei soggetti sotto controllo, struttura travolta dall´impetuoso (ma prevedibile) flusso di informazioni provenienti da 8.000 comuni impazienti.
Ciò che non è mai andato giù agli operatori pubblici è il fatto di dover chiedere a Equitalia Spa ciò che Equitalia Spa sa già (o può comunque agevolmente conoscere) ma non vuole fare lo sforzo di recuperare. Per ora, su questo versante, nulla è cambiato, tranne la migliore accessibilità del sito informatico, evidentemente adeguato a un volume di traffico assestato.
Gli operatori privati, invece, hanno costantemente lamentato una discriminazione operata dalla legge nei loro confronti, sempre costretti a rincorrere la P.A. quando si tratta di recuperare i propri crediti e ora pure costretti a far accertare la pulizia della loro fedina fiscale prima di vedere il becco di un quattrino. Per queste doglianze, a quanto pare, in parlamento ci si sta muovendo poiché, a forza di interpellanze, le commissioni competenti stanno vagliando la possibilità di apportare modifiche a una disciplina già travagliata di suo. Attendiamo lumi, anche, eventualmente, per rinfrescare la memoria del monopolista della riscossione.

mercoledì 11 giugno 2008

I ricchi e i poveri

L’inafferabile ministro della Funzione pubblica ha ormai messo le mani dappertutto e si sta muovendo con così poca discrezione che, ormai, la rivoluzione prossima ventura della pubblica amministrazione o sarà epocale o sarà seppellita da una fragorosa risata. Poiché di parole se ne susseguono a fiumi ormai da un decennio (dall’ultima volta, cioè, in cui si verificarono dei fatti: leggasi Bassanini e le sue leggi di semplificazione), attenderei prima di gridare al miracolo. Sempre pronti tuttavia a giudicare con ammirato entusiasmo gli eventuali esiti positivi delle mille attività contemporaneamente messe in cantiere. Quella che ho appena intravisto in un breve pezzo di spalla sullo Struzzo giallo rappresenterebbe (notate l’insistenza del condizionale) un vero e proprio spartiacque nella gestione amministrativa degli enti locali. Mi riferisco alla ventilata abolizione del bilancio di previsione per i “piccoli comuni”.
La questione, messa in questo modo, non è neppure troppo chiara. Da un lato si dice in modo esplicito che gli enti in questione non dovranno più approvare il bilancio, senza tuttavia spiegare cosa accadrà una volta entrata in vigore la norma. Dall’altro il riferimento ai piccoli enti è certamente fuorviante, poiché per consuetudine tutti i comuni sotto i 5.000 abitanti sono considerati ‘piccoli’, ma le parole di Renato Brunetta fanno pensare piuttosto a realtà dalla demografia irrisoria (ci si rivolgerebbe agli enti “spesso con un solo dipendente o addirittura con solo il sindaco”), confinati in zone impervie e montagnose e, in ogni caso, numericamente limitate. Giudicando nel merito la proposta, posto che, nelle parole del ministro, il fatto che questi microscopici enti debbano seguire lo stesso iter di un capoluogo di provincia è “un modello inaccettabile e insopportabile”, verrebbe da dire: era ora che qualcuno si accorgesse della differenza.
Della enorme differenza che passa tra un ente senza risorse a disposizione e uno che dovrebbe averne a sufficienza, quando sono alle prese con gli stessi (per numero e contenuto) adempimenti durante tutto l’anno (fatte salve poche eccezioni). Quante volte ci si è trovati di fronte in questi lustri a leggi finanziarie che certificavano una realtà che non c’è mai stata, introducendo norme dall’applicazione indistinta e, ovviamente, capestro per gli enti meno dotati. Basterebbe rammentare il recente divieto di affidare incarichi professionali a soggetti non laureati, sul quale i comuni senza ragioniere o geometra hanno pianto calde lacrime, non potendo più affidare a un diplomato la reggenza dell’ufficio. Daremmo così il più caloroso dei benvenuti a un provvedimento che introduce una discriminazione positiva nel nostro immobile ordinamento.
Ci viene però un malizioso dubbio. Che ne sarà del bilancio dell’ente, se non sarà più obbligato ad approvarlo? Posto che, in ogni caso, se l’ente mantiene la sua autonomia giuridica e funzionale, non potrà non averne uno. Dalla riscossione dei tributi al pagamento dei fornitori, dall’esazione dei diritti di segreteria all’estinzione dei mutui, l’attività amministrativa dell’ente non può prescindere da un documento contabile. L’alternativa, allora, parrebbe porsi tra l’instaurazione di una procedura semplificata, che elimini allegati superflui e consenta di programmare senza compilare relazioni complesse, e l’esternalizzazione dell’approvazione. A cura, magari della prefettura competente. La praticabilità della prima ipotesi mi pare più aderente a un modello che non può far scomparire le piccole realtà. Sulla seconda non scommetterei un centesimo e sarebbe pure l’antitesi di un federalismo fiscale ancora in fieri. A meno di accorpamenti forzosi tra comuni limitrofi, altrettanto improbabili, tuttavia. La notizia, in questo caso, semina il vento della rivoluzione. Speriamo di non raccogliere presto la relativa tempesta.

martedì 10 giugno 2008

In una botte di ferro

Il buongiorno si vede dal mattino. Di Napoli, per di più. Una volta approvato, il testo del decreto-legge fiscale che cancella in un baleno l’ICI sull’abitazione principale è stato rapidamente secretato, per apparire in forma del tutto ufficiosa su qualche benevolo sito, a registrazione per fortuna gratuita. A disposizione dunque dell’assetato pubblico di operatori comunali, ancora frastornati dalle notizie trapelate negli ultimi giorni sul rimborso del minor gettito, ma non solo. A informare i contribuenti, infatti, ci aveva già pensato la stampa specializzata con schemi, tabelle e tutto il consueto apparato per spiegare in termini comprensibili ciò che vien fuori dalla seduta del CdM. Agli enti locali, malinconicamente, ora che è finalmente stato pubblicato nella raccolta ufficiale, non resta che constatare l’abbandono di qualsiasi velleità di autonomia fiscale. Infatti: a) l’addio all’imposta sulla casa di abitazione non costituisce, nel breve periodo una perdita netta di risorse correnti (l’attribuzione di un contributo a ristoro totale è prevista dal decreto, fatte salve le modalità per l’effettiva erogazione).
Ma scompare del tutto qualsiasi ipotesi di modulazione dell’imposta che tenga conto, ad esempio, di condizioni di reddito o sociali disagiate. Non solo: la cancellazione dell’intera imposta indipendentemente dal valore dell’immobile (tranne i poveri castellani che, si sa, penano a giungere alla terza settimana), significa la scomparsa di quella salutare dose di progressività che, a ben vedere, l’ICI portava con sé. L’utilità marginale del provvedimento, infatti, è massima per i possessori di un’unità classata A2 (abitazioni civili), mentre è quasi irrilevante per quelli di categoria A5 (case ultrapopolari). Non metterei di mezzo l’art. 53 della Costituzione, proponendo un’eccezione di illegittimità per violazione del principio di capacità contributiva. Tuttavia, credo si debba riflettere sulla qualità di un dispositivo che redistribuisce il costo dei servizi comunali più costosi a carico di chi dovrebbe pagarli di meno.
b) Il caveat più pericoloso, tuttavia, sta nel progressivo ridursi del gettito complessivo dei comuni. Quello dell’ICI, infatti, tende a crescere, a parità di aliquota, per effetto dello sviluppo di nuovi insediamenti produttivi e abitativi. D’altro canto, la certificazione presentata per dichiarare il minor gettito non pare destinata a ripetersi annualmente, benché la norma faccia riferimento al rimborso a decorrere dal 2008, stanziato le somme necessarie a integrazione dell’apposito capitolo del bilancio dello Stato. Il che non esclude la possibilità di nuove e più aggiornate certificazioni, ma contemporaneamente non le garantisce, potendosi limitare a fissare l’importo complessivo dello stanziamento, magari ridotto per esigenze di bilancio statale. Se l’impianto normativo ora illustrato dovesse essere confermato, la restituzione agli enti sarà in eterno fondata su un patrimonio immobiliare fermo all’estate del 2008.
Resta, infine, il problema dei tempi della restituzione del minor gettito. La possibilità che della rata in acconto non si veda un euro per la fine del prossimo giugno è, ahimè, altamente probabile. Il decreto fissa, infatti, un termine massimo di (addirittura) sessanta giorni dalla sua entrata in vigore per determinare (con apposito provvedimento del Viminale) le modalità e i tempi del ristoro. Francamente troppo per qualsiasi ente. Se tale termine ha un senso per gli anni 2009, 2010, ecc. ancora a distanza di sicurezza, ciò è manifestamente insufficiente per il 2008. La fretta di consegnare alla folla il cadavere dell’imposta ha prodotto un testo che, in breve, toglie con certezza ma restituisce con dubbi. L’ennesima edizione del nuovo corso dei rapporti tra enti locali ed erario. E le voci di rinvio del termine per il pagamento della prima rata possono rassicurare i contribuenti, poco o nulla gli uffici tributi.

domenica 20 aprile 2008

Hard discount

In questa frenetica coda d’aprile, vero e proprio supermercato delle scadenze, solo l’imbarazzo della scelta può impedire di fermarsi a riflettere su cosa ciò comporti per il Servizio finanziario medio. Basta ricapitolare mentalmente in rapida successione la concentrazione di appuntamenti che attende gli uffici per rendersi conto che, come diceva il poeta, questo è proprio “il più crudele dei mesi”.
Escludendo l’eventuale approvazione del bilancio di previsione, che un Ministero in vena di concessioni ha generosamente dilazionato fino alle soglie dell’estate, non c’è settore che non abbia la sua gatta da pelare, più o meno addomesticabile. Dall’invio dei dati sulle collaborazioni coordinate e continuative al recepimento del CCNL 2006-2007, appena sottoscritto (Personale); dalla certificazione del minor gettito ICI alla trasmissione degli elenchi IVA 2007 (Tributi); dall’invio dei dati riepilogativi sulle partecipazioni dell’ente all’aggiornamento degli elenchi dei beneficiari di provvidenze economiche (Contabilità). Il mio personalissimo giudizio è che l’ostacolo più consistente sia rappresentato dall’invio (telematico, va da sé) del primo elenco dei clienti e dei fornitori ai fini IVA, relativo ai dati dell’anno 2007. Ciò che, lo scorso ottobre, ci era stato risparmiato, torna ora (con ogni probabilità, definitivamente) con il suo carico di informazioni da ricostruire ed elaborare. Come vedremo, però, la scadenza può essere adempiuta senza farsi prendere dal panico dell’ultim’ora.
Il primo problema è legato all’articolazione dei dati che l’ente deve caricare nel sistema. La schermata del software ministeriale propone il caricamento di una scheda per ciascun cliente o fornitore, contenente: i suoi dati anagrafici principali, compreso il codice fiscale e la partita IVA; l’ammontare delle operazioni rilevanti ai fini IVA, distinguendole tra imponibili, non imponibili ed esenti; l’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni stesse; l’importo delle eventuali note di variazione emesse nell’anno, anche in riferimento a operazioni del 2006. Messa così, la faccenda assumerebbe contorni inquietanti, per chi intendesse produrre il file da trasmettere in piena autonomia organizzativa. Tuttavia, la fortuna aiuta sempre gli audaci: il decreto dello scorso 25 maggio 2007 che delineava le procedure per la trasmissione degli elenchi contiene già al suo interno una clausola semplificativa che, limitatamente al 2007 (dato l’esonero stabilito per i dati 2006), consente di limitare la compilazione dell’elenco clienti ai soli soggetti titolari di partita IVA. Non è cosa da poco, se si pensa, ad esempio, alla fatturazione relativa al servizio acquedotto che, in prevalenza, è costituita da documenti emessi a carico di famiglie. La selezione dei destinatari di fatture di vendita, dunque, potrà essere più mirata e rapida. La vera chicca, peraltro, sta in un successivo paragrafo, laddove si chiarisce che i dati da riepilogare possono escludere (e ciò sempre limitatamente all’invio per l’anno 2007) le seguenti operazioni: fatture (emesse o ricevute) di importo inferiore a € 154,94 registrate cumulativamente; fatture (emesse o ricevute) per le quali non è prevista la registrazione ai fini IVA; fatture emesse annotate nel registro dei corrispettivi.
Con questo bonus, le schede da compilare dovrebbero ridursi in modo significativo, limitando, almeno per quest’anno, l’impatto della nuova scadenza. Poiché siamo abituati a non prendercela troppo, ogni volta che un adempimento si aggiunge al già debordante carnet di appuntamenti, non ci si è neppure posti la domanda se tale invio abbia una sua logica operativa. Forse, più di altre volte, lo sforzo per completare correttamente i quadri dell’elenco ha una finalità concreta e significativa: rendere trasparente e più controllabile (perché confrontabile in maniera incrociata) il flusso di operazioni economiche ai fini IVA. Ci si dovrebbe peraltro rendere conto che ciò che quest’anno rappresenta un’eccezione, dovrebbe rimanere come regola per gli enti locali, tenendo conto della prevalenza assoluta (tra i servizi commerciali e in ogni caso non istituzionali) di operazioni di importo limitato ed effettuate nei confronti di soggetti privi di rilevanza fiscale. L’eccezione comunale, stavolta, non avrebbe il sapore di una dispensa per inefficienza manifesta.

domenica 13 aprile 2008

Disco fisso

A chi dovremmo attribuire, ora, le responsabilità maggiori? Alle maestranze preposte alla manutenzione dei server ministeriali oppure all’ottimismo della volontà dei suoi funzionari più illuminati. Alla foga degli enti locali, smaniosi di spendere a piene mani, oppure al completo menefreghismo del monopolista della riscossione locale. Ci sta tutto, in questa vicenda che ormai ha oltrepassato da un pezzo il limite dell’avanspettacolo. Se, per saldare i conti con i propri fornitori, bisogna attendere il ‘nulla osta’ di Equitalia, ci si sarebbe aspettato un accordo bilaterale tra quest’ultima e il ministero per organizzare in modo ordinato e preventivo un flusso di dati nuovo e massiccio. E soprattutto ininterrotto. Invece, ciò che sta accadendo da un paio di settimane rammenta sempre più da vicino gli incubi del miglior Hitchcock. Siccome ci abbiamo provato tutti, non è necessario ricordare le interminabili attese davanti allo schermo, sistematicamente concluse da errori e blocchi. E da una sola conclusione: impossibile accedere.
Improvvisamente, a partire dallo scorso 29 marzo, nel pur imponente sito dedicato agli acquisti in rete della P.A., si è aggiunto un intruso, atteso da mesi ma mai venuto compiutamente alla luce. C’è voluta l’insistenza di qualche dirigente per produrre infine quel decreto il cui testo mette nero su bianco la nuova procedura e contro il muro la stabilità informatica dell’intero sistema. Ottomila abbondanti comuni (ci limitiamo alla fattispecie più numerosa) hanno dovuto accedere all’unico indirizzo disponibile per chiedere cortesemente di sapere se il proprio fornitore è contemporaneamente moroso nei confronti dell’erario (in qualsiasi forma sia evocato). E, una volta accertato che la fedina fiscale è pulita, procedere alla liquidazione di quanto dovuto.
Il grottesco ripiegare su sé stessa della presunzione con la quale si è baloccato il ministero negli ultimi mesi è il segnale che una norma del genere è stata pensata senza avere neppure un’idea vaga del carico di accessi che avrebbe provocato sui poveri server, abituati a un più modesto traffico da pomeriggio al mare. La frittata però è giunta a cottura troppo tardi e la questione che si pone immediatamente è: se l’impalcatura del sistema poggia invariabilmente sull’informatica, come rispettare la legge quando è impossibile farlo per via normale? Sembra un’inezia, abituati come siamo a superare indenni qualsiasi ostacolo ci venga piazzato sulla strada dell’efficienza. Eppure qui c’è un terzo incomodo, che poi sarebbero i creditori, ai quali non è possibile dire un giorno sì e l’altro pure che: “mi spiace, non posso pagarla perché non posso chiedere l’autorizzazione.”, senza rischiare reazioni inconsulte e (francamente) non proprio ingiustificate. Si sta innescando, insomma, un meccanismo che, inevitabilmente, porterà o alla sistematica violazione della disposizione o a un’interminabile serie di contenziosi incrociati Comune-Equitalia-Fornitore dagli esiti imprevedibili.
Intanto, i giorni stanno trascorrendo veloci, e, nella apparentemente totale indifferenza dei tecnici ministeriali, l’unico rimedio al quale molti stanno pensando per non bloccare nel fango informatico le ruote della carrozza amministrativa è l’artificiosa suddivisione dei pagamenti in tranche inferiori a 10.000 euro. E’ una pratica corretta? Indubbiamente rasenta l’elusione, poiché il debito dell’ente è misurato in relazione alla prestazione offerta. Tuttavia, se parliamo di forniture ricorrenti, la suddivisione mensile dell’impegno annuale è una pura convenzione e non si vede perché essa non possa essere ulteriormente suddivisa (e la norma parla di ‘pagamenti’ sopra i 10.000 euro). Molto più azzardato ragionare parimenti per gli stati di avanzamento lavori di opere pubbliche. Non tanto perché l’importo complessivo del singolo SAL può superare largamente la soglia di legge, quanto perché l’approvazione dello stesso avviene in modo unitario e il frazionamento può nascere esclusivamente da accordi espliciti con l’impresa appaltatrice. In questo caso, parrebbe opportuno far rilasciare dall’impresa l’autocertificazione a suo tempo proposta dal Ministero in una circolare che pareva audace e invece anticipava solo il disastro a venire.

lunedì 18 febbraio 2008

Niagara

La linea è ormai tracciata, dunque non è più tempo di stupirsi. Regoliamoci sulla lunghezza d'onda di un ministero che utilizza criteri di valutazione opposti secondo la propria convenienza. La detrazione statale dall'ICI è alla seconda risoluzione in quindici giorni e già la posizione ufficiale si è delineata. Dopo le ampie prove generali, arriva un quesito specifico che riguarda i residenti all'estero, possessori in Italia di un immobile non locato. Spetta anche a loro la detrazione introdotta dalla Finanziaria? Chi ha letto la prima lunga risoluzione di fine gennaio sa che per il Ministero esistono due tipologie di soggetti passivi ICI: quelli che nell'abitazione principale ci vivono realmente e coloro che, per i motivi più disparati, abitano altri fabbricati. Ciò non significa, però, disporre due soli trattamenti. Ricorda la vecchia storia dell'arabo e dell'israeliano: quando si incontrano e discutono, ne escono almeno tre opinioni diverse. Così è anche per il diritto alla detrazione: chi ci abita, teoricamente, ne avrebbe sempre diritto perché ciò che conta è il fatto che il fabbricato sia adibito ad abitazione principale dal soggetto passivo. Già sono state esposte le versioni per: coniuge non assegnatario (spetta, lo dice la legge); anziani o disabili in casa di riposo (non spetta, lo dice un regolamento comunale); unità immobiliari appartenenti alle cooperative edilizie a proprietà indivisa, adibite ad abitazione principale dei soci assegnatari e alloggi assegnati dagli enti di edilizia residenziale pubblica con uguali finalità (spetta, lo dice la legge); titolare che dà l'abitazione in uso gratuito a parenti definiti (non spetta, lo dice un regolamento comunale). Si aggiunge ora la fattispecie dei residenti all'estero (spetta, lo dice la legge). Qui, tuttavia, si introduce un'ulteriore spiegazione che, a mio avviso, costituisce un'autosmentita della stessa posizione ministeriale. I riferimenti normativi sono tutti al posto giusto ed è diritto del dicastero sostenere che le determinazioni dei singoli enti (benché autorizzate dalla legge) non bastano a fare di un'abitazione un caso meritevole di agevolazione. Così come è nostro diritto ribattere che tale interpretazione risulta estremamente rischiosa, essendo passibile (al limite) di eccezione di incostituzionalità, per violazione del principio di eguaglianza. Piuttosto, fa sobbalzare il penultimo paragrafo della risoluzione nel quale il DPF sostiene quanto segue: "A fondamento del riconoscimento dell’ulteriore detrazione statale anche ai soggetti non residenti in Italia milita anche la circostanza che le norme introdotte in materia di ICI dalla legge n. 244 del 2007 innanzitutto non modificano in alcun modo la nozione di abitazione principale che resta, dunque, fissata dalle norme già esistenti -ed in secondo luogo non recano alcuna limitazione espressa dell’ambito soggettivo di applicazione dell’ulteriore detrazione in esame." Quindi, una sconfessione completa della tesi sostenuta appena ieri: se non esistono limiti espliciti dell'ambito di applicazione soggettivo, allora tutti coloro che sono stati messi alla porta dalla prima risoluzione, rientrano dalla finestra a causa della seconda. Mi sembra, sensatamente, che quest'ultima posizione sia l'unica a potersi dire plausibile e giuridicamente sostenibile. Certo, servirebbe un piccolo sforzo di umiltà ministeriale per correggere le posizioni oltranziste della prima risoluzione per adattarle al principio coerente della seconda. Sperare non costa niente, in fondo.