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venerdì 30 novembre 2007

Il velo dipinto

Siamo così usi, nelle ultime settimane, a sentir parlare di derivati da parte di chiunque che risulta quasi impossibile sfuggire a una sorta di rassegnazione: il prezzo da pagare per aver lasciato scorrazzare gli istituti di credito nei corridoi della finanza locale. Fosse tutto così semplice, però, risolveremmo il problema chiudendo occhi e orecchie, sfuggendo definitivamente alla ripetitività di un dibattito in realtà mai decollato. Non è mai troppo tardi, invece, per riaprire i sensi a qualche idea espressa con chiarezza e con l'autorevolezza dell'economista di fama. Mi riferisco al breve saggio (non vedo come meglio definirlo) dedicato sullo Struzzo giallo di oggi all'argomento a firma di Mario Sarcinelli. Quest'ultimo, ex direttore generale del Tesoro e attualmente presidente di Dexia Crediop, banca d’affari leader in Italia per la finanza pubblica e il project financing, prende la confezione regalo dei derivati e la scarta del suo involucro luccicante per mostrarci il suo personalissimo punto di vista. Che si sia d'accordo o meno con le argomentazioni esposte, balza subito all'occhio la differenza abissale tra i ragionamenti di Sarcinelli e gli strilli vacui finora ascoltati sul tema. Basta che non ci si dimentichi nel corso della lettura da quale parte del contratto finanziario sta l'istituto da lui oggi diretto. Di fronte a un quasi unanime coro dispregiativo nei confronti degli strumenti ormai definitivamente associati con Milena Gabanelli, Sarcinelli cambia la prospettiva di osservazione. Perché, si chiede, gli enti locali (come qualsiasi altro operatore autorizzato sul mercato) stipulano contratti di finanza derivata? Risposta: per assicurarsi contro il rischio contenuto in altre operazioni finanziarie. Oppure per finalità speculative. Se quest'ultimo obiettivo è perseguito da enti privati, l'alea è a carico esclusivo di questi ultimi. Quando a rischiare è un ente pubblico, invece, l'esigenza di regolamentare l'attività finanziaria è al massimo livello. Non sarebbe meglio dunque chiudere definitivamente i rubinetti per operatori che, notoriamente, non sono esperti di cap e collar? Che Sarcinelli rispondesse di no era nell'ordine delle cose (come se il presidente della Coca Cola sostenesse che le bevande gassate fanno male allo stomaco). Piuttosto va messa in evidenza la non banale tesi a sostegno. Si tratta di una motivazione che più economica non si può: se fossimo in un mercato perfetto gli enti locali potrebbero accedere in ogni momento a tutti gli strumenti finanziari desiderati, al costo più basso. Non avrebbero perciò bisogno di aggiustare la propria posizione acquistando un derivato. Siccome così non è, se si vietasse questa via d'uscita, il costo dell'indebitamento sarebbe più elevato e gli enti si troverebbero senza alternative da percorrere per meglio modulare il servizio del debito. Ma è proprio così? Lo stesso Sarcinelli ammette che, all'interno degli enti locali, nè amministratori nè tecnici sono in grado di offrire sufficienti competenze per comprendere sino in fondo le sfumature di un contratto di finanza derivata. Il che però significa anche che, quando l'ente locale si fa convincere a stipulare (ad esempio) uno swap, è il luccichio delle somme versate in up-front che fa la differenza, non la valutazione sulla flessibilità complessiva dei mercati finanziari. Sarebbe bello credere in un'analisi a tavolino lunga e meditata, ma, checché ne pensi Sarcinelli, non è questo il mondo reale. Che è fatto di sindaci golosi (di liquidità immediata) o avventati (perché il debito invece di diminuire, aumenta). Anche escludendo le attuali forme di controllo sulla stipulazione dei derivati (che ne determinano addirittura l'efficacia), un eventuale divieto comporterebbe semplicemente il ritorno a un passato nel quale l'eccesso di liquidità nel sistema era gestito dalla Cassa DD.PP. e dagli altri istituti bancari con un oculato mix di tassi fissi e variabili, nel quale l'ente locale trovava il mutuo più adatto alla sua necessità spendendo non più di quanto il mercato chiedeva agli operatori. L'imperfezione di oggi, in realtà, è dettata più dall'eccesso di confidenza nei confronti di prodotti nati per scopi men che pubblici e dunque a noi non adatti. Ciò non toglie che l'analisi di Sarcinelli restituisca finalmente al dibattito il tono serio che merita. Peccato per il titolo, immagino non suggerito dall'autore: di rumore se n'è sentito davvero tanto, che dietro ci sia solo una bolla di sapone, tuttavia, è una beata illusione.

giovedì 29 novembre 2007

La legge del taglione

Con una fetta della manovra 2008 definitivamente sfornata, è possibile fare un punto della situazione finalmente fermo sui suoi aspetti più salienti. A cominciare dalla questione Fondo credito. A dispetto delle allucinazioni dello Struzzo giallo, l’adesione alle prestazioni INPDAP finanziate con lo 0,35% dello stipendio è già automatica per chi è già alle dipendenze dell’ente. Tutti gli altri dovranno esprimersi in modo esplicito e chiedere di subire d’ora in avanti la ritenuta mensile (Art. 3-bis). I comuni virtuosi che intendono estinguere quote di mutuo utilizzando avanzi di amministrazione non altrimenti destinati e che devono, per ciò, sborsare penali e/o indennizzi agli istituti di credito (compresa la Cassa DD.PP. Spa), possono usufruire della minestra straordinaria valevole 90 milioni di euro in tre anni. Chi intendesse usufruirne, però, dovrà riscaldarla al micro-onde, perché all’appello manca il decreto ministeriale di prammatica che ne deve oliare il meccanismo (Art. 11). La sospensione della sospensione è ufficiale. I pagamenti oltre i diecimila euro possono (devono) essere regolarmente eseguiti, in attesa che il Ministero si decida a far pubblicare quel decreto sul quale il Consiglio di Stato ha rimuginato per mesi e che ora direbbe chiaro e tondo qual è la procedura da seguire. Semplificata da tempi brevi e da interlocutori scelti non in base alla scarsa voglia di Equitalia di rimboccarsi le maniche. Quei diecimila euro, inoltre, diventeranno probabilmente ventimila, rendendo più fluida l’applicazione della norma (Art. 19). Le risorse scovate nei bassifondi del Tesoro per finanziare debiti a carico di enti locali dissestati sono sostanziose. Centocinquanta milioni di euro così destinati hanno fatto salire la pressione a tutti quegli enti che si sono visti ridurre arbitrariamente i contributi erariali, senza neppure tenere in considerazione il gettito effettivo. Dovranno rassegnarsi: il fondo perduto pro-dissesto rimarrà, e i tagli pure (Art. 24). Se avete intenzione di affidare all’esterno la gestione del servizio idrico integrato e non vi siete ancora mossi, ho l’impressione che ricadrete nelle more della sospensione di dodici mesi, che decorre dall’entrata in vigore del decreto convertito. E chissà se basterà. Tra un rinvio e l’altro, infatti, il Codice dell’Ambiente è ancora lì, quasi tutto sulla carta. Anche la porzione dedicata alla gestione della nuova tariffa rifiuti non ha fatto passi avanti. E nella Finanziaria, con ogni probabilità (e speranza), prorogheranno pure quest’ultima (Art. 26-ter). Dopo anni di battaglie a colpi di carte bollate, le cooperative agricole ottengono una decisiva vittoria in trasferta, nel torneo per guadagnarsi l’esenzione dall’ICI. Infatti, se il socio o l’amministratore abita il fabbricato sopra il fondo posseduto dalla società, lo stesso può fregiarsi della caratteristica di rurale e dunque non pagare ICI. L’elenco delle attività agricole per le quali gli immobili ad esse strumentali risultano rurali è stato, inoltre, esplicitato, copiando in larga parte quanto già detto dal Testo unico delle imposte sui redditi. Nel frattempo, la giurisprudenza della Cassazione può essere messa in un cassetto: ormai la legge l’ha sigillata (Art. 42-bis). Infine, se sulle politiche di gestione del personale la Finanziaria opera una mezza rivoluzione, le briciole del collegato fiscale vanno alle assunzioni di LSU. Liberalizzazione anche oltre i limiti oggettivi delle piante organiche, per i comuni sotto i 5.000 abitanti. Unica controindicazione: i lavoratori socialmente utili assunti in soprannumero impediranno all’ente di assumere altro personale sino al completo riassorbimento dell’eccedenza: poco male, nel frattempo l’ente beneficia di una deroga alle ristrettezze dei giorni nostri (Art. 43). Ora, solo la Gazzetta può dirci quando entrerà in vigore.

mercoledì 28 novembre 2007

Luce in fondo al tunnel

Se il buongiorno si vede dal mattino, alla sezione di controllo della Corte dei conti dovranno dare un’iniezione di ricostituente, prima che inizi il nuovo anno. Non mi riferisco solamente alla pletora di comunicazioni che inonderanno le sedi regionali per effetto delle disposizioni di una Finanziaria mai così esplicita nel coinvolgere la Corte nell’applicazione dei suoi dispositivi. Tra regolamenti da vagliare per esprimere pareri, relazioni da analizzare, e via archiviando, si preannuncia per la magistratura contabile un primo semestre infuocato. Ma c’è dell’altro. Rileggendo lo Struzzo giallo di venerdì scorso, infatti, mi sono accorto della notizia dedicata a un recente parere della sezione campana che tenta di arginare per tempo quello che potrebbe trasformarsi in un diluvio. Un consigliere appartenente ai gruppi di minoranza di un ente locale aveva vivacemente contestato, ritenendole insufficienti, le spiegazioni che il responsabile del servizio finanziario gli aveva fornito sul bilancio di previsione 2007. Aveva così preteso che il Sindaco si attivasse per trasmettere alla Corte dei conti tutta la documentazione, compresa la relazione dell’organo di revisore dei conti. Poiché il primo cittadino non era del tutto convinto della obbligatorietà di questo invio, ha giustamente interpellato gli eventuali destinatari chiedendo se esistesse una norma che lo vincolasse in quel senso. La risposta della sezione di controllo non poteva che essere negativa, data l’assenza di disposizioni che regolano questo poco ortodosso collegamento tra enti e Corte. Le uniche corsie sulle quali possono scorrere gli atti di bilancio, con o senza pedaggio, sono quelle dei questionari introdotti dalla Finanziaria 2006 e ormai entrati a regime, preferenziali e intermediate, perché a cura e firma dei revisori. Altri percorsi non ve ne sono. A meno che non ci si affacci al balcone del danno erariale, da cui si gode un panorama vasto e senza orizzonte ottico. Il punto della questione, infatti, è un altro. Se la funzione di controllo e collaborazione della Corte non viene sistematizzata al più presto, il rischio è che si passi dalla massima discrezionalità alla massima confusione. Si potrebbe evitare, ad esempio, il ricorso sporadico alla verifica di atti e fatti predeterminati per legge, pratica che pare prendere piede poiché al legislatore costa niente inserirla qua e là, quando conviene. In questo modo, i pur capaci scaffali della Corte (magistratura, comunque, più informatizzata di altre) non si riempirebbero di scartoffie trasmesse senza logica e senza, soprattutto, un obiettivo che non sia quello di appioppare al miglior soggetto esterno disponibile la patata bollente. Dal canto suo, la stessa Corte si predispone a ricevere tutto quel bendidio, adottando con mossa preventiva un modello che sarà inviato ai singoli enti i quali si premureranno di compilarlo per fornire in un colpo solo tutti i dati richiesti. Il palliativo studiato dalle sezioni di controllo, però, serve solo a tamponare un presumibile uragano. Cosa vuole fare della Corte dei conti il legislatore? Non potendola, d’un botto, trasformare in una riesumazione dei vecchi O.re.co., e non potendo neppure lavarsene le mani, dovrà sul serio pensare a un assetto definitivo e sistematico di controlli sugli atti degli enti locali. Che metta gli operatori non politici nei comuni al riparo dalla leggerezza gestionale di qualche amministratore in vena di spendere. E che traghetti finalmente le autonomie locali dalla zattera nell’oceano su cui oggi sopravvivono alla spiaggia tranquilla della prolungata certezza normativa.

martedì 27 novembre 2007

La spada nel cuore

Sono cento pagine tonde tonde, e non troppo fitte. Un romanzo breve, una novella lunga. E' il testo degli emendamenti che ANCI propone alla Camera dei deputati per rimescolare le carte della Finanziaria 2008 prima che sia troppo tardi. E il protagonismo non difetta proprio alla potente associazione di Domenici, poiché, se introdotte tutte, le modifiche richieste trasformerebbero la manovra in un provvedimento quasi ad esclusivo uso e consumo degli enti locali. E certo il bulimico proliferare di norme, verificabile in generale, fa nascere nei soggetti istituzionali più scaltri la tentazione di giocare le proprie carte fino in fondo. Se su cento proposte, ne saranno accolte venti, il risultato finale sarà comunque positivo, a dispetto delle prospettive iniziali. E nel ricchissimo documento c'è materiale per intere giornate di discussione. Per rimanere in un ambito leggero, andrei a dare un'occhiata a come ANCI vorrebbe fosse modificata la norma che prevede di inviare alla Corte dei conti (sezione controllo, ci mancherebbe) l'estratto del regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, aggiornato per far spazio ai criteri e alle modalità (compreso il limite di spesa annuo) per il conferimento di incarichi di studio, ricerca e consulenza. La norma, di per sè, costituisce un frammento di un quadro parecchio più ricco. La sua ratio complessiva dovrebbe essere quella (nell'ottica ormai quasi naturale dell'abbattimento dei costi della politica) di impedire che l'individuazione di un soggetto per lo svolgimento di un incarico per conto dell'ente rimanga una scelta tanto discrezionale quanto immotivata. Su questa strada, la Finanziaria 2008 ha scelto di starci senza tentennamenti, tant'è che ha disseminato tutto il testo di insidiosi sassolini pronti a infastidire l'amministratore di turno, limitandone pure la discrezionalità operativa. ANCI non intende, evidentemente, contestare l'obiettivo finale. Ma ha piazzato il mirino sul bersaglio sbagliato, chiedendo che i regolamenti non siano inviati alla magistratura contabile. Infatti, la reintroduzione, seppure in una forma leggera come una bibita fresca, del controllo di legittimità viene letto, cito alla lettera dalle motivazioni dell'emendamento, come un ostacolo, poiché esso: "anche se non vincolante, è in assoluta controtendenza rispetto al nuovo assetto costituzionale e alla recente evoluzione del diritto delle amministrazioni pubbliche, caratterizzata dall’evoluzione da un’amministrazione “per atti” ad una “di risultati” con il connesso accentuarsi dell’autoresponsabilità." A parte il traballante periodo, le intenzioni di ANCI sono molto chiare. Quel riferimento all'autoresponsabilità sappiamo bene cosa significhi. E non ci piace per niente. Se il principio di sussidiarietà affida ai comuni funzioni e compiti a non finire e se i comitati regionali sono una reliquia del passato, ciò non è un motivo sufficiente per ritenere di avere mano libera su ogni questione. Che il legislatore adotti maldestramente iniziative a macchia di leopardo per creare suspense a tutti i costi è altrettanto biasimevole. Ma se le due sponde sono così lontane tra loro, si cominci a discutere seriamente di un assetto dei controlli che tenga conto dell'autonomia degli enti, senza però giustificarne l'anarchia. Il cane senza guinzaglio è più libero, ma il rischio che un'auto lo arrotoli sull'asfalto è di certo più alto. Gli uffici finanziari non guardano male a questo brandello di norma, che li tutela maggiormente contro l'arbitrio di sindaci sbarazzini. Se tenessero per una volta conto delle nostre opinioni...

lunedì 26 novembre 2007

Cornuti

Obiettivi condivisibili, mezzi discutibili, risultati antitetici. Questa successione logica non è infrequente in una produzione legislativa come la nostra, affollata di tali e tanti provvedimenti che è nata una commissione 'ad hoc' per studiarne lo sfoltimento. E quale arena è più adatta di una Finanziaria per duellare nuovamente tra razionalizzazione di costi e esigenze amministrative? Così, dopo essere passata da 92 articoli, numero già di suo esagerato per un provvedimento che ha preso la brutta abitudine di occuparsi di decine di argomenti differenti, anziché di ritoccare un corpo normativo stabile, la manovra 2008 ha già raggiunto la pantagruelica cifra di 154 articoli, moltiplicati evangelicamente da una tale sfilza di bis, ter e quater da costringere i manovali della Camera a rinumerare l'intero provvedimento, prima di discuterne gli esiti conclusivi. Tra i pochi immutati articoli ce n'è uno che parrebbe avere minimo impatto sulla struttura finanziaria dei nostri bilanci. A un'occhiata più attenta, però, ci si può avvedere della delicatezza della questione e dei modi (da elefante in cristalleria) utilizzati dal legislatore per disciplinare la faccenda. Mi riferisco al divieto assoluto di introdurre nei contratti di appalto di lavori, forniture e servizi la cosiddetta clausola arbitrale. Un dispositivo in base al quale, in caso di controversia, le parti non si affidano alla giustizia ordinaria bensì a un collegio di arbitri, appunto, per dirimere il conflitto con celerità. La norma fa piazza pulita di qualsiasi forma di arbitrato: quella libera, dove i componenti sono nominati a discrezione delle parti; quella amministrata, dove la Camera di commercio competente si premura di individuare il presidente del collegio. Pare che sponsor agguerritissimo della norma sia stato il ruspante ministro dei lavori pubblici, il quale ha conservato l'istinto guerrigliero che lo spinge a far terra bruciata attorno alle disposizioni che hanno anche solo un vago sentore di spreco di denaro pubblico. I precedenti, infatti, sono stati, in alcuni casi, davvero impressionanti per la dimensione raggiunta dai compensi ai membri del collegio. La commendevole iniziativa, tuttavia, nel suo furore se non cieco, quantomeno orbo, dimentica che conseguenza diretta di questo divieto indiscriminato è l'infelice isola dei tribunali italiani. Che saranno pure occupati da magistrati di limpida e specchiata fama, ma che non sono certo noti per essere fulmini di guerra nel chiudere cause. Il che preoccupa soprattutto coloro i quali pensano che il costo di una procedura non si misura solo con l'immediato esborso di denaro a favore di uno o più soggetti privati, ma anche con il tempo (in questo caso, mediamente lunghissimo) perso ad attendere che siano esperiti tutti i gradi consentiti di giudizio. Se la virtù sta davvero nel mezzo, perché non darle fiducia proponendo una soluzione che affidi a un soggetto terzo la nomina degli arbitri, assicurando che dall'urna non escano sempre gli stessi bussolotti e che dunque contemperi le esigenze di risparmio con quelle di rapidità nel sciogliere i nodi contrattuali.

venerdì 23 novembre 2007

Elusione fiscale

Vuoi vedere che, dopo le scaramucce delle scorse settimane, qualcuno ha fiutato l’affarone della nuova detrazione ICI? Sullo Struzzo giallo di oggi appare un pezzo che, simulando l’applicazione dell’imposta, paventa per lo Stato un esborso imprevisto già dal prossimo anno. Il meccanismo non è complicato, anzi. E’ valido innanzitutto solamente per gli enti che nel 2007 hanno concesso ai propri contribuenti una detrazione per abitazione principale superiore al minimo di legge (quei 103,29 euro, mandati a memoria in luogo delle vecchie 200.000 lire). Questi comuni, insomma, riducendo la detrazione prima generosamente concessa, riportandola, al limite, al tetto minimo obbligatorio, scaricherebbero sullo Stato la differenza di imposta, aumentando anziché diminuendo il gettito complessivo (che comprende anche il trasferimento sostitutivo erariale). Certo non si tratta di una situazione generalizzabile. Peraltro un esempio potrebbe chiarire meglio la questione. Prendiamo un’abitazione di categoria A3, popolare dunque, con valore ai fini ICI di € 35.000,00. Se il comune applica l’aliquota del 5 per mille e una detrazione generalizzata di € 150, l’imposta lorda di € 175 viene abbattuta a € 25. La detrazione statale (1,33 per mille del valore imponibile) massima ammonterebbe a € 46. In questo modo, poiché quest’ultima si applica sino a concorrenza dell’imposta, il contribuente azzera il debito fiscale e al Comune sono trasferiti i € 25 detratti grazie alla norma statale. Tuttavia, e qui sta appunto il senso della manovra, se l’ente decide di abbassare a € 130 la detrazione generalizzata, il debito del contribuente passa a € 45, che con l’applicazione della detrazione statale, questa volta quasi nella misura intera, azzera nuovamente il debito del contribuente ma fa attribuire al comune un trasferimento quasi doppio rispetto al caso precedente. Come si intuisce, si tratta di un’operazione molto pericolosa dal punto di vista del marketing politico, se la si vuole attuare massimizzando il contributo dello Stato. Perché, dovendo tener conto della variabile ‘rendita catastale’, è praticamente impossibile impedire che anche un solo contribuente non venga danneggiato (come la mamma, di detrazione ce n’è una sola). Così, una volta insinuata nell’orecchio dell’amministratore la pulce del possibile colpaccio, ed escluso lo scenario più avido, resta concretamente una sola possibilità. Trovare un valore intermedio tra la detrazione minima e quella fino ad oggi applicata, più vicino possibile a quest’ultima, che, salvando capra e cavoli, mantenga inalterati i benefici per i contribuenti e, contemporaneamente, garantisca all’ente un insperato maggior gettito. L’escamotage richiede qualche pomeriggio di sperimentazioni calcolatrice alla mano. Ma se, ritornando all'esempio precedente, la detrazione comunale fosse abbassata a € 140, il contribuente continuerebbe a non pagare ICI e il comune beneficerebbe di un extra-contributo di € 10. Il valore complessivo dell’operazione molto probabilmente non rappresenterà l’Eldorado, ma una manovra che aumenta il gettito e non tocca le aliquote si definisce virtuosa, giusto?

giovedì 22 novembre 2007

L'ospite d'onore

Nel lustro abbondante durante il quale ha ricoperto il ruolo di presidente della Corte dei conti, Francesco Staderini ha, di fatto, ridisegnato le competenze della magistratura contabile, dietro la spinta normativa che nel breve volgere di qualche anno ne ha, per fortuna, sancito ufficialmente la funzione di organo di collaborazione e controllo per le autonomie locali. A distanza di pochi (troppi) anni dalla soppressione degli organi regionali di controllo, il vuoto anarchico che si è creato nelle procedure verificatorie della legittimità dell’azione amministrativa di comuni e province stava producendo (e per certi versi, continua tuttora a produrre) un cumulo di non buone pratiche ben lontane dall’ortodossia e sempre più difficili da correggere e ripristinare lungo direttrici accettabili, meglio, lecite. L’azione della Corte (soprattutto attraverso le linee guida su preventivi e rendiconti interamente a carico dei revisori contabili) contribuisce a tappare la falla dalla quale, però, continuano ad uscire copiose quantità di acqua sporca. Le sezioni di controllo, dunque, oggi rappresentano solamente un tassello di un sistema di verifiche che, per funzionare davvero, non può non ritornare a una qualche forma di controllo preventivo di legittimità, pena un carico sovrumano di verifiche ex post che la Corte dei conti può gestire (a parità di risorse) solamente con tecniche di campionamento, perdendo per strada possibili situazioni da monitorare. Ora, dopo l’avvicendamento istituzionale del febbraio 2006, Staderini ha assunto un ruolo che solo formalmente rappresenta un passo indietro nella prestigiosa carriera di un magistrato giustamente in quiescenza. Come presidente dell’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali, infatti, gli toccherà un compito più defilato ma molto più spinoso e soprattutto tutt’altro che onorario. L’Osservatorio rappresenta, ad oggi, l’unico gruppo di lavoro in materia di contabilità locale che non si possa definire inutile. Da un lato, il coraggioso perorare la causa dei principi contabili è un merito riconosciuto persino da chi si ostina a ritenere indispensabile la contabilità finanziaria. Dall’altro, nei documenti prodotti fin qui dall’Osservatorio, ciascuno può individuare il filo rosso della concretezza delle proposte. E, ciò che più rappresenta la continuità con il lavoro di Staderini alla Corte, di un obiettivo: la chiarezza espositiva dei dati di bilancio. Da questa maggiore leggibilità (che non è per niente un'operazione di cosmesi) discende, gioco forza, la diminuzione dei rischi di malagestione, in attesa di una possibile riforma dei controlli e dell'avvento, chissà, di una contabilità esclusivamente economica. Nella sua prima intervista come presidente, ribadisce un concetto già espresso nel convegno di Spiazzo, a fine settembre: ci sono troppi galli nel pollaio delle interpretazioni e provocano solo confusione, purtroppo alimentata dagli stessi enti che, chiedendo lumi sulla stessa questione a organismi diversi, tentano la via breve per ottenere il parere risolutore che li autorizza a fare esattamente quel che intendevano fin dall'inizio. Che ciò accada, di fronte all'eterogeneità dei soggetti interpellati, spesso di opinioni lontane come i poli, non deve meravigliare. Piuttosto preoccupare. Di qui il compito di sentinella in servizio permanente effettivo dell'Osservatorio, che dovrà sempre più accreditarsi come interlocutore privilegiato, eventualmente in parallelo proprio con la Corte.

mercoledì 21 novembre 2007

La furia di Chen

Certi titoli fanno sobbalzare più del caffè bollente. Uno apre il giornale (certo, forse la mattina è meglio scegliere accuratamente quale sfogliare per primo) e lì, sfacciatamente, si confronta con la nuova realtà: "L'iscrizione all'INPDAP di pensionati e dipendenti pubblici diventa (letterale) facoltativa." A dire il vero, il vento gelido che si porta via le pensioni soffia da un pezzo anche da queste parti. Nessuno però si aspettava che avesse già prodotto il primo perverso effetto: eliminare la ritenuta sullo stipendio, forse il primo tentativo di autogestione previdenziale di massa. E infatti, non ci ha creduto nessuno. Anche perché la notizia è un'altra: ciò che realmente diventa facoltativo, già da questo mese, è il prelievo dello 0,35% a carico del lavoratore per finanziare le prestazioni creditizie degli iscritti INPDAP. Il che comporta che, per i soli nuovi assunti, è necessario produrre una comunicazione nella quale si aderisce in modo esplicito a questa parte di prestazioni agevolate (piccoli prestiti, cessioni del quinto, mutui e altro) dell'istituto unitario. Tutti gli altri, automaticamente, risultano iscritti a far data dallo scorso 1° novembre. In pratica, si inverte l'onere della richiesta: fino ad oggi si era iscritti ab origine, salvo disdetta; d'ora in poi, varrà il principio opposto. La norma è stata cambiata a furor di popolo, non avendo riscosso alcun entusiasmo nel comparto interessato. Insoddisfazione nata soprattutto dal meccanismo capestro che applica d'autorità il prelievo in busta paga, salvo recesso esplicito, abilissimo e fin troppo semplice sistema per far liquidità in breve tempo. Fin qui la suspense giornalistica risulta piuttosto smorzata, anzi, si finisce per ridere di gusto, perché chi firma l'articolo (dedicato all'illustrazione di alcune delle novità contenute nel decreto fiscale collegato alla Finanziaria) si è evidentemente convinto che tanto vale spingere il pedale dell'acceleratore e (senza volerlo?) propone una battuta degna del miglior cabaret: poiché il prelievo diventa facoltativo, chiosa l'autore, "salasso automatizzato dell'Inpdap scongiurato". Salasso? Lo 0,35%? A meno che non si riferisca allo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione, ci aggiriamo intorno ai 5 euro mensili, più o meno. Non dico che una trattenuta in più faccia fare i salti di gioia, ma qui, al massimo, salta un capillare, non l'aorta. Una volta dissipata la nebbia attorno allo scoop della settimana, l'articolista si dedica a fornire qualche precisazione intorno alla novella disposizione normativa. Ma la fretta è, sul serio, cattivissima consigliera. Il decreto legge rettifica l'originario testo che disciplina il Fondo credito (D.M. 7 marzo 2007, n. 45) e sostituisce il comma 2 dell'art. 2 che ora recita: "2. Per i lavoratori ed i pensionati aderenti alla gestione credito INPDAP l'iscrizione decorre a partire dal 6º mese successivo alla data di entrata in vigore della presente disposizione". Il che determina dal 1° novembre l'entrata in vigore della nuova disciplina. Non per l'ignaro articolista, però, il quale sostiene che i sei mesi devono ancora trascorrere, perché legge la "presente disposizione" intendendo lo stesso D.L. n. 159/2007. Va bene che le norme sono, mediamente, scritte in modo pessimo. Ma diamine, almeno quando non ci serve l'interprete, evitiamo di scivolare sul sapone, come in questo caso. E, direte voi, qual è il quotidiano che ci ha marciato sopra con tanta noncuranza? Dai che lo sapete...

martedì 20 novembre 2007

Effetti collaterali

Non aveva fretta, il Consiglio di Stato. Tanto è vero che la bozza del decreto ministeriale per regolare il blocco dei pagamenti ai contribuenti morosi verso l'erario gli era stata sottoposta, per l'espressione di un doveroso parere, nel lontano mese di luglio. Addirittura prima delle due fatidiche circolari che lo stesso Ministero aveva partorito suscitando (insieme ad altri documenti altrettanto sconcertanti) quel putiferio che ben ricordate. Ora che, con profetica calma, il parere è stato rilasciato, emergono alcuni elementi di fondo che fanno ripensare all'intera questione come alla tipica parabola nazionale del 'tanto rumore per nulla'. Osservo, ad esempio, che la procedura pensata dal dicastero economico per organizzare il passaggio delle informazioni a Equitalia è di una linearità cristallina. Il "soggetto pubblico" (secondo la definizione dell'art. 1) che deve effettuare il pagamento superiore a 10.000 euro inoltra preventivamente alla stessa Equitalia una richiesta, che ha il sapore di un ok motivato, per conoscere le pendenze del soggetto che attende il pagamento. A carico di quest'ultima, poi, il decreto pone l'attività di controllo della posizione debitoria del fornitore. Se, trascorsi cinque giorni dall'invio, nessuna indicazione proviene da Equitalia, l'ente può provvedere al pagamento senza ulteriori indugi. In caso contrario, invece, all'ente sarà trasmessa una comunicazione con l'indicazione del debito tributario del soggetto e il preavviso all'agente della riscossione per procedere con l'attività di recupero del credito. Tutt'altra musica rispetto alla dodecafonia proposta nelle circolari di cui si diceva, che proponevano fantomatiche autocertificazioni senza liberare davvero l'amministrazione pubblica rispetto a un obbligo che la legge poneva (e pone tuttora) a suo carico. Al Consiglio non par vero di poter concludere che: "l'introduzione dei limiti quantitativi e temporali (...) appare coerente con la ratio del provvedimento". Tra l'altro, se trascorrono altri trenta giorni dalla sospensione del pagamento e l'agente della riscossione non comunica l'avanzamento della procedura, l'amministrazione procede comunque al pagamento, riducendo all'osso qualsiasi lungaggine dovuta all'instaurarsi del rapporto con Equitalia. Sulla definizione di 'pagamento', poi, il Consiglio di Stato si fa più realista del re. Poiché la norma non fa distinzione alcuna rispetto al destinatario dei controlli di insolvenza, rimanendo come unico vincolo quello dell'esistenza di un debito tributario verso l'erario, qualsiasi pagamento della pubblica amministrazione può, in linea teorica, rientrare nell'ambito della norma. E così viene gettata alle ortiche anche la presunzione del Ministero nel voler ragionare di pagamenti periodici piuttosto che di emolumenti a dipendenti. Tutto ciò che rappresenta debito della P.A. è suscettibile di essere controllato, anche se una maggiore precisione non guasterebbe. Interessante è poi la querelle che coinvolge Garante per la protezione dei dati personali e Ministero. Il primo aveva proposto alcune modifiche al decreto per attuare la riservatezza dei dati al massimo grado. Il secondo si è adeguato di buon grado, su tutto tranne che su un punto: nella comunicazione iniziale, l'ente deve specificare l'importo del pagamento che subisce la sospensione. E il Consiglio di Stato concorda con la scelta del dicastero. Che ora, però, si trova nella condizione di doversi riferire a due testi differenti. Il 48-bis su cui è stato costruito il decreto non è più, sostituito da una versione light che, oltre ad attendere lo stesso provvedimento ministeriale, gli consente anche di alzare la soglia dei pagamenti oltre i quali attivare l'intera procedura. Rischierà, ora, di mandare tutto all'aria cambiando il testo già battezzato da Palazzo Spada?

lunedì 19 novembre 2007

Meredith

L'autonomia degli enti locali non è un dogma. Non lo è stato fino all'altro ieri, quando, prima dell'approvazione della seminale legge 142/1990, l'espressione 'autonomie locali' era relegata nelle riviste semiclandestine di qualche avanguardia dottrinale, speranzosa di trovare udienza, infine, un giorno, presso il legislatore. Non lo è oggi, purtroppo, benché la bocca degli esperti si riempia regolarmente di buoni propositi e di principi apparentemente intoccabili. I cattivi esempi di questo schizofrenico balletto sono quotidiani e sempre allarmanti. Ha voglia la Corte costituzionale a mettere qui e là pezze per coprire il tessuto liso della discrezionalità amministrativa. Ci pensa sempre un provvedimento normativo a rimettere al loro posto velleità e rivendicazioni che nascono dal basso non per spirito anarchico ma per legittime disposizioni vigenti. Eppure. Quando viene il momento di tirare il freno, chi le leggi le approva non perde neppure un minuto. La proposta di legge Finanziaria per il 2008 non fa eccezione, naturalmente. Fateci caso, nel menù a prezzo fisso del legislatore, l'unica voce ineliminabile è quella delle società partecipate (ci sarebbero anche i prodotti della finanza derivata, a dire il vero, ma questi ultimi rappresentano più il piatto del giorno che non la tradizione). L'articolata manovra del ddl già esaminato e approvato dal Senato prevede che dal prossimo esercizio la costituzione o l'acquisizione di partecipazioni di società per la produzione di beni o servizi di carattere istituzionale sarà vietata, a meno che la scelta non riguardi attività di interesse generale. A quest'ultimo proposito, togliamo subito il dubbio di qualcuno: le farmacie non sono istituzionali e, certamente, servono la collettività, quindi non rientrano nella moratoria. Però, tutte quelle società di capitali sorte negli anni al solo scopo di liberare il bilancio comunale dei costi del personale adibito a funzioni ad esempio contabili o di segreteria o di servizi culturali, saranno illegittime. Tant'è che, entro giugno del 2009, dovranno essere cedute, seguendo, inoltre, una procedura ad evidenza pubblica. Inoltre, il consiglio dell'ente dovrà riunirsi per giustificare, alla luce di questi principi fondanti, tutte le partecipazioni esistenti. Talvolta è difficile non cadere nella trappola del buon senso tesa dal legislatore. Chi contesterebbe una norma costruita non per razionalizzare (operazione che presupporrebbe un'analisi approfondita di costi e benefici), ma per potare rami senza verificare se siano sani o meno. Eppure, dietro i nobili intenti del provvedimento non si riesce a non leggere la mai abbandonata febbre centralista che solo pochi giorni fa Vincenzo Visco addebitava alla detrazione statale ICI. E che si tratti di tributi piuttosto che di diritto societario, la conclusione è sempre quella: come diceva il generale Custer (parlando d'altro), l'unica autonomia buona è quella defunta. Più elegantemente, il buon giurista preferirebbe chiosare con dura lex, sed lex. In mancanza di identica autorevolezza, è più chiaro sostenere che, a questa perenne ipocrisia federalista, preferiamo di gran lunga l'antica strada maestra del dirigismo: a ciascuno il suo posto, senza infingimenti.

venerdì 16 novembre 2007

Dall'alba al tramonto

Nell'ampia e articolata discussione sulla lenzuolata che la prossima Finanziaria stenderà sopra la gestione del personale, fa capolino un'altra norma appartenente al filone inesauribile dei 'fondi di barile'. Quest'ultimo, raschiato senza pause per racimolare i poveri resti dei fasti d'un tempo, può ormai restituire ben poco. Eppure, contando sul fatto che, arrivati al punto più basso, si può sempre scavare, il legislatore ha ritenuto che ci poteva stare, quest'anno, un'ulteriore riduzione dei compensi per lavoro straordinario. Siamo tutti consapevoli che le somme stanziate ad inizio esercizio si sono ormai attestate ad un livello, diciamo così, di sopravvivenza. Effettuare lavoro fuori dall'orario di servizio, rappresenta un evento la cui eccezionalità è paragonabile al mantenimento della scadenza per il bilancio di previsione. Dal 1° gennaio, invece, la borsa dovrà stringere ancor di più i cordoni e i nuovi contratti integrativi decentrati certificheranno quel 10% in meno sopravvissuto al vaglio del Senato e che dunque assai difficilmente sarà rimesso in discussione a Montecitorio. La piccola norma ha un valore aggregato non indifferente, poiché comprende l'intera gamma di amministrazioni pubbliche, ma, si dice, non punisce in modo opprimente gli enti che vi devono adempiere. All'opposto, osservando la questione dalla torre di guardia di chi il taglio lo deve operare sul serio, queste minimizzazioni sono aria fritta purissima, considerando che si parte (parlo per gli enti locali, ovviamente) da una base già cristallizzata alle dimensioni lillipuziane fissate dagli ultimi contratti. Se il buon senso (compresa un po' di memoria storica) ci fa dire che in passato l'abuso di lavoro straordinario ha conosciuto punte di elevata popolarità. Se è vero che, nelle stesse occasioni, esso è risultato troppo debolmente motivato. Se tutto ciò è accaduto per lo straordinario non dipendente dalle tornate elettorali, per le quali era prevista una specifica attività di vigilanza da parte delle Prefetture che, talvolta, hanno scovato le loro pesanti anomalie. Se le precedenti considerazioni mantengono il loro valore di monito. Tutto ciò non impedisce di valutare con serena amarezza il rapido calcolo applicato dall'alto senza discriminazione. Come a dire: "Siamo sicuri che potevamo togliervi un altro dieci per cento, ma ce lo teniamo per la prossima volta." Realisticamente, oggi non è certo con il fondo per il lavoro straordinario che le amministrazioni tengono in piedi la baracca. Le reali esigenze in materia di personale richiedono che il legislatore valuti negli enti finanziariamente in ordine una più coerente elasticità con parametri di sostenibilità a lungo termine della spesa per nuove assunzioni, piuttosto che l'imposizione di vincoli kafkiani, che neppure la matematica permette di risolvere. Proprio per questo motivo, per questa eterna incomprensione tra centro e periferie, limare anche il fondo per lo straordinario rappresenta un inutile ed eccessivo accanimento. Se l'obiettivo vero di questa misura erano i ministeri, perché non lo hanno messo nero su bianco?

giovedì 15 novembre 2007

Equilibristi in Parlamento

La professione circense, nobile e antica tradizione italiana, diffusa e tramandata di padre in figlio da generazioni ormai, non corre il rischio di estinguersi. Se non altro, non verranno mai a mancare ottimi atleti-artisti, abilissimi nel traghettare il proprio peso da un'estremità all'altra di fili sospesi a qualche metro d'altezza. Un vivaio inesauribile siede in Parlamento e non fa nulla per mantenere l'anonimato. Così, quando si tratta di giustificare il perché della stretta sul lavoro flessibile introdotta nella Finanziaria 2008 (valevole anche per gli enti locali), la tiritera è sempre la stessa, invariabile e senza fantasia: dovete spendere meno per il personale. L'aurea regoletta ha valicato da troppo tempo i confini del sostenibile. Quanti comuni hanno infatti dovuto letteralmente tirare la cinghia perché impossibilitati ad assumere benché finanziariamente sani, causa rispetto del Patto? E quanti, nelle identiche condizioni economiche ma di dimensioni ridotte, si sono visti limitare il turn-over per effetto del noto giochetto denominato "Uno fuori, uno dentro"? Ora, in una manovra che sembra aver adottato come motto fondatore il pragmatico "bastone e carota", piena com'è di disposizioni concessorie ma anche punitive, dobbiamo fare i conti con un coattivo contenimento delle assunzioni a tempo determinato, consentite esclusivamente quando si tratta di esigenze stagionali di durata non superiore ai tre mesi. Nessun escamotage trova albergo nel perfido articolo, dunque nessun rinnovo e nessuna assunzione per incarichi differenti. Resta la deroga per le assenze con diritto alla conservazione del posto, limitata però agli enti esclusi dal Patto di stabilità con piante organiche di quindici elementi al massimo. E mica per il tempo che si vuole, poi: solo sei mesi anziché gli striminziti tre! Il che, concretamente, significherà, nel rispetto coatto della norma, ricominciare da capo la formazione del nuovo precario B, appena dopo la scadenza del trimestre del precario A. L'aroma di antieconomicità si sta spandendo nelle stanze dei nostri uffici. Ma questa è, non solo a mio avviso (c'è pure il conforto sul campo di operatori qualificatissimi in regioni differenti), una conseguenza quasi residuale del provvedimento. Ciò che, infatti, accadrà sempre più frequentemente è il ricorso al lavoro interinale, mai vietato fino ad oggi, ultimo rifugio dei disperati della dotazione di personale. E non ci vuol molto a intravedere il passaggio logico successivo. I margini di risparmio affidandosi alle agenzie di impiego temporaneo svaniscono come i miraggi, divorati dal costo dell'IVA, scaricabile solo in caso di servizio rilevante, e soprattutto dalla quota di profitto compresa nel costo orario del prescelto. La pentola del diavolo legislatore resta pur sempre senza il coperchio. Alla fine, però, anche l'acqua evaporerà del tutto.

mercoledì 14 novembre 2007

L'urlo della foresta

Ora è tutto chiaro. Fiumi di inchiostro (beh, per ora, solo qualche rio, lo ammetto), grandi proclami di novità (che non mancano mai) e tanta fuffa per spiegarci che, entro un periodo massimo di tre anni dall'entrata in vigore del provvedimento ad hoc, in tutti gli enti locali d'Italia farà il suo debutto la contabilità ambientale. Fin dall'inizio, appena letto il testo del disegno di legge che, dopo modifiche e ripensamenti su questioni specifiche e, come vedremo, cruciali, è stato battezzato dalla Conferenza Stato-Regioni, alzi la mano chi non si era fatto una grassa risata (dopo aver balbettato irriferibili improperi a chiunque avesse avuto la balzana idea originaria). E difatti, il primo punto all'ordine del giorno di ipotetici stati generali dei ragionieri dei comuni avrebbe dovuto essere: richiesta di chiarimenti ai Ministeri competenti sull'opportunità di aggiungere alla messe di adempimenti già in vigore un ulteriore massiccio mattone. Eh sì, perché se ci avessero proposto un passaggio da contabilità finanziaria a contabilità economica, graduale ma progressivo, una discussione approfondita e soprattutto seria si sarebbe potuta (dovuta?) iniziare. Invece, poiché abbiamo perduto l'innocenza da tempo immemore, quella rapida e pure noiosa lettura ci aveva ancora una volta confermato che siamo l'anello debole della catena, così debole che ci stanno pure aiutando a tagliarlo definitivamente. Quello però che non mi aspettavo è di leggere che dietro la smania verde del legislatore c'era un meccanismo che porta dritto dritto alla cassaforte. Pare, infatti, che tutta l'attività di gestione informatica dei dati che saranno immessi nel gran cervello centrale che fagocita ma non restituisce sarà affidata ad ANCI. E poiché si tratta di un potenziale giro d'affari milionario, in percentuale sulla spesa d'investimento del Ministero dell'ambiente (nel solo D.L. n. 159/2007 sono stanziati 1.500 milioni di euro per politiche ambientali di varia natura), come sfuggire al retropensiero che il verde di cui parliamo è più quello del fatturato prossimo venturo dell'associazione che non quello dei prati dietro casa. Tanto più che l'ultimo pezzo del puzzle studiato per l'occasione è proprio il 'via libera degli enti locali', alibi generosamente precostituito per sbatterci in faccia la norma appena sfornata, impedendoci di replicare. E invece replicare si dovrebbe, perché su questa rappresentanza bisognerà pure intervenire prima o poi. Non che si voglia introdurre un sistema plebiscitario per giudicare dell'opportunità o meno di una nuova disposizione. Ma si dovrà convenire, credo, sul fatto che le realtà operative sono sistematicamente lasciate fuori dalla porta, anzi, neppure convocate, quando si deve dare una sterzata alla legislazione. Se l'ANCI, a buon diritto, siede a quel tavolo (e in certe occasioni, come testè dimostrato, non recita solo la parte del convitato di pietra), perché non potrebbe (a mio parere, con eguale peso specifico) sedere un rappresentante dell'ARDEL (ad esempio). Si continua a far passare l'idea che la rappresentanza politica basti a garantire chiunque. E' una concezione monca, che temo resterà come voce nel deserto.

martedì 13 novembre 2007

E i cocci sono nostri

Quando la Finanziaria è ancora giovane, quando non sappiamo ancora con esattezza se tutto quello che ci è dato leggere rappresenterà la versione finale della legge, il divertimento più grande è rappresentato dalla scoperta di nuovi commi, di piccole significative disposizioni che offrono, più di altre eclatanti, il vero spirito del tempo che il legislatore vuole lasciare. In quella miniera di novità che è l´attuale (e per attuale intendo ore 8 post-meridiane di mercoledì 14 novembre, già a conoscenza dello slittamento del voto filnale al Senato, previsto ora per venerdì 16) testo dell´articolo 91, spicca per incisività del tutto informale il comma che indica come nulli i contratti di assicurazione stipulati dall´ente locale nei confronti di propri amministratori per coprire i danni derivanti allo Stato e ad altri enti pubblici nonché quelli che coprono le situazioni di illeciti che configurano una responsabilità di tipo contabile. Si tratta di un inevitabile, forse tardivo, memento di un orientamento della Corte dei conti mai messo su carta (su norma) fino ad oggi e che, giustamente, impedisce all´ente di farsi carico di una responsabilità che dovrebbe essere interamente addossata a chi lo amministra. Per chi già sente odore di norma punitiva a senso unico, vorrei tranquillizzare con chiarezza. Dalla disposizione, infatti, è lasciata fuori la copertura della responsabilità civile, polizza regolarmente e legittimamente stipulata da tutti gli assicuratori di questo mondo. E d´altra parte, questi profili di responsabilità non nascono a causa di eventi determinati da colpa grave: se il Sindaco, tornando a casa dopo un animato Consiglio comunale, tampona nel parcheggio del Comune l´auto di un ignaro ed estraneo cittadino, ben potrà quest´ultimo rivalersi sulla polizza che certo copre eventi fortuiti come questo. I procacciatori di affari del ramo, però, spesso e volentieri hanno infilato nel contratto clausole dedicate esplicitamente alla copertura di danni oggettivamente fuori linea. Non che al Sindaco e agli altri amministratori questo provocasse qualche prurito. La patata veniva (viene anche oggi, stando a parecchie voci in mezza Italia) girata agli uffici ragioneria, ai quali si chiede (una volta di più) di chiudere un occhio, trattenere dalle indennità mensili la quota necessaria a coprire l´importo del premio incriminato e versarlo alla compagnia. Si mette così in moto un meccanismo non proprio trasparente che crea ex novo una atipica figura di partita di giro, non autorizzata da nessuna norma, che salva capra e cavoli ma non può soddisfare nessuno. Anzi. Si corre il rischio che qualcuno (non faccio nomi, ma comincia per ´Corte´ e finisce per ´conti´) rilevi che, contabilmente, un azzardo così non possa proprio reggere. Dal 1° gennaio 2008, dunque, ci si dovrà arrangiare diversamente, lasciando che assessori & c. incassino tutt´intero il loro lauto (abbandonando l´ironia) assegno e provvedano direttamente a versare la quota di premio che gli serve per tutelarsi dalla responsabilità contabile. Se poi le assicurazioni si ostineranno a infilare in ortodosse polizze per la responsabilità civile, clausole illegittime a copertura di danni extra-civilistici, sappiamo fin d´ora che avranno il valore della carta straccia. I costi dell´antipolitica vengono mano a mano a galla. E, aldilà di un utilizzo spesso demagogico di norme di principio che poi nessuno attua, lasciando che abbelliscano il davanzale lasciando intatto il rudere all´interno, piccole disposizioni come questa forniscono un segnale concreto che, da qualche parte, qualcuno ha capito da che parte stare. Basta che il mirino giri a trecentosessanta gradi.

lunedì 12 novembre 2007

Dopo il diluvio

La più recente novità dal Paese dei balocchi fa più ridere di un'ottima barzelletta. Sotto l'egida di Anci, il vice ministro dell'Economia e delle Finanze è passato da Brescia la scorsa settimana (l'occasione: la conferenza dedicata alle autonomie locali e alla Finanziaria prossima ventura) e, forse per non deludere le aspettative di un uditorio assetato di concessioni, forse perché davvero deluso dagli sviluppi in Parlamento, ha buttato lì, con nonchalance la seguente affermazione: "È del tutto stravagante togliere ai Comuni quote di fiscalità immobiliare, che in tutto il mondo è la principale fonte di finanziamento degli enti locali, soprattutto ora che stiamo decentrando il Catasto." Il riferimento, ovviamente, era alla nuova detrazione sull'ICI relativa all'abitazione principale, a carico dello Stato, salvo rimborso. Con questo ardito sistema premiante, i proprietari della casa di abitazione potranno aggiungere alla detrazione approvata dal rispettivo comune un massimo di 200 euro, a meno che non abitino in un castello. Rincarando una dose già massiccia di veleno, il professor Visco, poi, ci ha tenuto a ribadire che un meccanismo come quello studiato in questa occasione ricorda più l'epoca borbonica che non il ventunesimo secolo, carico com'è di impeto centralista. La chiosa dell'intervento, poi, è sembrata davvero estratta da un volantino proletario degli anni settanta: che motivo c'è di attribuire sconti fiscali alle "case dei ricchi"? La lunghezza d'onda tra viceministro e associazione dei Comuni si è così completata a scapito della serietà delle proposte politiche. Che da mesi la questione di come gestire al meglio le casse dorate del tesoretto fosse anche più importante dei delicati equilibri politici della nazione non è un mistero. Quante volte, dall'estate in avanti, la stampa (anche non specializzata) è stata usata come megafono privilegiato del populismo più sfacciato. Ma che una volta cucinata l'omelette, si dica che l'uovo era marcio, a me sembra la più esplicita delle prese in giro. Passi che un'osservazione del genere possa giungere da un sottosegretario alla pubblica istruzione, posto che, in ogni caso, non si possa barattare quando si voglia il proprio abito istituzionale per il grembiulino della merenda. Lascia, invece, totalmente basiti che si esprima così un esponente (e di che grado, poi) dello stesso dicastero che, doverosamente, ha messo nero su bianco la fatidica norma. Tra l'altro, che questo sconto d'imposta non piaccia ai comuni è cosa arcinota fin dall'inizio. Una volta letto per bene il dettaglio di come esso opera, è piaciuta a tutti ancor meno. Peccato che la manovra sia ad uno spartiacque importante e che al Senato l'art. 2 sia già stato approvato. Quali margini di manovra sussistano per stravolgere quel testo non saprei dire. Data la risicata maggioranza, immagino che si tratti di una fessura o poco più. Dunque, a tutti gli effetti, dal 2008 entrerà in vigore una norma avversata (naturalmente) dai comuni e (diabolicamente) dall'erario. Se Visco arriva ora a perorare la causa dell'autonomia tributaria locale e ne è davvero convinto, lo attende un compito erculeo: quello di far rientrare la maionese nel tubetto.

venerdì 9 novembre 2007

I cavalieri dalle lunghe ombre

Hanno piazzato una bomba nell'ultima (in ordine di tempo, dico) versione del disegno di legge Finanziaria per il 2008. Si chiama articolo 91 e ha la forza dirompente del passato che ritorna. E del futuro che incombe, ferino. Parte con un comma quasi divertente e irriverente: nessuna amministrazione pubblica può osare sborsare per qualsiasi prestazione lavorativa in suo favore (dipendenti o no) una somma superiore allo stipendio del primo magistrato di Cassazione. No, dico, parliamo di quindicimila euro mensili. E chi lo dice adesso ai dipendenti... Ma questa trovata era già stata proposta in prima battuta dal Governo. Poi, al Senato, qualcuno è stato colto dai rimorsi e si è studiato il capolavoro che segue. Da gennaio, se a nessuno verrà in mente di ridimensionare l'esplosione, per poter attribuire a chiunque un incarico di "studio o di ricerca, ovvero di consulenze" sarà necessario costruire un percorso più tortuoso di un ottovolante. Si parte con la convocazione del Consiglio comunale, il quale avrà il compito di approvare il programma degli incarichi (si presume con cadenza annuale, ma non si dice in modo esplicito). Poi, superato lo scoglio assembleare, la Giunta si dovrà fare carico di revisionare il regolamento sull'organizzazione degli uffici e dei servizi per inserirvi "in conformità a quanto stabilito dalle disposizioni vigenti, i limiti, i criteri e le modalità" per assegnare gli incarichi, precisandone anche il limite di spesa annuo complessivo. Fin qui il futuro. Il passato, invece, ritorna sotto forma di un redivivo controllo preventivo di legittimità, vecchio e talvolta rimpianto (ma questa è un'altra storia) strumento in mano agli O.re.co., oggi appioppato alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti che avranno, bontà loro, trenta giorni di tempo per controllare i regolamenti appena accennati, esprimendo un parere obbligatorio (per la Corte) ma non vincolante (per l'ente che lo ha approvato). Potete ben immaginare con quale entusiasmo, proprio a ridosso della sessione di bilancio, dovremo pure pianificare gli incarichi professionali per l'anno a venire. Soprattutto pensando a quelle tipologie che pianificabili non possono proprio esserlo: consulenze legali per contenziosi imprevedibili, pareri fiscali su questioni contingenti, anch'esse di impossibile programmazione. E sono solamente due esempi. A ragionare con freddezza, una norma di questo tenore conserva pure una sua logica. Quella di giovarsi della professionalità altrui solo come extrema ratio, dopo aver ben vagliato le risorse interne già a disposizione. Come di consueto, purtroppo, si costruisce una procedura ad anello astrusa che costringerebbe gli enti a ripartire dal Consiglio (e passare poi da Giunta e Corte) ogni volta che le necessità imponessero una diversa gestione degli incarichi. Anche perché non è che si possa fissare il limite massimo di spesa a livelli impossibili (e irraggiungibili) sperando che i magistrati non se ne accorgano. Oltre alla legittimità, infatti, questi ultimi dovrebbero pure verificare la compatibilità finanziaria delle norme contenute nel regolamento. E non mi dite che il parere non è vincolante e dunque ve ne fate un baffo, perché se qualcosa va storto la Corte non ci mette niente a rinfacciarvi lo sgarbo (e la colpa grave). Dimenticavo. Se l'iter non si segue passo passo, nessun incarico può essere affidato. Da qui a gennaio potrebbero cambiare molte cose, anche l'art. 91 potrebbe svuotarsi di polvere pirica. Ma se non volete farvi troppo male, fatelo leggere ora al Sindaco. Uomo avvisato...

giovedì 8 novembre 2007

Invasione di campo

Anche il Lenzuolo rosa si compiace della sentenza della Cassazione che, bacchettando vigorosamente le mani dei ministeri, attribuisce alle interpretazioni di legge proposte con circolari e risoluzioni l'efficacia di un'opinione. La pronuncia della Corte riapre vecchie ferite e, senza alcuna remora, sceglie da che parte stare, avvertendo i destinatari della prassi che hanno le spalle coperte, perché persino il ministero non è vincolato alle cose che ha scritto, figuriamoci il cittadino oppure la magistratura. La soddisfazione giornalistica nascerebbe da una buona vecchia abitudine del Lenzuolo: avvertire preventivamente il lettore che è sempre più saggio dar retta alla legge che non alla pur autorevole posizione del dicastero competente. Dunque, via libera senza timori all'anticonformismo. La circolare non ci soddisfa? Non importa, facciamo altrimenti. Se non fosse che, nel caso in cui l'interpretazione ministeriale sia più restrittiva rispetto alla norma di legge, il contribuente potrebbe scegliere di uniformarsi alla prima, mettendosi ai ripari da qualsiasi contestazione, ma sostenendo allo stesso tempo costi che, seguendo la sola lettera normativa, avrebbe legittimamente evitato. E se questa posizione, dalla tonalità vagamente intimidatoria da parte del Ministero, ha un'eco importante nel settore privato, figuriamoci quando il destinatario dell'abilità dialettica dei dicasteri (si parla dell'Agenzia delle entrate ma non solo) sono gli enti locali. Gli esempi dai quali ricaviamo ogni giorno materiale per ribattere e polemizzare sono anche più pericolosi. Perché, in alcuni casi, la scelta espressa in circolari e risoluzioni non azzarda solamente una mera interpretazione della norma giuridica per metterle paletti anche laddove non se ne vede un motivo giustificato dal diritto. Piuttosto, essa allarga inopinatamente il raggio d'azione della legge e gli dà una veste tutta sua, senza neppure dubitare di stare commettendo un fallo da cartellino rosso. Rammentate la recente vicenda dei pagamenti sopra i 10.000 euro, finita in una bolla di sapone, ma dominata per settimane dalle imposizioni ministeriali che avevano già individuato la procedura da seguire prima ancora dell'emissione del decreto attuativo. L'onerosità della quale si preoccupa giustamente il quotidiano si è diffusa, in questo caso, a macchia d'olio, soprattutto in termini di tempo buttato via: dai fornitori che, pur di essere pagati, inviano (continuano a inviare) dichiarazioni sostitutive a più non posso, ma pure dagli stessi uffici pagatori che hanno sperato invano di trovare rapidamente la prova della solvibilità del fornitore. Le scelte azzardate dell'amministrazione finanziaria, insomma, ingenera comportamenti concreti alle cui conseguenze è difficile rimediare. Poi, è vero, c'è chi, come Equitalia Spa, ha compreso che il Ministero ha una voce in capitolo circoscritta e ha scelto di non collaborare con nessuno in attesa del D.M. (e fiutando, probabilmente, l'avvento di una norma sospensiva che pure è arrivata). Ma questa eccezione, anziché smorzare la fiammella dell'agitazione, ha spinto una tacca più in su il livello della confusione. E i costi di un blocco così incomprensibile dell'attività amministrativa non li rimborsa nessuno. Ovviamente, nemmeno i ministeri.

mercoledì 7 novembre 2007

Gentlemen's agreement

La vendetta del Ministero non si è fatta attendere. Non sono passati che pochi giorni dalla pubblica rivelazione della Corte di Cassazione che, sostanzialmente, derubrica le interpretazioni ministeriali a prese di posizione di una delle parti in causa, dunque non cogenti, non solo erga omnes, ma addirittura anche nei confronti di coloro i quali chiedono, ad esempio con un istanza di interpello, lumi ai funzionari. Evidentemente, la rovente precisazione giurisprudenziale ha immediatamente fatto scattare moti di orgoglio nelle stanze dell’Agenzia delle entrate. Ed è stata celermente predisposta una risoluzione, lunga e, a quanto pare, meditata, su un tema raramente preso in considerazione ma che qui viene sminuzzato come il pane secco e risolto con una sciabolata finale che fa parecchio male. Nella risoluzione n. 314 di lunedì scorso, si racconta di un’associazione tra comuni, regolata con il sistema della convenzione, alla quale gli enti partecipanti hanno devoluto lo svolgimento di una serie cospicua di attività: dal Servizio di polizia municipale alla gestione economica del personale; dal servizio di trasporto scolastico al contenzioso tributario in materia di fiscalità locale. La frequenza con la quale negli ultimi anni gli enti locali hanno approfittato delle opportunità offerte dall’art. 90 del vecchio (affettuosamente) TUEL per razionalizzare le risorse disponibili e offrire standard di erogazione dei servizi di buon livello è un segnale da interpretare di volta in volta. C’è chi lo ha utilizzato davvero per ottenere quell’efficienza che oggettivamente chiunque avrebbe rilevato, e chi, al contrario e con eccessiva spregiudicatezza, ha ritenuto di esternalizzare servizi a più non posso, anche prima di aver verificato che il sistema associato avrebbe funzionato come si deve, e con il chiodo fisso del personale come zavorra. Detto questo, la soluzione adottata dagli enti interpellanti è parecchio articolata. L’ampiezza dei servizi erogati in convenzione fa quasi pensare a un’unione di comuni o a un consorzio. Siccome la scelta è invece caduta su un mezzo molto più agile, che non comporta la costituzione di nuovi organi collegiali, poiché di fatto non esiste una nuova entità giuridica autonoma, la libertà d’azione è decisamente maggiore e nel quesito si chiede al Ministero di sciogliere una volta per tutte il seguente dubbio amletico: le somme erogate dai singoli enti al comune capo convenzione per lo svolgimento delle diverse attività sono assoggettate a IVA? Nella risposta, nel mezzo di una logorroica lettura dei termini della convenzione, si propone una distinzione tra spese per attività istituzionali e spese per gestione associata di servizi. La convenzione ha, come accade ordinariamente, un comune capofila. E’ nel bilancio di quell’ente che sono iscritte tutte le uscite relative alle attività istituzionali svolte e in entrata le somme che periodicamente sono ripartite tra gli altri partecipanti. Per la gestione dei singoli servizi, invece, sono stipulate tante singole convenzioni, ognuna delle quali regola in modo specifico i rapporti tra gli enti. Il Ministero dice subito che non ha intenzione di esaminarle tutte e si limita a prendere in considerazione, guarda caso, quella più delicata relativa alla gestione del contenzioso tributario. E qui la sorpresa. Perché di fatto l’attività svolta dall’associazione in materia di tributi rappresenta l’esercizio di un’impresa commerciale. Attenzione: non stiamo parlando di un’attività appaltata a società specializzata dal comune capofila, ma di un servizio contenzioso gestito con mezzi e personale propri. Il quale viene addebitato ai singoli comuni partecipanti anche in proporzione all’importo dei ricorsi gestiti. Che si tratti di corrispettivi, non mi pare ci sia ombra di dubbio (dunque sicuramente rilevanti ai fini IVA). Siamo certi, però, che in aggregato questa attività rappresenti un sistema efficiente?

martedì 6 novembre 2007

Trappola di cristallo

Guardo sconsolato lo schermo del computer. Non che non me l’aspettassi, ma covavo segretamente la speranza che sarebbe accaduto qualcosa per scongiurare il pericolo. E invece... Il sito del Ministero dell’interno è il latore della poco lieta novella: l’ultima rata dei contributi erariali per il 2007 sconta l’intera riduzione per i maggiori introiti ICI sugli immobili che hanno perso le caratteristiche di ruralità, a seguito delle operazioni di aggiornamento catastale degli scorsi mesi. Si tratta dell’esito del D.L. n. 262/2006, che però mette in cantiere un’operazione del tutto virtuale, con conseguenze, al contrario assai concrete, a carico esclusivo dei comuni. Da un lato, infatti, non è affatto scaduto il termine assegnato ai titolari degli immobili interessati per la dichiarazione all’Agenzia del territorio nella quale si certifica la perdita della ruralità dell’edificio (c’è tempo fino al prossimo 30 novembre). Dall’altro, sulla base dei soli dati ministeriali e senza neppure attendere la conclusione degli eventuali ricorsi dei proprietari contro i nuovi valori imponibili, il Viminale decurta il Fondo ordinario 2007 dell’intera quota. Nello scorso luglio, il legislatore aveva tentato un approccio più morbido, garantendo entro ottobre l’emanazione di un provvedimento ministeriale con tutte le istruzioni per certificare il maggior gettito (ovviamente presunto, perché fondato sui dati di incasso della prima rata in acconto) dell’imposta comunale sugli immobili. Nello stesso tempo, con un’acrobazia contabile d’altri tempi, i comuni sono stati autorizzati a prevedere ed accertare “convenzionalmente” (si legga “sulla fiducia”) un maggiore introito ICI, esattamente pari alla detrazione effettuata per ciascun ente. Da riportare a residui, con una sola garanzia: parola di Ministero. Immagino che qualche revisore faccia notare, esprimendo il parere sulla variazione di bilancio che, ora, si impone, che la sola certezza in questa procedura è costituita dai trasferimenti in meno. Che poi, per quieto vivere e per impedire il diffondersi del panico, si dia il beneplacito al contestuale aumento dell’ICI, è un altro paio di maniche. Il fatto è che quella decurtazione è fatta con metodo approssimativo, facilone e assolutamente campato in aria. Si prende il totale del presunto bonus che l’Agenzia del territorio ha comunicato agli Interni: quello sarà il totale dei tagli. Poi si prendono gli importi del Fondo ordinario per ciascun ente, si calcola una elementare proporzione e il gioco è fatto. Non si tratta di bruscolini: il mio Comune perde circa 50.000 euro sulla rata di saldo che rivedremo prossimamente (forse) e comunque senza sapere con esattezza quando, visto che di quel decreto salva-cassa non si vede neanche l’ombra. Per consolarci, nel decreto estivo, si proponeva ai comuni di far pagare all’erario gli interessi passivi sulle anticipazioni di cassa eventualmente necessarie per coprire gli ammanchi conseguenti all’operazione. Scommetto che qui servirà una certificazione. Da approvare con decreto ministeriale. Da emanare chissà quando. Chiudo la pagina web e sorrido. La nuova frontiera del federalismo fiscale è sempre più lontana.

lunedì 5 novembre 2007

Tara

"Francamente, me ne infischio!" Con la spavalderia di un vecchio divo di Hollywood, la sterminata categoria degli amministratori pubblici fa quadrato e, come da copione, cancella dalla sceneggiatura della Finanziaria 2008 le battute scomode. Quelle che avevano fatto gridare al miracolo, alla rivoluzione copernicana, al salto di qualità. Appunto. Fino a qualche giorno fa sopravvivevano nel testo del disegno di legge proposto dal Governo disposizioni che avrebbero ridimensionato gli organi consiliari comunali e provinciali, riducendone i membri del 20% (ovviamente a partire dalla prima legislazione utile) secondo le fasce demografiche di appartenenza. In un soprassalto d'orgoglio bipartisan, oggi, al Senato che comincia la discussione sul testo emendato, di quel taglio non v'è più traccia. Intendiamoci, siamo gli ultimi a ritenere indispensabili queste misure per il risanamento delle finanze pubbliche. Troppo spesso invocati, tutti i provvedimenti di questa natura finiscono per affogare in un mare di qualunquismo che lascia esattamente le cose come stanno. Però, almeno in questo caso, è ironicamente significativo che, per giustificare la protesta, la principale associazione di categoria metta sul tavolo la carta dell'inopportunità: per approvare norme ordinamentali serve una legge 'ad hoc', non la Finanziaria. Fatto salvo il principio, condivisibile ma nel tempo spesso dimenticato, resta il fatto che i risparmi previsti, ora bisogna cercarli da un'altra parte e certamente non è rintuzzando i consiglieri che si sarebbero messi in discussione i 'delicatissimi' equilibri politici locali. Per salvare la faccia, comunque, si conserva il previsto taglio degli assessori, il quale, tuttavia, risulterà meno significativo di quanto stimato per gli organi consiliari perché, mentre lì si riduce un numero prefissato, qui si abbassa un tetto massimo di nomine, entro il quale è sempre possibile giocare. Tra le norme scomparse, poi, non va dimenticata quella sulle circoscrizioni che, eliminate praticamente in tutti i comuni tra i 30.000 e i 100.000 abitanti, avrebbe determinato un risparmio di qualche decina di milioni di euro e, appunto, una vagonata di consiglieri senza più scranno. Detto dell'impossibilità di pretendere una riforma dagli stessi soggetti che ne subirebbero le conseguenze, va anche sottolineato che quando si tratta, in generale, di togliere risorse agli enti non si va mai tanto per il sottile. Vi ritrovate improvvisamente con qualche consigliere in meno e già fate i conti delle laute somme nuovamente a disposizione per il prossimo bilancio di previsione. Fate con calma, contatele bene. E, subito dopo, scordatevele. Mica si regalano così facilmente gli euro in Pattolandia. Tanti gettoni di presenza in meno, tanti trasferimenti ordinari che se ne vanno. Un meccanismo oliato e infallibile, che funziona sempre nello stesso senso. E' una pellicola più scorrevole, senza intoppi, quella che si proietta in questi giorni a Palazzo Madama. Peccato che il film, ora, abbia cambiato genere: fino a ieri, drammatico, oggi, irrimediabilmente tragicomico.

venerdì 2 novembre 2007

Dietro la lavagna

Da una parte ci sono i Comuni, che applicano le norme di legge e tassano, come previsto da una normativa spietata ma inoppugnabile, le superfici degli istituti scolastici ai fini dei tributi sulla raccolta e sullo smaltimento dei rifiuti urbani. Dall'altra parte, appunto, ci sono gli organi dirigenti delle scuole pubbliche che, fino a un lustro fa, sono riusciti a schivare il balzello, grazie anche a opportune precisazioni ministeriali le quali, di fatto, ponevano sulle spalle degli enti locali l'onere di pagare le cartelle esattoriali. Si trattava, di fatto e di diritto, di una partita di giro anomala, essendo il comune obbligato a iscrivere a ruolo la scuola ed emettere la cartella esattoriale e, in un secondo momento, a pagarla a se stesso attraverso il concessionario: in realtà, quindi, accollandosi l'intera quota. Questo sistema di finanziamento, dal quale, come da tradizione, si chiamava immancabilmente fuori il Ministero competente (nelle sue molteplici denominazioni degli ultimi vent'anni), durò fino a che quest'ultimo, tirato per i capelli dagli enti locali, stufi di farsi carico di una spesa extra-curricolare, si decise a prendere l’impegno (istituzionale, ci mancherebbe) nella Conferenza Unificata Stato/Regioni di pagare, a partire dal 2002, la relativa tassa al posto dei Comuni. Nelle pieghe del bilancio dei singoli istituti, le segreterie amministrative iscrivevano correttamente in entrata il trasferimento dello Stato per pagare la tassa. Il Comune, nel frattempo, emetteva sereno i suoi ruoli, consapevole che il problema era stato definitivamente risolto. Sembrerebbe una favola a lieto fine, almeno per chi si vedeva sgravare dall'onere ingiusto. Purtroppo, è sempre consigliabile restare in sala fino alla fine, perché in agguato, nel buio di un corridoio ministeriale, c'era lo spaventoso 'residuo fantasma'. Pare, infatti, che il MUIR si sia dimenticato per anni di trasferire quelle benedette somme alle scuole. Già nel 2004, gli stessi dirigenti scolastici suonavano la campanella (d'allarme) per avvertire che il piatto piangeva e che il Ministero non faceva il suo dovere. Niente è cambiato negli anni successivi. Così, il patologico senso del risparmio che aleggia nei pressi della Pubblica Istruzione si è trasformato oggi nel più comico dei paradossi. Da quando Equitalia ha preso in mano le redini della riscossione, sembra non guardare più in faccia a nessuno (evidentemente, lavorare a percentuale rappresenta uno stimolo irrefrenabile). E così tutte quelle cartelle impagate si sono trasformate in pignoramenti, e cosa volete che si pignori in una scuola, posto che gran parte del materiale è funzionale all'attività didattica? Che diamine, i conti correnti, unico pozzetto (con fondo basso) dal quale attingere un po' di liquidi. E questi conti chi li alimenta, visto che le scuole non riscuotono entrate proprie, se non gli enti locali e il Ministero stesso: un circolo vizioso di rara intricatezza. Siccome la merendina costa (interessi di mora esclusi) non meno di 200 milioni di euro, c'è da dubitare che nelle casse degli istituti 'debitori' si possa congelare tanto liquido. E a Equitalia non resterà che rivolgersi al Ministero. Stavolta, la partita di giro la dovrà gestire qualcun altro.

giovedì 1 novembre 2007

Un altro mondo è possibile

Certi confronti possono sembrare faziosi, messi lì apposta per infastidire, provocare. Eppure, se letti con il giusto distacco, alla fine risultano inevitabili, addirittura salutari. E aprono un filone di discussione che può essere alimentato per settimane. Leggevo sul Lenzuolo rosa di qualche giorno fa un intervento sui controlli contabili nelle Regioni a statuto ordinario (quelle cioè per le quali vigono regole omogenee e che non possono permettersi legislazioni ad esclusivo vantaggio interno). Il pezzo, articolato e informato, si dilungava sull'anomalia rappresentata dalle Regioni nel sistema delle autonomie locali. Che la cosa sia nota ai più oppure no, vale la pena ricordare che in questi enti la revisione contabile è esercitata da collegi costituiti da membri dei rispettivi organi consiliari. Una sorta di autocontrollo istituzionale che, essendo viziato all'origine, non garantisce nessuno, controllato compreso. Questa situazione dall'aroma preistorico ricorda molto da vicino ciò che accadeva negli altri enti locali prima dell'avvento della rivoluzionaria legge 142, or sono 17 anni abbondanti. Anche lì, infatti, era in vigore la revisione fatta in casa. Tra l'altro, le sedute del collegio si tenevano ordinariamente a intervalli annuali, per controllare il conto consuntivo. Eccezionalmente le sessioni potevano essere semestrali, ma solo se andava bene, perché a qualcuno veniva in mente di dare un'occhiata anche ai bilanci di previsione. Ma allora il sistema dei controlli esterni era monopolizzato dai Comitati regionali di controllo che rappresentavano l'alfa e l'omega dell'audit contabile. Senza poi contare che i revisori consiglieri potevano ben essere del tutto a digiuno, non dico di contabilità comunale (il che si verifica anche oggi, e non è necessariamente una colpa), ma pure di contabilità in senso generale. Cosicché quei controlli assumevano le sembianze di un tè alle cinque, pausa di riflessione un po' annoiata per fare quattro chiacchiere spulciando tra mandati e reversali. Dal 1990 la musica per noi cambiò. In tutto questo lasso di tempo, comuni e province si sono rapidamente adattati a un sistema fino ad allora completamente sconosciuto dimostrando un'elasticità operativa encomiabile, al netto della serietà dei controlli effettuati dai professionisti nominati. A qualcuno, invece, è stato consentito di mantenere l'ancien regime e sfuggire così a una dose minima e salutare di verifiche e analisi. Suona terribilmente ingiusta questa differenza di trattamento, tanto più quando, alla luce di dati finanziari assolutamente pubblici, le regioni accumulano deficit di gestione mastodontici che determinano, a cascata, il peggioramento del debito complessivo della P.A. E guarda caso, a raddrizzare quest'ultimo attraverso le regole drastiche del Patto di stabilità contribuiscono sostanziosamente anche i comuni. Da più parti si sparano bordate verso i costi eccessivi delle amministrazioni pubbliche, spesso dimenticandosi che generalizzare non è mai un buon criterio di valutazione. Se invece delle solite manfrine demagogiche sulle indennità dei parlamentari si puntasse a un controllo serio e incisivo sui bilanci regionali, al posto della macchietta attuale, ne ricaveremmo risultati concreti e decisamente più duraturi.