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sabato 21 aprile 2007

La casa della libertà

Pubblichiamo un intervento a cura di Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia, apparso lunedì scorso sulle colonne del Lenzuolo rosa. L'autore introduce, finalmente, nel dibattito sul decentramento fiscale, finora alimentato da voci poco interessate a trovare una soluzione efficace, un elemento serio di discussione: la natura del prelievo fiscale locale si deve concentrare su chi svolge un'attività lavorativa sul territorio oppure su chi lo abita? Clerici risponde così: "Una costante nell'impostazione fiscale dei Paesi centralizzati è il maggior livello del prelievo centrale rispetto a quello locale. Ma in Italia questo livello è talmente elevato da non trovar riscontro altrove. Il 95% dell'intero gettito fiscale è assorbito dallo Stato, mentre solo il 5 per cento (la metà di quanto si riscontra negli omologhi Paesi europei) è prelevato direttamente dagli enti locali a fronte di una spesa complessiva, da parte degli stessi, del 27 per cento del totale (superiore di oltre il 60% rispetto a quella media, registrata sempre negli altri Stati dell'Europa a struttura centralizzata). Una maggiore responsabilizzazione degli enti locali nella gestione delle risorse fiscali passa dunque attraverso un riequilibrio del rapporto tra prelievo centrale e prelievo locale, al quale dovrebbe alla fine essere affidato il compito di finanziare direttamente la spesa locale. Il federalismo fiscale significa questo: aumento della capacità impositiva locale, compensato da una parallela ed equipollente riduzione della pressione fiscale erariale. Ne conseguirebbero una maggiore responsabilità degli enti locali nella determinazione e nella gestione delle risorse fiscali, e una più ampia facoltà degli stessi di differenziare le politiche in relazione ai diversi bisogni locali. Certamente non è federalismo ciò che ha fatto finora lo Stato italiano, che ha trasferito competenze e funzioni agli enti locali, mantenendo saldo al governo centrale il prelievo fiscale; centellinando poi ai primi i mezzi finanziari necessari allo svolgimento dei propri compiti e costringendoli, in tal modo, ad aumentare la pressione fiscale locale. Se dunque il federalismo fiscale, al di là di una revisione complessiva del sistema istituzionale italiano, significa, in una accezione più immediata, una riduzione dei trasferimenti, (ma anche degli investimenti diretti e dei finanziamenti) statali agli enti locali e un parallelo ampliamento della autonomia impositiva di questi ultimi, e quindi in definitiva del prelievo fiscale comunale, questa "rivoluzione" non può pensarsi che a carico della generalità dei contribuenti, (cioè dei produttori di reddito) locali: che sono poi, in ultima analisi, i fruitori stessi dei servizi comunali. La precisazione non è senza significato. Perché oggi l'unica imposta in cui si configurano la capacità e la autonomia impositive comunali è l’Ici. E una dilatazione di questa imposta (come qualcuno sembra suggerire) avrebbe come conseguenza di far "pagare" il federalismo a una sola categoria economica: quella cioè dei proprietari immobiliari, in quanto peraltro possessori del bene, non già percettori del reddito (dato il carattere di patrimonialità dell'Ici). È auspicabile dunque che si cominci a ragionare in termini diversi: e si pensi di istituire una imposizione fiscale comunale che abbia come cespiti i redditi da lavoro (dipendente e autonomo), quelli da investimento mobiliare, nonché quelli derivanti dall'esercizio di impresa. Quanto alla prima forma di imposizione fiscale, se si lega l'obbligo tributario all'esercizio dell'attività lavorativa nel territorio del Comune impositore, si ottiene anche l'effetto di chiamare a concorrere nel finanziamento dei servizi comunali, non i Soli residenti, bensì i city users, residenti e pendolari i quali ultimi con l'attuale sistema versano le imposte nel Comune di origine, in cui non consumano servizi cinque o sei giorni la settimana. Naturalmente il federalismo fiscale deve essere realizzato a costo zero per il contribuente singolo: vale a dire, si deve conseguire, non solo la invarianza del gettito complessivo delle imposte erariali e comunali (come stabilisce il disegno di legge governativo AC 1762 del 4 ottobre 2006, all'articolo 4), ma anche l'indifferenza del contribuente; nel senso che l'onere fiscale a suo carico non deve aumentare: il che può benissimo attuarsi attraverso la detraibilità totale, dalle imposte erariali, delle istituende imposte comunali. Per equità, lo stesso discorso dovrebbe valere per l'Ici. È chiaro altresì che una semplice addizionale Irpef, pur resa detraibile, non potrebbe servire alla bisogna; in quanto il relativo gettito sarebbe di competenza del Comune di residenza e non, viceversa, di quello in cui si esercita l'attività lavorativa e si consumano prevalentemente i servizi comunali. Rimarrebbe aperto il problema del concorso, nel pagamento degli stessi, anche da parte dei pendolari." L'impostazione offerta da Clerici non può non risentire delle istanze delle quali si fa portatrice la sua associazione. Depurate dal filtro anti-ICI (sulla cui natura patrimoniale, peraltro, si può discutere a lungo, osservando le numerose variabili introdotte dai singoli comuni), le osservazioni sulla realizzazione di un prelievo fiscale mirato sono estremamente pertinenti e riportano la questione di fondo a una domanda semplice semplice: quali servizi offre oggi un ente locale e chi ne usufruisce per lo più? Posta così la domanda non può avere una risposta univoca. Troppe sono le differenze dimensionali tra un ente e l'altro. Si possono però individuare alcune tipologie di servizi valide per tutti gli enti. Partiamo da quelli di natura produttiva: acquedotto e riscaldamento, in particolare. Non dovrebbero rientrare nel quadro della fiscalità decentrata poiché già rispondono (con qualche distinguo) a criteri di economicità. Lo smaltimento dei rifiuti sta assumendo ormai la stessa natura. Quando la riforma attuata con il Codice dell'Ambiente sarà entrata a regime, inoltre, gli enti locali saranno sostituiti nella gestione da entità che assumeranno la veste di società commerciali. I servizi alla persona, invece, rappresentano una voce di spesa sempre più significativa nei bilanci comunali. Mi riferisco in particolare a quelli di cui beneficiano i più anziani o i più giovani, insomma le categorie più deboli. In entrambi i casi, si tratta di categorie non ancora o non più produttive, che dunque nel modello ipotizzato da Clerici non avrebbero posto. E' poi rilevantissimo il peso dei servizi relativi all'istruzione, alla cultura e al tempo libero. Difficile, anche qui, associare i fruitori a chi esercita un'attività lavorativa sul territorio. Restano i servizi istituzionali, forniti direttamente agli sportelli comunali. Qui il confine tra utilizzatori-lavoratori e utilizzatori-residenti è molto più sottile. Questi servizi sono quelli a bassa intensità di capitale, dove il costo principale, cioè, è rappresentato dagli stipendi dei dipendenti. Non potendo verificarne l'economicità, è difficile anche farne ricadere gli oneri su una categoria specifica. La discussione dovrebbe riprendere da qui: siamo davvero convinti che il carico fiscale locale debba essere spostato su chi lavora sul territorio, invece che su chi lo abita? Vorremmo occuparcene ancora al più presto.

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