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lunedì 10 settembre 2007

La valle dell'eden

I dati in possesso del Lenzuolo rosa sono, ad un tempo, sconfortanti e risaputi. Se solo il 14% dei comuni d’Italia ha introdotto la rendicontazione sociale, possiamo provare la delusione degli sprovveduti, poiché la costruzione di un documento di tale portata non è riconducibile ad alcun modello precostituito (né dalla prassi, né, tantomeno, dal legislatore) e finisce perciò con l’essere il prodotto di gruppi di lavoro autoctoni ben formati oppure di service esterni in grado di dedicare opportune risorse umane al progetto. Le recenti linee guida che l’Osservatorio per la contabilità e la finanza degli enti locali ha predisposto per i più volonterosi e i principi pubblicati dal Dipartimento della Funzione pubblica nel febbraio 2006 sono, più che manuali operativi nel senso proprio del termine, una sorta di check-list per coloro i quali costruiscono già bilanci sociali e possono in tutta sicurezza verificare che la documentazione messa a disposizione dei portatori di interesse sia stata elaborata a regola d'arte. D’altra parte, per quale motivo dovremmo utilizzare criteri di valutazione uguali per enti piccoli, medi e grandi, quando è così lapalissiano che la complessità del documento lascia poco spazio (per non dire alcuno) all’approssimazione. Difatti il pressapochismo qui non ha residenza. Non può averne neppure il rendiconto ordinario, direte. In linea generale, non c'è dubbio. Peccato che, a differenza di quest’ultimo, qualsiasi sofware non può riprendere in maniera automatica i dati del bilancio e avrà necessariamente bisogno di un lavoro (meticoloso) di riclassificazione che, non essendo codificato in leggi o regolamenti, dovrà forzosamente essere fondato su principi ad hoc, validi per quella comunità amministrata e non altre. Non dimentichiamo, infatti, che stiamo discutendo di un bilancio ancora facoltativo, che si somma a quello ufficiale e che, verosimilmente, deve essere presentato in tempi omogenei al rendiconto che scade a fine giugno. L'impegno richiesto è, dunque, di quelli che occupano gli uffici (tutti, in questo caso, a un identico livello di analisi) per mesi. I bilanci sociali oggi giustamente elevati a esempio positivo di esperienze comunali sono realizzati, non a caso, da enti ampi e non privi di risorse. Così, al di là di un'evidente (addirittura ovvia) necessità di allargare il più possibile la diffusione di una pratica che rompe il muro di diffidenza tra bilanci pubblici e cittadini amministrati, quale soluzione per gli enti piccoli? Purtroppo in questo caso non è possibile invocare la ciambella di salvataggio dell'associazione tra comuni, vantaggiosissima quando si tratta di razionalizzare l'uso delle risorse a disposizione, semplicemente inutile quando gli stakeholder sono legati alla comunità municipio non al consorzio o all'unione di comuni. Ne risulta un sostanziale impasse che si può sbloccare solo con più risorse (soprattutto umane). Certo non è questo il tempo di allargare i cordoni della borsa per investire di più sul personale. L'impressione è che, realisticamente, l'unico modo per auspicare la diffusione del bilancio sociale ovunque sia quello di affidarne la redazione a soggetti esterni all'amministrazione. Pare cioé che tutto si debba per forza risolvere in una contraddizione indissolubile, poiché i risultati di mandato sono esaminati e giudicati da chi entra in gioco solo a cose fatte, senza avere la percezione quotidiana della società governata.

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