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venerdì 29 giugno 2007

Ladri di biciclette

Una nuova indagine sui conti degli enti locali, stavolta promossa dall'istituto di credito Dexia Crediop e pubblicato a stralci dallo Struzzo giallo nei giorni scorsi, cerca di dimostrare un assunto di rilievo: le entrate correnti non hanno subito significativi incrementi nell'ultimo quinquennio, poiché in corrispondenza di un inasprimento delle aliquote dei tributi locali è intervenuta una compensazione sostanzialmente identica, ma di segno opposto, nei trasferimenti statali. In verità si va oltre, poiché si sostiene che i dati dei rendiconti dal 2001 al 2005 indicherebbero una maggiore autonomia tributaria locale, benché poi frustrata dalle minori risorse erogate dallo Stato. Su quest'ultimo punto ci sarebbe però da fare un'osservazione che, effettivamente, porta a dimostrare l'esatto contrario, e cioè che l'autonomia fiscale è casomai stata messa in un angolo. La buona performance delle entrate del titolo I infatti è decisamente influenzata dalla voce "Compartecipazione all'IRPEF" che, da ormai qualche esercizio, le certificazioni ministeriali ci obbligano a inserire tra le entrate tributarie ma assimilabili in ogni senso a un altro (e quanto sostanzioso) trasferimento erariale. E' a fronte di questa finzione contabile che i contributi correnti sono stati ridotti. Non un segno di maggiore libertà di movimento, dunque. Piuttosto, un altro segnale della progressiva erosione dei margini di discrezionalità degli enti nella gestione della propria politica fiscale. Quest'ultima è limitata all'Addizionale IRPEF, bloccata peraltro alle aliquote del 2003 fino al 2006 compreso, e all'ICI, sulla quale pende la spada di Damocle della destinazione del Tesoretto. Dexia Crediop trae, in ogni caso, dall'esame complessivo dei dati a disposizione la seguente conclusione: gli enti comunali hanno realizzato politiche virtuose sul versante della spesa, razionalizzandola (tagliando anche servizi, laddove necessario). Questa affermazione si mette di traverso alla sicumera di tutti coloro che, ragionando di patto di stabilità, danno addosso ai municipi come la vera causa del famigerato rapporto debito/PIL. Non prendiamo per oro colato le conclusioni dell'indagine, ma ci sembra significativo che da un istituto privato giunga una sconfessione della tesi che va per la maggiore. Anche perché sono invece le Regioni a contribuire con politiche non certo assennate alla fibrillazione del sistema complessivo. E anche per questo motivo che non si comprende la totale sordità del legislatore d'urgenza alle richieste di utilizzo di risorse che non derivano assolutamente da nuovo indebitamento e che non partecipano quindi della fuoriuscita da riparare.

giovedì 28 giugno 2007

Avanzi

Il finale di partita è proprio da ridere, se non ci fosse da piangere. Il totale degli avanzi di amministrazione accumulati dai Comuni soggetti al Patto di stabilità (e non applicati, proprio per il vincolo che da quest'ultimo deriva) ammonta a circa 4,5 miliardi di euro. L'ANCI ha chiesto, a più riprese, di sbloccarne almeno il 10%, quest'anno: cifra più che ragionevole e appena necessaria a realizzare qualche progetto minore di investimento. Anche l'Assemblea nazionale di Bari sarebbe dovuta servire a trovare finalmente il bandolo della matassa e dare almeno un segnale di opportunità. Oggi il Consiglio dei Ministri ha deliberato: "Art. 2 (Utilizzo quota avanzo di amministrazione) 1. Non sono computate tra le spese rilevanti ai fini del patto di stabilità interno relativo alle province e ai comuni che negli ultimi 3 anni hanno rispettato il patto di stabilità interno le spese di investimento finanziate nell’anno 2007 mediante l’utilizzo di una quota dell’avanzo di amministrazione. 2. Per i singoli enti locali l’esclusione delle spese di investimento è commisurata all’avanzo di amministrazione accertato al 31 dicembre 2005 e determinata: a) nella misura del 7,6% per le province la cui media triennale del periodo 2003-2005 dei saldi di cassa, come definita dall’articolo 1, comma 680, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, risulta positiva. Per le restanti province la misura è dell’1,4%; b) nella misura del 7,0% per i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti la cui media triennale del periodo 2003-2005 dei saldi di cassa, come definita dall’articolo 1, comma 680, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, risulta positiva. Per i restanti comuni la misura è dell’1,3%." Per destinare a spese di investimento € 50.000,00 è quindi necessario, se non si è virtuosi, aver accumulato avanzi per 3,8 milioni di euro. I comuni più ligi alla lettera delle disposizioni sul Patto avranno invece una disponibilità addirittura del 7,0% del risultato del rendiconto al 31 dicembre 2005. E' il massimo delle concessioni e il minimo della serietà, perché la rigidità con la quale si applica il Patto non è senza conseguenze. Violare il Patto ora, esporrebbe gli enti all'applicazione della sanzione dell'incremento forzoso dell'Addizionale IRPEF. L'impopolarità della misura esclude che le Amministrazioni, scientemente, la adottino. Se lo facessero, produrrebbero inoltre nuovo avanzo, peggiorando la situazione. Se rispettassero le regole, invece, non la migliorerebbero, perché gli avanzi rimarrebbero quasi intatti. La situazione è paradossale. E sentire ancora nei giorni scorsi illustri economisti sostenere che il vero problema del debito pubblico sono gli enti locali, aggiunge danno alla beffa. Gli enti non possono indebitarsi. Le risorse accumulate sono proprie. Non si comprende, così, l'insistenza nel produrre norme che vincolano solo la parte più facilmente vincolabile. In tutto il dibattito sui costi della politica, nessuno ha mai fatto cenno alla vera virtuosità degli enti: non quella tutta artificiale del Patto, ma quella di chi ha amministrato correttamente e, non per sua scelta, non ne può godere i frutti (compresa la comunità amministrata).

mercoledì 27 giugno 2007

Efficienza d'Albione

Oltremanica i problemi degli enti locali non sono così differenti da quelli che si affrontano qui, quotidianamente. Eppure, chi ha avuto la possibilità (e la fortuna) di vedere da vicino l'attività di un ufficio finanziario di una municipalità inglese riporta un diverso senso dell'esperienza amministrativa. Ho riletto con immutato piacere un breve saggio di Stefano Pozzoli sul numero di gennaio di Azienditalia. E' il resoconto (tecnico, certamente, ma davvero concreto) di un'osservazione effettuata da molto vicino di come il Chief Financial Officer rappresenti solo un lontano parente del Responsabile di ragioneria. Non tanto per i compiti da svolgere, in fondo assimilabili poiché le risorse da gestire sono pubbliche anche nel Regno Unito. Quanto per tipologia di responsabilità, che quaggiù sono tutte legate a una visione amministrativista del ruolo e lassù, al contrario, rispondono a una logica strettamente efficientista, dove ciò che conta sul serio è il risultato finale, il raggiungimento dell'obiettivo di budget. Anche perché, in caso contrario: "Potrebbe intervenire la Audit commission (come fosse la Corte dei conti. NdR), anche il Governo (...). Gli ispettori possono aprire una loro inchiesta - il che accade necessariamente in caso di perdite superiori alle riserve - e a chiusura di questa consigliare al Council di licenziarmi." E quando il Council (l'equivalente, a grandi linee, del nostro Consiglio comunale) non si attiva? "Non è mai successo. E poi sarebbe un fatto così grave, così pregiudizievole per la mia reputazione che io non troverei mai più nessuno disposto ad assumermi come Cfo." Il dato che emerge in modo preponderante è che il criterio 'faro' della gestione di un ente locale (le cui dimensioni medie, per inciso sono molto superiori alle nostre, essendo in totale circa 500 contro i nostri 8.200) non è quello elettoralistico, secondo il quale tutto ciò che è stato realizzato da un'amministrazione viene giudicato ogni x anni, nell'urna elettorale. Bensì quello decisamente aziendalistico della prevalenza del risultato, tanto è vero che il CFO gode di un'autonomia decisionale pari a quella di cui dispone un dirigente privato, se non addirittura l'Amministratore delegato. Il testo, disincantato, è permeato di una sottile amarezza per la consapevolezza che prima di giungere a una macchina così ben oliata anche nei nostri enti locali dovrebbe realizzarsi una sorta di rivoluzione culturale, attualmente invisibile persino all'orizzonte. Certo è che un osservatorio privilegiato su queste esperienze esogene può solo accrescere il tasso di attenzione nei confronti dell'accountability nei nostri enti. Cercheremo prossimamente di raccogliere altre testimonianze.

martedì 26 giugno 2007

Nell'acquasantiera

La benedizione governativa di una norma agevolativa stavolta non è servita. Da Bruxelles fanno sapere che gli immobili posseduti dagli enti ecclesiastici, quando sono utilizzati per lo svolgimento di un'attività commerciale, non possono beneficiare di alcuna facilitazione fiscale. Compresa l'ICI. E dunque partirà una procedura di infrazione a carico dello Stato italiano perché questa benedetta concorrenza non è libera se per qualcuno costa di meno, a prescindere. Non che ci fossero dubbi sull'inconsistenza della pretesa clericale. E però. La lettera della norma attualmente in vigore, l'art. 7, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, è stata interpretata autenticamente dall'Art. 7, comma 2-bis, del D.L. n. 203/2005 (comma modificato, per l'occasione, dal D.L. Bersani dello scorso luglio) e dispone che: "2-bis. L'esenzione disposta dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale." In sostanza, si vorrebbero salvate dalla mannaia fiscale quelle strutture ecclesiastiche che, in qualche modo, sono commerciali ma non del tutto. E quali potrebbero essere, di grazia? Qualcuno sostiene, senza accorgersi di rasentare la comicità involontaria, che anche una casa di riposo di proprietà della Chiesa (dunque, privatissima) dovrebbe beneficiare dell'esenzione se al suo interno si trova una chiesetta o una cappella votiva. Siccome il grisbi vale complessivamente (stime approssimative) non meno di 400 milioni di euro (perché comprende anche l'ICI sul patrimonio immobiliare di tutti i culti e delle ONLUS), si tratta di capire se i margini di interpretazione sono larghi come il saio di un fraticello oppure se l'iniziativa UE va dritta al bersaglio e chiude la partita una volta per tutte. Anche la Cassazione, in tempi non sospetti e cioè dopo l'introduzione dell'agevolazione, si era pronunciata esplicitamente (nonostante una presa di posizione ovviamente pro-esenzione, della Conferenza Episcopale Italiana). Con la sentenza n. 4645 del 2 ottobre 2004, infatti la Corte sosteneva che, per accampare ragionevolmente il diritto all’esenzione Ici: “occorre che si verifichino contemporaneamente entrambe le condizioni, quella soggettiva dell'appartenenza dell'immobile ad uno dei soggetti di cui all'art. 87, comma 1, lettera c) del T.U.I.R., e quello oggettivo della destinazione esclusiva dell'immobile allo svolgimento di una delle attività ritenute dal legislatore meritevoli di un trattamento fiscale di favore - elencate nella lettera i) dell'art. 7, e, tra esse, di una di quelle previste nella lettera a) dell'art. 16 della legge n. 222 del 1985.” Non basta che l'attività sia svolta da un ente senza scopo di lucro per essere esenti. Vi sono attività che, oggettivamente, sono commerciali indipendentemente da chi le svolge e, pertanto, non meritevoli di agevolazioni soggettive. Di fronte all'iniziativa della Cassazione, il legislatore metteva religiosamente mano al portafoglio e nell’art. 6, D.L. 17 agosto 2005, n. 163 stabiliva che: “L’esenzione prevista dall’articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e successive modificazioni, si intende applicabile anche nei casi di immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza, istruzione educazione e cultura di cui all’articolo 16, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1985, n. 222, pur svolte in forma commerciale, se connesse a finalità di religione o di culto”. Con questa norma, poi, si scontentavano ONLUS e altri culti religiosi, esclusi da questa ventata di generosità erariale. Ce n'era a sufficienza per promuovere giudizi di incostituzionalità a vario titolo. Così, la norma scomparve dal testo poi convertito in legge. Ma le pentole del diavolo ribollivano e quel testo riapparve poco dopo nel D.L. collegato alla Finanziaria 2006: "2-bis. L’esenzione disposta dall’articolo 7, comma 1, lettera i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse", che nel 2006 ha conosciuto la modifica già ricordata. Questi passaggi legislativi però non chiudono il cerchio, perché poi basta un avverbio per rendere tutto fluido e nebbioso. Sparirà, dietro la minaccia belga, anche quella decisiva parolina? I precedenti non sono così favorevoli, nel senso che accumulare infrazioni è quasi un hobby per lo Stato italiano. E poi, ingaggiare una vera battaglia sulla laicità dello Stato non è mai stato così impopolare.

lunedì 25 giugno 2007

Il conto della serva

Sono davvero maturi i tempi per una comunicazione di approfondimento tra Amministrazione locale e cittadino? Voglio dire, se dal vostro municipio cominciassero a diffondersi documenti dettagliati ma chiaramente leggibili sul lavoro svolto da Giunta e Consiglio, avrebbero successo? Me lo chiedo, perché per quanto sia convinto che il traguardo della rendicontazione sociale è uno dei più ambiziosi e allo stesso tempo gratificanti che un'Amministrazione possa porsi, resto tuttavia scettico sull'accoglienza che un documento del genere (con tutte le sue complessità) riceverebbe. Nella recente tornata elettorale locale, anche il paese dove risiedo è andato al voto. Delle quattro liste in lizza, solo una aveva inserito nel suo programma (nella forma estesa, da affiggere all'albo, ma anche nei volantinaggi sintetici pre-elettorali) una serie di iniziative volte ad aumentare (innanzitutto) e migliorare (in tempi comunque brevi) la comunicazione con i cittadini: sotto forme variegate, dal più classico dei notiziari comunali (di cui nel mio comune si è persa traccia negli ultimi cinque anni) al più moderno (e non visitatissimo) sito internet. Con l'obiettivo di frenare l'inesorabile declino della popolarità dell'amministrazione per eccellenza, è vero. Ma anche per dire: le risorse che sotto forme diverse ci avete consegnato, sono state gestite così. Dovrebbe essere un imprescindibile momento periodico in qualsiasi mandato elettorale. La lista in questione ha raccolto (per una serie di altri motivi, certo) uno sconfortante quarto posto. L'insistenza sulla comunicazione forse non c'entra, però è vero che non ha fatto la differenza; che, tutto sommato, poco importa al residente medio se la Giunta ti dice come spende i tuoi soldi, basta che di tasse me ne faccia pagare il meno possibile. Ho il sospetto, insomma, che il bilancio sociale sia proponibile solo a un pubblico selezionatissimo, abituato alla buona amministrazione da tempo immemore e dunque uso anche a un rapporto meno impersonale ed egoista con i propri rappresentanti (non per niente, sono alcuni grandi comuni i pionieri della rendicontazione sociale, insieme a una fetta importante del centro Italia più illuminato). Proporlo in modo generalizzato, forse, è energia sprecata. Ora, anche l'Osservatorio per la Finanza e la Contabilità degli enti locali ha realizzato un interessante vademecum per produrre un bilancio sociale coi fiocchi. Ne parleremo tra qualche giorno, con maggiore dettaglio, perché lo merita. Siamo proprio sicuri che, mediamente, ce lo meritiamo noi?

venerdì 22 giugno 2007

Colluttazione unilaterale

L'aria di mare, oltre a mettere un discreto appetito, concilia pure gli animi più esagitati, fino a ieri pronti a guerreggiare senza esclusione di colpi e oggi, magari dopo un piatto di mitili freschissimi annaffiati da un Gravina altrettanto fresco, lestissimi a seppellire l'ascia scordandosi la bellicosità del giorno prima. ANCI e Ministero hanno approfittato dell'ospitalità pugliese per trovare (pare) quell'accordo che sembrava escluso fino a poche ore prima. Sul piatto, oltre al pesce, c'è la possibilità concreta di utilizzare almeno in parte gli avanzi di amministrazione accumulati dai comuni più virtuosi senza incorrere nelle sanzioni per mancato rispetto del Patto di stabilità. Da un lato, la posizione rigidissima di Palazzo Chigi si è ammorbidita a tal punto da ipotizzare una rettifica alla Finanziaria 2007, reintroducendo il doppio binario competenza-cassa per determinare i saldi del Patto rispettivamente per le spese correnti e per quelle d'investimento, con buona pace di Padoa-Schioppa che ha sempre rifiutato un'ipotesi così remissiva. Dall'altro, i sindaci hanno deciso che meglio oggi l'uovo di questa concessione inaspettata, piuttosto che la frittata domani, ché tale sarebbe l'improvviso incremento di tre punti dell'addizionale IRPEF in caso di sfondamento nei parametri di Maastricht. E se l'impopolarità di una maggiore pressione fiscale locale è uno spettro da esorcizzare in ogni caso, pena la defenestrazione da seggio elettorale, va pure considerato che queste maggiori entrate determinerebbero il paradosso di produrre altri avanzi di amministrazione, perché introdotte non per coprire minori entrate o maggiori spese ma come unico esito punitivo di una violazione esplicita di regole calate dall'alto, dunque di valenza quasi esclusivamente formale. E infatti, resisi probabilmente conto di questo surreale boomerang contabile, gli emissari del Governo stanno (a loro dire) predisponendo una rielaborazione delle regole del Patto che, già dal prossimo esercizio si spera, penalizzi chi davvero esce dal Patto perché spende pur non avendo fieno in cascina. Sarei ancora prudente, però, sull'esito complessivo di questa partita a scacchi. Perché la smentita è diventato sport nazionale, da qualche anno a questa parte, e vedere questo ventilato accordo nero su bianco (cioè in Gazzetta Ufficiale) sarà l'unico attestato di fiducia.

giovedì 21 giugno 2007

I lanzichenecchi

E' vero che, quando c'è di mezzo il vil denaro, vale sempre il noto motto: "Franza o Spagna, purché se magna." Però qualcuno dovrà pure offrire una spiegazione più articolata di un'affermazione come la seguente (pronunciata dal Ministro per gli Affari regionali Linda Lanzillotta): "L'autonomia degli enti locali non viene in alcun modo limitata dagli sgravi (sull'ICI relativa all'abitazione principale, NdR)." Anche perché pare che la rappresentanza dei sindaci d'Italia convenuta in Puglia per l'assemblea nazionale dell'ANCI non abbia battuto ciglio, forte della garanzia che a fronte del mancato gettito l'erario erogherà una quota integrativa di compartecipazione all'IRPEF. Siccome questa soluzione è stata fin dall'inizio l'unica plausibile (per quanto poco condivisibile), dato che il bla-bla ininterrotto di ministri, sottosegretari e, financo, presidenti del Consiglio sempre lì puntava, alla mossa d'effetto, allo scatto in avanti per bruciare lo starter, ora prendiamo atto che il punto di partenza nel disegno di legge è: detrazione ICI elevata sino a € 300. Però non capiamo lo stesso. Il do ut des messo a punto da Palazzo Chigi è puramente monetario. Dove starebbe dunque la conservazione dell'autonomia (tributaria, va da sé) dei Comuni? Una volta scomparsi dal quadro dei soggetti passivi tutti i contribuenti che rientrano in quella fascia di esenzione, resta agli enti il compito di applicare l'unica aliquota rimasta, quella ordinaria, perdendo per strada qualsiasi velleità di redistribuire meglio il carico fiscale. Non c'è bisogno di ricordare, infatti, che l'unica elasticità attribuita all'addizionale IRPEF è una sola soglia di esenzione (e chi può garantire che nella prossima Finanziaria non sia più confermata?). Nell'indistinto mare di coloro che beneficeranno del vantaggio così generosamente elargito, troveranno spazio dunque nuclei familiari di dimensioni e condizioni reddituali diverse. L'unico parametro per giudicare l'ammissibilità a partecipare alla spartizione del bottino sarà dunque la rendita catastale. Un po' poco, come politica redistributiva. Ripropongo dunque una modesta proposta per rendere davvero veritiera l'affermazione del Ministro, inutilmente purtroppo: rendere integralmente detraibile dall'IRPEF l'ICI sull'abitazione principale, lasciando così all'autodeterminazione dei comuni (i quali nel frattempo avranno anche acquisito le funzioni catastali, ironia della sorte) la scelta più opportuna sulla misura dell'aliquota, delle detrazioni e della soglia di esenzione. Peccato che, in questo modo di operare, ci sarebbe poco spazio da dedicare alla propaganda, che tutto assorbe e livella.

mercoledì 20 giugno 2007

Black bloc

Ventate di Seattle anche nei Comuni italiani. Dopo il reiterato silenzio del Governo sulla proposta avanzata a suo tempo dall'ANCI per garantire agli enti virtuosi l'utilizzo di una quota degli avanzi di amministrazione fin qui accumulati, per contenere l'impatto del Patto di stabilità 2007, tira aria di disobbedienza dal Manzanarre al Reno. Anzi, il silenzio si è concluso lo scorso lunedì, dopo che, durante l'ennesimo confronto tra Palazzo Chigi e i rappresentanti delle autonomie, è stato pronunciato a chiare lettere il 'non possumus' che tanto queste ultime temevano. Il palpabile malcontento degli enti soggetti al Patto (poco meno di duemila) nasce dalla precisazione, intervenuta dopo l'approvazione della Finanziaria 2007, che i risultati positivi dei rendiconti sono considerati al pari di tutte le altre entrate nella determinazione dei saldi 2007 e che, dunque, non possono essere utilizzati come risorsa per ridurre l'indebitamento (ovviamente senza pagare penali di sorta alla Cassa DD.PP., notoriamente piuttosto onerose). Curiose coincidenze, proprio nei giorni in cui sono diffusi i dati sull'utilizzo da parte degli enti locali di mutui e prestiti a lungo termine per finanziare i propri investimenti nel 2005. Dati dai quali emergerebbe un incremento dell'indebitamento del 10,4% sul dato del 2004 e, contemporaneamente, un calo drastico delle spese in conto capitale. L'apparente contraddizione sta tutta nella saltellante dinamica dei tassi d'interesse che, come faceva correttamente rilevare lo Struzzo giallo, si sono rivelati fino a poco tempo fa particolarmente vantaggiosi e hanno indotto gli enti a rinegoziare il debito pregresso allungandone la scadenza. Di contro, l'impossibilità di realizzare opere pubbliche nella misura desiderata per non incorrere nelle sanzioni del Patto (com'è surreale che, col senno di poi, queste ultime si siano rivelate la bufala dell'anno) ha determinato quei tesoretti da campanile che, giuridicamente, sono nella piena disponibilità dei Consigli comunali, ma che, alla luce di Maastricht, diventano intoccabili. Ora, l'avanguardia dei primi cittadini più arrabbiati vuole approfittare delle assise generali dell'ANCI per ribaltare i tavoli e cominciare le barricate. Pare, infatti che, facendo due conti, il costo delle sanzioni in caso di violazione del Patto sia inferiore alla scelta di forzare la mano e, violandolo esplicitamente, utilizzare gli avanzi di amministrazione per finanziare opere pubbliche. Voleranno gli stracci, alla Fiera del Levante, ma probabilmente accadranno entrambe le cose: il Governo non defletterà, i Sindaci disobbediranno. Dopo la farsa delle sanzioni revocate per il 2006, forse è proprio meglio anticipare tutti e gestire le disponibilità in cassa.

martedì 19 giugno 2007

Rose nel deserto

A coloro i quali sono ancora convinti che 'pubblico' è bello, il Ministero dell'Economia e delle Finanze provvede a recapitare una nuova amara missiva. Con la messa a disposizione dei dati relativi alle scelte sulla destinazione del 5 per mille dell'IRPEF 2005 (effettuate con le dichiarazioni dello scorso anno) è possibile finalmente verificare quanti hanno dato fiducia al proprio Comune e quanti, invece, hanno preferito il più sicuro approdo di ONLUS e enti di ricerca di rilevanza nazionale. Prendo ad esempio di questa rapida analisi l'elenco dei comuni della mia provincia (inviato con solerzia dal presidente della corrispondente associazione di enti), per un totale di circa 740.000 contribuenti, i quali hanno espresso nel 9,72% dei casi l'intenzione di assegnare al Comune di residenza fiscale la quota IRPEF per finalità sociali. Questa percentuale sale al 12,6% se, più correttamente, si prendono in considerazione esclusivamente i contribuenti per i quali risulta un debito netto d'imposta. Di fatto, dunque, solo un cittadino su dieci o poco più ritiene che la struttura amministrativa del proprio comune sia meritevole di essere incoraggiata nella realizzazione concreta di politiche sociali sul territorio. E' giusto peraltro fare alcuni distinguo, per non eccedere nel pessimismo e riportare la discussione su un piano oggettivo. Innanzitutto, la potenza di fuoco delle più importanti associazioni, che da molti anni acquistano spazi pubblicitari su media televisivi e della carta stampata e che hanno inoltre sviluppato un intenso mailing con i propri associati e con i contributori occasionali, non è paragonabile con quella a disposizione dei Comuni, che possono al più contare sull'efficacia del passa-parola ma non hanno alle spalle un brand (perché ormai anche di questo si tratta) noto e riconosciuto. E d'altra parte, quando il rapporto tra cittadino e servizi municipali si riduce alla consegna delle cartelle esattoriali della tassa rifiuti oppure agli avvisi di accertamento ICI, ben difficilmente può nascere la necessaria scintilla fiduciaria che convince il contribuente a mettere la propria firma nella casella dedicata. Inoltre, non è stato lasciato tempo sufficiente agli uffici per studiare un piano di comunicazione efficace e, in conclusione, l'improvvisazione ha fatto premio su tutto il resto, buona volontà compresa. Lo stesso Parlamento poi deve avere subodorato aria di disaffezione se, già dal 2007, i Comuni sono stati esclusi dalla partita. Paradossalmente, chi leggesse questo elenco con un briciolo di distacco potrebbe osservare che, a dispetto di organici consistenti e risorse più ampie, i Comuni di maggiori dimensioni sono quelli i cui cittadini, purtroppo, si fidano di meno dell'organizzazione municipale (dal 3 al 6 per cento hanno firmato, contro la percentuale doppia della generalità dei comuni). Un dato significativo che, da un lato, fa balenare l'idea che il distacco tra 'palazzo' e comune cittadino sia elevato anche quando il 'palazzo' è rappresentato dall'istituzione teoricamente più prossima; dall'altro, conferma che l'Italia è il Paese del campanile, dove le realtà demograficamente ridotte (maggioranza stragrande) dettano i trend più significativi, segnando la prevalenza del vicinato, possibilmente senza mediazioni.

lunedì 18 giugno 2007

Le mani nella marmellata

Ora che nessuno più dubita della definitiva affermazione della magistratura contabile come principale attore del controllo sulla gestione degli enti locali, sarebbe necessario un deciso passo indietro da parte di tutti i comprimari che da posizioni diverse chiedono ai comuni durante tutto l'anno finanziario l'invio (quasi sempre in via esclusivamente telematica, ma non necessariamente, pensando ai certificati al bilancio di previsione e al conto di bilancio) di una copiosa messe di dati sull'utilizzo dei quali cala dopo poco una coltre di nebbia fittissima, sollevata di quando in quando dalla notizia, ad esempio, che l'ISTAT ha pubblicato un'indagine sui rendiconti di comuni e province (ora è disponibile quella relativa ai consuntivi del 2005). Le indagini che tutti questi numeri possono produrre sono pressoché infinite. Al contrario, purtroppo, ciò che negli uffici degli enti è vissuto come un lungo susseguirsi di duplicazioni, dall'altra parte, quella ricevente, non c'è alcuna intenzione di mettere a disposizione in tempi ragionevoli e soprattutto senza disperderli in una miriade di siti i dati trasmessi periodicamente. Nessuno in sostanza si è mai posto il problema di realizzare un portale statistico degli enti locali che, proprio a partire dall'oceano informativo di cui i vari ministeri dispongono, sia in grado di offrire non solo un quadro preciso delle realtà comunali e provinciali, ma costituisca il termine di paragone per costruire un benchmarking del quale sino ad oggi si sono fatti promotori solo alcuni enti volonterosi e nell'ambito di specifiche realtà territoriali (mi riferisco, in particolare, all'Emilia-Romagna, da sempre all'avanguardia nello sviluppo del controllo di gestione a livello locale). Sembra quasi si abbia il timore di scoprire che tutte le informazioni accumulate nel corso degli anni, e che si arricchiscono ad ogni nuova Finanziaria di altre incombenze, sono finalmente utili, fruibili, addirittura indispensabili per analizzare i fenomeni più rilevanti della finanza locale. Eppure, credo, gran parte degli operatori, per quanto oberati dall'incessante ritmo delle scadenze di ogni giorno, sarebbero ben felici di consultare un sito dal quale ricavare informazioni costanti e aggiornate sui principali aggregati comunali e provinciali. Anche l'ISTAT dovrebbe fare la sua parte, non limitandosi a pubblicare un sintetico resoconto che, per quanto interessante nel guazzabuglio di indifferenza al quale siamo usi, per sua natura, estrapola i dati principali ma non consente elaborazioni personalizzate spaziali e temporali. La Commissione tecnica per la finanza pubblica (commi 474-479, Finanziaria 2007) di questo, tra l'altro, dovrebbe occuparsi. Ma che fine ha fatto?

domenica 17 giugno 2007

Ufficio con vista

E così scopriamo che tre software su dieci, nella pubblica amministrazione, non sono autentici. A dire la verità mi aspettavo un dato peggiore da un'indagine a tappeto fatta apposta per verificare quanti applicativi regolarmente licenziati circolano negli uffici pubblici. Ammetto che una così elevata sfiducia nella gestione informatica è anche basata sull'esperienza diretta. Nel senso che conosco bene ambienti di lavoro in cui i principali pacchetti per la gestione dei documenti sono condivisi tra utenti che pure non ne hanno acquisito la regolare licenza. Vorrei peraltro fare un po' di mente locale per stabilire quali siano effettivamente questi software così diffusamente piratati. Sono i soliti, mi sa. Quelli della casa di Redmond. Quelli del 'nerd' più ricco del mondo. Anche perché i gestionali con i quali gli uffici ogni giorno lavorano sono proprietà delle più disparate società di sviluppo e non sono di certo soggette a facili operazioni di replica da un computer all'altro, né ciò è auspicabile per gli stessi funzionari che preferiscono un prodotto chiavi in mano poco propenso a creare problemi due minuti dopo l'avvio. Così, in realtà, il confronto dovrebbe essere effettuato più correttamente tra licenze in regola e non di Office (oops!). Questo derby produrrebbe, temo, una sconfitta in casa per le prime. Il motivo principale di questa ostinata tendenza a taroccare uno dei (se non il) software più diffusi al mondo (che immagino non coinvolga necessariamente solo le pubbliche amministrazioni) sta a metà tra la scarsissima stima che circonda in generale la casa-madre e la normale pigrizia per attivare le procedure di acquisto di nuove licenze. La prima è un diffuso sentimento derivante dalla fallacia di parecchie procedure (a partire dai sistemi operativi), la seconda è un dato di fatto, poco apprezzabile, ma non controvertibile. Non trascurerei, infine, neppure l'abitudine frequente dei fornitori di hardware di fornire PC con applicativi già caricati, senza consegnare al cliente il corrispondente CD/DVD di installazione. In questo caso, i software in questione dovrebbero essere classificati tra i non licenziati, incrementando un inveterato trend che solo la diffusione di pacchetti open-source come OpenOffice può contenere (benché a danno del famoso Bill, peggio per lui).

sabato 16 giugno 2007

Area di rigore

Nella colonna domenicale prenotata dal Prof. Enrico De Mita sul Lenzuolo rosa si dibattono periodicamente temi caldi intorno al sistema tributario italiano, con la consapevolezza che nulla è più instabile della fiscalità nazionale, in balia com'è di ministri in successione, giurisprudenza cangiante e interpretazioni prepotenti. Così, quando la settimana scorsa è apparso un pezzo dedicato alle aree fabbricabili e all'ICI (ma non solo) non ci siamo stupiti di leggere, nell'ormai nota prosa algida e sintetica, che è venuto il momento di venire a patti con l'incostituzionalità della definizione legislativa delle aree in questione. Nasce tutto da una pronuncia della Commissione tributaria regionale del Lazio che ha scelto di trasferire il problema sulle larghe spalle della Consulta, chiarendo che la sua posizione è netta: un qualsiasi terreno inserito da un piano regolatore (o da un altro strumento urbanistico generale) tra quelli suscettibili di edificabilità non può, per ciò stesso, essere considerato edificabile prima che quello strumento sia attuato (attraverso, ad esempio, un piano di lottizzazione). Forzando, ma non troppo secondo la logica giuridica della CTR, la mano dell'interpretazione, sarebbe addirittura necessario attendere la specifica concessione di edificare rilasciata dal competente ufficio tecnico. Per questo motivo, la Commissione ha sollevato questione di incostituzionalità per violazione, in particolare, del fatidico art. 53 che, a memoria di studente di diritto tributario, rappresenta una sorta di totem al quale portare devozione eterna. La capacità contributiva, infatti, è uno dei principi più importanti introdotti dalla Carta del 1948, ma è anche quello che più raramente viene applicato quando si tratta di stendere una parvenza di politica delle entrate. Di fatto, si vuole far cadere, con questa richiesta, l'impianto infine realizzato dal legislatore che ha preferito connotare le aree come fabbricabili in potenza, prima ancora che sia attuato qualsiasi strumento urbanistico. Così, nel recente D.L. 223/2006 (art. 36, c. 2) si stabilisce senza equivoci che: "un'area è da considerarsi fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, indipendentemente dall'approvazione della Regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo." D'altronde, per i giudici romani, l'edificabilità non può essere un concetto astratto ma dev'essere concretamente attuabile (il valore di un'area fabbricabile determinato a fini ICI è quello venale in comune commercio, quindi quello realizzabile in un'effettiva transazione commerciale) e ciò avviene solo quando il titolare del diritto reale può realizzare la costruzione che ha richiesto e che ha caratteristiche definite e verificabili. Indubbiamente, questa posizione mette in crisi (qualora sia accolta dalla Corte costituzionale) una importante quota di gettito derivante dall'ICI. Come spesso accade, dunque, la norma interpretativa sceglie un indirizzo senza verificarne la tenuta giurisprudenziale. E la magistratura, prima o poi, entra in rotta di collisione con il legislatore, facendone emergere le fragili fondamenta. Tra qualche mese (se siamo fortunati) avremo una prima indicazione. Come devono comportarsi, ora, i Comuni? In attesa di precisazioni dall'alto, la norma giuridica esplica il suo pieno valore. Fin che dura.

venerdì 15 giugno 2007

Gli spietati

Confermando la celerità già osservata pochi mesi fa per le Linee guida sui bilanci di previsione 2007, con la pubblicazione di quelle sui rendiconti 2006 di Comuni e Province la Corte dei conti chiude il cerchio della fase preliminare dei controlli economico-finanziari. Come già nello scorso mese di aprile, la patata passa (ed è un tubero che scotta sul serio) ai revisori di ciascun ente. La struttura dei questionari approvati quest'anno non si discosta clamorosamente da quella del 2006 per i rendiconti 2005. I doverosi aggiustamenti successivi alla concreta esperienza delle sezioni regionali ha prodotto un documento, come sempre nelle versioni standard (per comuni sotto i 5.000 abitanti) e extra-large (per tutti gli altri), dal quale la magistratura dovrebbe ricavare informazioni sufficienti esercitare quel ruolo di auditing semi-ufficiale che preluderà (forse) a un nuovo controllo sistematico della gestione negli enti locali. Diciamo dovrebbe, nel senso che tutte le informazioni richieste costituiscono ragionevolmente un insieme esauriente ma non esaustivo della situazione al 31 dicembre 2006. In questa fase, però, non è pensabile chiedere alla Corte un lavoro di fino su ciascun atto amministrativo di rilevanza contabile. Anche perché, in caso contrario, avremmo già impacchettato un nuovo sistema di controlli che oggi nessuno si sbilancia a predire. Nel dettaglio, rispetto allo scorso anno, i questionari più numerosi (i comuni sotto i 5.000 abitanti rappresentano pur sempre quasi l'80% del totale) propongono alcuni approfondimenti. I quesiti preliminari, innanzitutto, sono più numerosi: per tener conto di eventuali correttivi ai preventivi 2006 già richiesti dalla Corte, di carenze documentali nella proposta di rendiconto, di movimentazioni sui residui passivi del Titolo II contabilizzate correttamente, di eventuali debiti fuori bilancio e delle loro modalità di finanziamento. Nella seconda sezione il questionario approfondisce i risultati della gestione 2006. Al punto 1.1 (Risultato della gestione di competenza) non è più richiesto di indicare l'avanzo applicato, comunque da indicare (distinto per titolo di destinazione) nel prospetto analitico al punto 1.2. Quest'ultimo, ora, è completato da un'analisi pluriennale, dovendosi mettere a confronto gli ultimi tre esercizi chiusi. Una nota in questo prospetto fa sorgere il dubbio che qualche revisore abbia indicato lo scorso anno tra le Spese per rimborso prestiti (quota capitale) anche (udite, udite) l'importo dell'anticipazione di cassa. Meglio, dunque, precisare. Anche del risultato di amministrazione e dei debiti fuori bilancio è richiesto un confronto temporale tra gli anni 2004, 2005 e 2006 per evidenziarne l'evoluzione. Appaiono anche i servizi per conto di terzi, dei quali si chiede un riepilogo dettagliato di impegni (e accertamenti) negli ultimi due anni. Dopo la Finanziaria 2007, l'attenzione della Corte si concentra anche sulle partecipazioni dell'ente locale (società di capitali, istituzioni, aziende). Per questi organismi si richiede un riepilogo delle spese sostenute dal Comune nonché la conferma o meno che abbiano approvato il bilancio d'esercizio. Ancora più rilevante è il doppio schema dove devono essere indicati gli interventi finanziari del Comune per ripianare eventuali squilibri gestionali. Nell'ultima parte del questionario, la Corte si sofferma sulla gestione dell'indebitamento: da quest'anno è compresa una sezione per indicare gli eventuali strumenti di finanza innovativa utilizzati dall'ente. Fa capolino anche la spesa per il personale, in conseguenza della verifica sul rispetto di quanto stabilito dalla Finanziaria 2006 (ricordate il risparmio dell'1% sulla spesa del 2004?). Sull'efficacia delle informazioni richieste si pronuncerà a tempo debito la stessa Corte, dopo aver effettuato i rilievi del caso. Resta, come per i questionari sui preventivi, il monito ai revisori di fare presto. Una volta che le sezioni regionali avranno indicato la data ottimale per l'invio dei questionari, sarà bene rispettarla. In caso contrario, scatterà la mannaia della censura da parte della Corte, che potrebbe addirittura chiedere ai consigli di rimuovere i professionisti reticenti.

giovedì 14 giugno 2007

Amarcord

Le soluzioni legislative favorevoli al contribuente sono sempre benvenute. Troppe volte ci sentiamo dire che, anche a livello locale, il rapporto tributario tra pubblica amministrazione e cittadino è, a essere estremamente ottimisti, difficile. D'altra parte, gli amministratori, quando possono, si muovono all'interno di regole fissate da norme di legge che offrono esplicitamente una certa elasticità. Soprattutto l'ICI è stata, in questi anni, croce e delizia di coloro che, destreggiandosi tra aliquote agevolate, detrazioni concesse a soggetti in condizioni particolari e il resto dell'armamentario a disposizione, dovevano versare il tributo sbagliando il meno possibile. Mi rendo conto che non poche maledizioni sono partite all'indirizzo di questo o quel Sindaco, soprattutto da parte di consulenti e studi commerciali per conto di clienti residenti in comuni diversi. E' però vero che, almeno nella maggior parte dei casi, si è sempre trattato di ridurre il carico fiscale nei confronti di percettori di redditi bassi oppure svantaggiati per ragioni diverse ma egualmente plausibili e meritevoli di attenzione. Ora, però, nasce una nuova forma di autonomia fiscale. Il Comune di Rimini ha infatti deciso, con decisione ovviamente autonoma, di prorogare al 30 giugno 2007 la scadenza della prima rata ICI (prevista da quest'anno al 16 giugno, spostata al 18 giugno, primo giorno non festivo utile). La motivazione è cosa già sentita: "Il provvedimento di proroga, che accoglie le richieste pervenute da cittadini, Caaf e associazioni di categoria, ha lo scopo di agevolare i contribuenti che, per la prima volta dal 1992, si trovano di fronte a nuovi termini di pagamento dell’ICI. Nell’ultimo periodo, infatti, nell’ambito di un programma d’uniformità degli adempimenti fiscali il legislatore ha introdotto una serie di novità tali da costituire un panorama piuttosto complesso e comunque inedito. La prima rata dell’ICI, pari al 50% dell’imposta dovuta per l’anno in corso (come per il pagamento in un’unica soluzione), (...)." C'è già chi plaude in modo incondizionato all'iniziativa (v. Commercialista Telematico, il quale auspica un'adesione spontanea di altri comuni all'anarchica proroga). Non mi sembra, tuttavia, il caso di esultare. Chi ha autorizzato il Comune a rinviare una scadenza di legge? Questa brezza autonomista potrebbe anche essere vista come tentativo di esasperare il rapporto con il governo centrale, perché giunga a conclusione il lungo tira e molla sulla destinazione del Tesoretto. Senza nascondersi dietro un dito, la bella pensata ha invece tutta l'aria di essere una forzatura bella e buona. Non è legittima, perché per poter spostare la scadenza è necessario un provvedimento di pari grado. Non è coerente con la normativa nazionale, perché la nuova scadenza fissata dal decreto Bersani del luglio scorso è stata introdotta per parificarla a quella del saldo IRPEF, tenuto conto della facoltà generalizzata di utilizzare il modello F24 per versare l'ICI. E' invece ipocrita, perché il Comune avrebbe potuto ottenere lo stesso effetto conciliatore senza violare la legge ma assumendosi interamente la responsabilità di non applicare sanzioni a coloro che, nei termini del ravvedimento operoso breve, avessero versato dopo la scadenza. Infine, la motivazione è il consueto disco rotto suonato da coloro che, a circa un anno di distanza, si sono improvvisamente accorti che non riescono a fare i conti a tempo. Il paradosso è che non servirebbe neppure lasciare ai comuni la facoltà di determinare autonomamente le scadenze di pagamento, perché sono convinto che, anche in quel caso, la pressione per una proroga spunterebbe al momento opportuno.

mercoledì 13 giugno 2007

Palla al balzo

In Italia, gli stadi di calcio sono come luoghi di culto. Non solo nel senso che, spesso, la propria squadra del cuore è oggetto di adorazione religiosa, assimilandola a pratica di fede. E' infatti probabile che da un censimento parallelo chiese-stadi emerga un sostanziale pareggio se non un due in schedina. Con la differenza che la manutenzione delle prime è affidata al buon cuore dei praticanti, mentre quella dei secondi non ha mai avuto un padre solo. Poiché gli impianti sportivi sono per lo più di proprietà dell'ente locale, i problemi sono correttamente (anche da un punto di vista strettamente giuridico) girati a quest'ultimo. Le società che di quegli impianti fanno buon uso nei vari campionati ne raccolgono i frutti attraverso i non lauti incassi del fine settimana. Quando si sale di categoria, però, questa equivalenza dal sapore campanilistico perde progressivamente di valore. L'aumento dei tifosi si accompagna ad un peggioramento del loro tasso di civiltà medio. Superfluo ricordare quanto accaduto nei mesi scorsi, a proposito di violenza e sport. L'inasprimento delle misure di sicurezza determina un incremento sostanzioso delle spese per migliorare l'infrastruttura. Ma chi ne deve sopportare l'onere finale? Ora, un'ordinanza del TAR Friuli si pone decisamente dalla parte delle società di calcio e stabilisce che debbano essere i Comuni (in quanto proprietari dell'impianto) a sostenere le spese per tornelli, apparecchi di videosorveglianza, metal-detector ecc. Siamo sempre nell'ambito delle intepretazioni, corroborate stavolta da un'autorevolezza difficilmente opinabile in una sede che non sia quella giurisdizionale. Certo è che un'espressione del decreto n. 8/2007 (all'adeguamento "possono provvedere" le società utilizzatrici l'impianto) è sufficiente al giudice amministrativo per attribuire agli enti proprietari l'intero onere, come in un contratto di locazione qualsiasi. E pensare che nel decreto è esplicitamente indicato il divieto di aggravare la finanza pubblica a causa di questi straordinari interventi. Trattasi di trovare un accordo sulla definizione più adeguata di "finanza pubblica". La vertenza non è ancora conclusa, peraltro; e non si possono escludere nuove pronunce che ribaltino la decisione friulana. Il consiglio è dunque quello di mettere mano al più presto alle convenzioni con le società interessate e tutelare le casse comunali. Altrimenti, alla prossima retrocessione, la giunta rischia grosso.

martedì 12 giugno 2007

Duri d'orecchio

Dovrebbe rappresentare un giardino, rigoglioso di fiori e colori. Visto in bianco e nero, nelle pagine di un quotidiano, ha semplicemente l'aria e i contorni di un labirinto. E non ci scherzerei sopra. Si tratta del logo che accompagna la presentazione della 24a Assemblea nazionale dell'ANCI, quest'anno splendidamente proposta a Bari. Quella del labirinto è forse la metafora più azzeccata da qualche mese a questa parte. Difficilmente potrò essere smentito se sostengo che le amministrazioni locali si sono infilate (non necessariamente da sole, ovviamente) in un dedalo di vincoli giuridici e non dal quale è davvero arduo sperare di uscire senza danni. Per i comuni sopra i 5.000 abitanti il minotauro è senz'altro rappresentato dal Patto di stabilità (fantastico ibrido di delicati equilibri politici europei e striminziti saldi contabili locali). Il can-can sulla richiesta da parte di sindaci esasperati di utilizzare almeno in parte gli avanzi di amministrazione accumulati negli anni per completare qualche opera pubblica non ha ancora prodotto risultati tangibili, mentre il famigerato tesoretto si assottiglia sempre più (araba fenice dei nostri tempi). Il circolo è vizioso, checché ne pensino le migliori menti della loro generazione: perché il Paese deve ripartire, ma se le risorse sono lì, disponibili, accantonate, improduttive, non le si può spendere. La liquidità accumulata da parecchi enti negli ultimi esercizi è senz'altro considerevole. Che almeno sia consentito di sbloccarla parzialmente, per evitare che, a risanamento completato, sia scaraventata tutta insieme sul mercato, con inevitabili conseguenze inflazionistiche. E i piccoli enti non sanno ancora se il chiacchiericcio sull'ICI da abolire produrrà meno gettito o più problemi, riducendo un altro po' i margini di autonomia fiscale sin qui conquistati. Eppure alla Fiera del Levante di questo non si discuterà. Città metropolitane, Sicurezza, Sistema Paese, Qualità della vita: temi importanti e ricchi di spunti per chi si chiede quotidianamente come amministrare meglio il proprio angolo italiano. Ma percepisco sempre un'aria di 'altrove' che non riesco a scrollarmi di dosso. Non credo che invitare il sindaco di Roma o il presidente della Camera dei deputati a parlare di avanzi di amministrazione sia plausibile, anzi. Ma uno spazio nel quale coinvolgere anche cariche istituzionali così rilevanti nelle questioni caldissime della finanza locale si sarebbe dovuto trovare. Non so, infatti, quale sarà il 'parterre de roi' dell'evento organizzato a novembre da ANCI per parlare solo di risorse finanziarie (sede: Brescia). Di fatto, non condivido l'impostazione secondo la quale i temi alti non debbono mischiarsi con la spudorata concretezza della partita doppia. Nessuno lo dichiarerà mai esplicitamente, ma il dato di fatto non cambia di una virgola: questa contaminazione non s'ha da fare.

lunedì 11 giugno 2007

I lunedì al sole

Da che mondo è mondo, l'autorevolezza si conquista. In regalo, pare, non l'abbia mai ricevuta nessuno. Talvolta, però, sembra che, una volta acquisita la patente di esperto, ci si dimentichi di rinnovarla a scadenze regolari, quantomeno per non essere beccati al primo controllo. E infatti. Il Lenzuolo rosa, da qualche tempo molto interessato ad approfondire i problemi e i rovelli della finanza locali, spende tutto il suo carisma (e 'spendere' ha risvolti più che metaforici) per anticipare, analizzare, in una parola, informare sulle novità del nostro caleidoscopico mondo. A parte la linea editoriale dei periodici specialistici, che essendo in abbonamento predica necessariamente ai convertiti, il massiccio incremento di pagine dedicate agli enti locali farebbe presupporre un'altrettanto consistente rigore nel proporre commenti e approfondimenti. Invece, non è la prima volta che, accanto a seri e innovativi spunti di discussione come, ad esempio, quelli proposti di quando in quando dal professor Stefano Pozzoli, compaiono sulle colonne del Lenzuolo interventi che meglio starebbero fra le pagine del catalogo di un'ipotetica Sagra dell'ovvio. Nella vera e propria lenzuolata dedicata il 4 giugno scorso alla Corte dei conti alla vigilia della pubblicazione delle nuove Linee guida sui rendiconti, fanno capolino un paio di pezzi palesemente costruiti attorno a un non-evento ma cucinati come fossero illuminazioni da premio Nobel. In uno, dedicato alle pronunce della Corte sull'indebitamento improprio dei Comuni (quello, per intenderci, destinato a finanziare spese diverse da quelle di investimento) si fa passare come nuovo il concetto secondo il quale la quota di spese di progettazione attribuite al responsabile di procedimento nell'ambito della realizzazione di un'opera pubblica non sono spese da inserire nel titolo I ma nel titolo II. Finanziate come sono con gli stessi mezzi dell'opera a cui si riferiscono, non si vede per effetto di quale regola contabile debbano essere impegnate fra le spese correnti, essendo a tutti gli effetti assimilate alle prestazioni progettuali di un professionista esterno. Evidentemente, la Corte ha dovuto pronunciarsi su un caso nel quale l'ente voleva un parere prima di prendere una decisione e commettere l'errore da penna rossa. L'articolista, al contrario, invece di sottolineare quest'ultimo aspetto, preferisce mettere in luce il parere della Corte come fosse nuovo di zecca. In un secondo articolo di spalla si spendono tre colonne a tre quarti di pagina per scoprire che un Comune aveva considerato tra le spese detraibili ai fini della determinazione del saldo quelle sostenute per funzioni proprie anziché delegate dalla Regione, come maliziosamente dichiarato dall'ente. Anche qui, più che il pezzo, è il tono a non convincere. Chi legge è in grado di distinguere la notizia dalla bufala, specie quando si tratta di argomenti più o meno quotidiani. Si trattasse semplicemente di una rassegna delle principali pronunce, non ci si dovrebbe sorprendere. Così confezionati, invece, entrambi gli articoli sanno di presa per i fondelli. Non c'è bisogno dello scoop ad ogni costo per fidelizzare i lettori.

domenica 10 giugno 2007

Sotto a chi tocca

Il 'Fai da te' come regola operativa è uno dei capisaldi di ogni ufficio ragioneria che si rispetti.
Non scherzo, ovviamente. Bisogna sempre inventarsi qualche espediente per impedire che le impenetrabili norme giuridiche blocchino sul nascere l'attività amministrativa.
Ciò non significa violare la legge. Più pragmaticamente, vuol dire spremere le meningi per trovare una concreta via d'uscita quando pare non ve ne sia una, ma senza buttar giù la porta.
Questo modus operandi diventa inevitabile quando è l'impudico legislatore a buttarci addosso le sue esigenze obbligandoci a soddisfarle. E se persino la Corte dei conti si fa braccio destro speciale dell'esoso erario, cosa resta a noi se non l'acquiescienza e un volo di fantasia creativa?
L'ultima nota dolente giunge dal D.L. 262/2006 (già convertito in legge, appunto) che ha aggiunto al vetusto D.P.R. 602/1973 sulla riscossione delle imposte sui redditi un articolo (48-bis) che recita così:
"Disposizioni sui pagamenti delle pubbliche amministrazioni. 1. Le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e le società a prevalente partecipazione pubblica, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore a diecimila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo. 2. Con regolamento del Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono stabilite le modalità di attuazione delle disposizioni di cui al comma 1."
Senza inutili giri di parole, insomma, ci si dice che prima di pagare una prestazione (anche se eseguita a regola d'arte e ordinariamente liquidata dal responsabile di servizio interessato) dobbiamo accertarci che il creditore non sia nel contempo debitore dello Stato per imposte sui redditi addebitate con cartella esattoriale. Altrimenti, al fornitore non dobbiamo neppure un euro se non dopo l'assolvimento del suo debito pregresso. Tecnicamente, dobbiamo armarci di una buona connessione internet e consultare di volta in volta gli archivi dei concessionari, sperando di non incappare proprio nel nostro fornitore. Una delazione mascherata da collaborazione, insomma.
Ma con alcuni risvolti di carattere relazionale. In effetti, poiché il rapporto contrattuale intercorre con il Comune, la nostra morosa impresa potrebbe ritenere che, si d'accordo, la legge ti impone di bloccare i pagamenti, ma non impedisce a me di applicarti interessi per ritardato pagamento. Nulla è infatti detto a proposito nell'articolo. C'è da sperare che nel regolamento tale eventualità sia presa in considerazione.
Nel frattempo, per impedire che qualche cosa sfugga alle maglie (larghe, talvolta) della riscossione erariale, è indispensabile chiedere al fornitore un'autocertificazione che, se non altro, ribalti su di lui la responsabilità di aver dichiarato una falsa fedina tributaria pulita.