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giovedì 23 agosto 2007

La gatta al lardo

Lo slancio privatistico che, negli ultimi anni, ha fatto proliferare le partecipazioni degli enti locali in società di capitali, per la gestione dei più disparati servizi, pare dovrà subire una importante battuta d'arresto per effetto della recente circolare ministeriale sui compensi agli amministratori (MEF n. del 13 luglio 2007). Questa almeno è la teoria che ci viene presentata sulle pagine del Lenzuolo rosa, in un accorato appello di Vittorio Provera e Salvatore Trifirò (professionisti di diritto societario), nel numero odierno. La tesi su cui gli autori basano la loro preoccupazione è la seguente: poiché la circolare (conformemente alla norma che l'ha originata, la Finanziaria 2007) limita in modo preciso e inderogabile i compensi attribuibili ai componenti i consigli di amministrazione, compreso il caso nel quale sia stato nominato un amministratore unico, l'inevitabile conseguenza sarà che i migliori manager sul mercato si guarderanno bene dall'accettare nomine in società partecipate dagli enti locali, aumentando così il rischio che queste ultime siano governate da una classe dirigente di second'ordine. L'argomentazione è, tra l'altro, sostenuta da almeno un paio di appigli normativi. Da un lato, infatti, il Codice civile (palesemente contraddetto dall'interpretazione ministeriale) consente esplicitamente che agli amministratori delegati sia possibile attribuire una remunerazione strettamente correlata alla responsabilità assunta in seno alla società, dunque svincolata da qualsiasi parametro predeterminato. In secondo luogo, vi sono società partecipate pubbliche per le quali questo vincolo retributivo già oggi non sussiste, e proprio per effetto della norma di cui disserta la circolare incriminata (nello specifico: il comma 466 della Finanziaria 2007) . Si tratta delle società delle quali il Ministero dell'Economia e delle Finanze è socio, purché non quotate in Borsa. In effetti, questi macroscopici difetti della disposizione normativa mettono in cattiva luce un impianto già poco chiaro (nella stessa circolare emerge il già noto e fumosissimo concetto di 'perdita', in base al quale si dovrebbe giudicare della nominabilità o meno di un amministratore). L'abitudine a scovare le smagliature nelle reti capienti delle note ministeriali ci permette di non sorprenderci più del necessario. Ciò non toglie che il punto critico sia stato correttamente sottolineato. Anche perché, evidentemente, nell'ottica dei due avvocati, le società a partecipazione pubblica restano invariabilmente enti di diritto privato, soggette allo spietato regime della concorrenza e dunque sottoposte a regole che con il settore pubblico non hanno e non devono avere nulla a che fare. L'altro lato della medaglia, però, esiste. Si chiama, secondo me, ragionevolezza di pretese economiche a fronte di obiettivi di gestione chiari. Facciamo due semplici conti, partendo da un esempio concreto (già usato in precedenza). La società per azioni che gestirà entro breve il servizio idrico integrato della provincia di Bergamo è partecipata anche dalla corrispondente amministrazione provinciale, nella quale risiede complessivamente circa 1.000.000 di abitanti, e che possiede la quota di maggioranza. E' questa, secondo la legge, la dimensione demografica a cui fare riferimento. Dunque, il presidente dell'Amministrazione provinciale di Bergamo ha diritto (ex D.M. n. 119/2000) a un'indennità mensile base di € 6.972,17 (poco meno di € 85.000,00 annui, esclusa la mensilità da accantonare a titolo di T.F.R.), aumentabile di un ulteriore 5% in presenza di parametri di spesa favorevoli. Inoltre, è sempre possibile l'applicazione degli incrementi percentuali previsti dalla Tabella D del decreto. Ipotizziamo prudenzialmente un ulteriore 20% in più. Stiamo parlando, tra l'altro, di compensi fissati nel 2000, il cui aggiornamento è previsto prossimamente. L'amministratore delegato della costituenda Spa, dunque, avrebbe diritto a un compenso massimo di circa € 80.000,00 annui. Attenzione, si tratta della parte fissa della retribuzione. Infatti, nel loro sfogo, gli autori hanno omesso di citare quella parte della circolare nella quale si ricorda che: "La norma fa salva la facoltà, per il socio pubblico, di prevedere indennità di risultato in favore dei propri amministratori nel solo caso di produzione di utili (e ci mancherebbe NdR) e in misura ragionevole e proporzionata." Vogliamo aggiungerci un premio del 20%? Il nostro dirigente percepirebbe, così, emolumenti complessivi annui per € 95.000,00. Si tratta, a mio parere, di una situazione tutt'altro che limite, perché le ATO sono, appunto, gestite su base provinciale. Inoltre, qualora il socio di maggioranza sia, in alternativa, il Comune capoluogo della provincia, si partirebbe (salvo poche eccezioni) da una base mensile fissa di circa € 4.000,00, ipotizzando una popolazione non inferiore ai centomila abitanti. Fate voi i conti. Cifre di cui dolersi? A partire da quale soglia, sono curioso di sapere, i compensi dovrebbero essere considerati appetibili (concorrenziali) per solleticare le ambizioni della crema dei dirigenti? Per pudore e per discrezione, immagino, nell'articolo non si parla di pecunia. Ciò non impedisce agli autori di condurre una battaglia che pare più rivolgersi all'orgoglio di manager che puntano a cachet a 6 cifre e oltre che non agli enti interessati alla disposizione; battaglia della quale, in tutta sincerità, non si possono condividere le motivazioni solo perché il mercato paga benissimo i più richiesti (che non sempre sono anche quelli che ottengono i migliori risultati). Legare la parte variabile della retribuzione ai risultati finali, fissandola anche a livelli significativi, dovrebbe essere criterio sufficiente per garantirsi le prestazioni e le competenze dei più capaci.

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