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lunedì 3 dicembre 2007

Complesso di colpa

La Finanziaria 2008, introducendo sistematicamente norme che riducono vieppiù il raggio d’azione degli enti locali sulla gestione del personale, si accredita come legge fondamentale in materia, appena sotto il vecchio (ma non invecchiato) D.Lgs. n. 165/2001. Nell’alternanza tra bastone e carota, non vi è alcun dubbio che prevalgano i nodi del primo, piuttosto che i verdi ciuffi della seconda. D’altra parte, chi mai ha sentito il legislatore esprimersi a favore di una vera autonomia degli enti in tema di risorse umane? Se lo spirito generale che anima questa nuova grande onda è l’obiettivo del contenimento della spesa (totem sacrificale di qualsiasi buona intenzione, anche quando sarebbe correttamente finanziata), qualsiasi argomento a contrario risulta inefficace. Con un traguardo così ambizioso (ad essere generosi), passeranno anni, forse lustri, prima di veder nuovamente la luce delle nuove assunzioni. Per questo motivo, la clamorosa introduzione del requisito della ‘specializzazione universitaria’ tra quelli indispensabili per il conferimento di incarichi extra dotazione organica è ancor più inspiegabile. A esser del tutto sinceri, la spiegazione c’è, ed è tutta legata a quella miopia congenita di cui soffre il legislatore quando stende una norma che riguarda l’amministrazione pubblica. Disciplinando un istituto in modo uguale per tutti, con l’intento (magari pure nobile) di impedire abusi e sprechi, si finisce per azzoppare l’unica gallina nel pollaio. E passare l’inverno in queste condizioni è davvero dura. Fate attenzione: il testo dell’articolo 92 (rinumerato 145 dai questori della Camera), passato praticamente indenne al vaglio del Senato, dice chiaro e tondo che, laddove il D.Lgs. n. 165/2001 stabiliva per “conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa” un più generico possesso di “comprovata competenza”, ora si dovrà dimostrare una “particolare e comprovata specializzazione universitaria”. Da un lato, quindi, la dimostrazione di aver maturato sufficiente esperienza per ricoprire l’incarico affidato dall’ente lascia il posto a un rigidissimo darwinismo accademico che dal setaccio farà filtrare pochissimi eletti, orgogliosi titolari di master post-laurea o, addirittura, di dottorati di ricerca (a meno che Harvard non sia arrivata prima a proporre un contratto di collaborazione). Dall’altro, con una scure così drastica, i comuni di piccole e piccolissime dimensioni dovranno salutare anzitempo: i geometri che suppliscono all’assenza di un tecnico comunale, i ragionieri che firmano preventivi e rendiconti laddove nessun interno può assumersi tale responsabilità, e via esemplificando. Vagonate di stimabili e preparati diplomati che ritorneranno al paesello con l’unica colpa di essersi fermati all’esame di maturità. La smania nell’impedire che possano collaborare all’attività comunale esperti men che laureati nasce, si sa, da ciò che il legislatore vede tutti i giorni: sontuosi incarichi assegnati senza la minima verifica che il fortunato sappia di cosa andrà a occuparsi: l’importante è che se ne occupi lui e non qualcun altro. Ma a sparare nel mucchio si finisce sempre per beccare l’ignaro passante, con l’aggravante che, in questo caso, non si è neppure presa la mira. Nel lungo documento a emendamento del disegno di legge proposto da ANCI si chiede che la formulazione del comma non soffochi le realtà minori, integrando il testo originario senza sostituirla tout court. Nelle motivazioni si legge: “(...) la competenza può infatti essere acquisita anche in Enti di formazione diversi dalle Università.” Se in Parlamento non si sentono presi in giro, forse approveranno la proposta.

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