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venerdì 11 gennaio 2008

La canzone resta la stessa

E' curioso il percorso che il legislatore ha fatto fare agli oneri di urbanizzazione (posto che li si possa ancora chiamare così). La norma che li istituì, più di trent'anni fa, prevedeva che i proventi delle concessioni edilizie e delle realtive sanzioni si dovevano versare sull'apposito conto corrente vincolato presso la tesoreria comunale e avevano una destinazione tassativa: realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali di attuazione. Nient'altro. Per anni, dunque, a nessuno venne in mente di utilizzare quelle somme per spese che non fossero d'investimento e addirittura legate a filo doppio all'urbanizzazione del territorio. Nell'estate del 1986, però, questa certezza si incrinò e, per la prima volta, fece capolino la deroga che ancora ci perseguita, nel bene e nel male. L'art. 16-bis, D.L. 1° luglio 1986, n. 318, integrando la norma originaria, attribuì agli enti la facoltà di finanziare le spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale con i proventi delle concessioni edilizie "nel limite massimo del 30 per cento". Non era un'eccezione di poco conto, poiché in quegli anni la spinta all'urbanizzazione si faceva davvero potente e la mucca da mungere garantiva una produttività a lungo termine. La scelta della deroga, tuttavia, ebbe fin dall'inizio il sapore del rimorso. I contributi erariali non aumentavano, l'ICI non esisteva ancora, i mezzi di finanziamento della spesa corrente erano limitati e quest'ultima cominciava a lievitare, conseguenza di una progressiva tendenza alla decentralizzazione che sarebbe poi sfociata di lì a poco nella L. 142/1990. L'erario, dunque, utilizzò la zeppa degli oneri di urbanizzazione per riparare la sua indolenza nel risolvere i primi seri problemi di bilancio degli enti locali. Quel rimedio, purtroppo. si consolidò, tanto è vero che non si trovava un comune che non utilizzasse gli oneri per finanziare la manutenzione ordinaria neppure pagando. A quel punto, dopo dieci anni di deroga parziale, gli argini della spesa si erano lasciati andare e la Finanziaria 1998 provvide a eliminare il sempre più sottile velo di ipocrisia che separava gli enti dall'erario e consentì l'utilizzo di quei proventi "anche" per la manutenzione ordinaria, senza limiti che non fossero dettati da altre norme (l'accantonamento per l'eliminazione di barriere architettoniche, ad esempio, oppure la realizzazione di opere di culto). A questo punto, toccato il punto di non ritorno, c'era una sola cosa da fare: levare a queste entrate l'etichetta di 'straordinarie', assimilandole a un qualsiasi altro provento corrente. Dopo l'entrata in vigore del Testo unico per l'edilizia, anche l'ultimo tabù fu rimosso, abrogando con la L. 10/1977 anche il conto corrente vincolato. Con buona pace di chi, fino a quel momento, aveva sperato in un sussulto di decenza economica per conservare a quelle entrate almeno lo status di non ripetibili. Il conflitto continuò, poiché il Ministero dell'interno, approvando i due certificati obbligatori a preventivo e consuntivo, ha sempre preteso di reintegrare gli oneri nei ranghi delle entrate da titolo IV. Così, le deroghe che si sono succedute fino ad oggi, compresa quella dell'ultima Finanziaria (art. 2, c. 8), perpetuano il dubbio che nessuno abbia ancora le idee chiare. Entrate correnti o entrate in conto capitale? Propendiamo ovviamente per quest'ultima interpretazione, tenendo conto della assoluta aleatorietà dell'introito e dell'impossibilità di programmarne il gettito a medio termine. E' un dilemma però che vive perennemente sospeso tra il pudore del ragioniere che, con la riluttanza di chi ha ancora in testa un briciolo di teorico buon senso economico, utilizza in deroga i proventi delle concessioni e la (quasi) inevitabile necessità di farlo per la cronica deficienza di risorse.

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