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venerdì 14 settembre 2007

Il paese dei cachi

Per fortuna non siamo anglosassoni. Nel senso del sistema giuridico, intendo. La regola della Common Law mal si coniugherebbe, infatti, con il ping-pong quasi quotidiano giocato dalle magistrature tributarie di ogni grado. E’ ovviamente l’ICI il grande terreno dove si disputa l’infinito torneo tra CTP, CTR e Cassazione. La straordinaria volubilità delle decisioni non aiuta a costruire un’impalcatura solida, purtroppo. E per gli uffici tributi (mi spiace, ma in questo caso non posso proprio spogliarmi degli abiti professionali) le complicazioni sono come il pane sulla tavola: immancabili. Prendiamo ad esempio un paio di pronunce citate tra lunedì e oggi sui nostri quotidiani preferiti. Dallo Struzzo giallo apprendiamo che la Corte di cassazione ha dato ragione a un ente locale chiamato in giudizio dal proprietario di un’area il quale ne contestava l’edificabilità poiché vincolata a standard urbanistici, dunque destinata prima o poi all’esproprio. Le motivazioni del giudice supremo riprendono la lapidaria sentenza della stessa Cassazione di qualche tempo fa (30 novembre 2006, n. 25506) che, massimata, sosteneva: “In tema di imposta comunale sugli immobili, l’art. 2, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 504 del 1992 va interpretato nel senso che, ai fini dell’applicazione dell’I.C.I., un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo. Pertanto, con riferimento ad una siffatta area, l’I.C.I. deve essere dichiarata e liquidata sulla base del valore venale in comune commercio, tenendo peraltro conto anche di quanto sia effettiva e prossima la utilizzabilità a scopo edificatorio del suolo, e di quanto possano incidere gli ulteriori eventuali oneri di urbanizzazione. Tale interpretazione – che risolve un contrasto insorto nella giurisprudenza della Sezione Tributaria della Cassazione tra l’indirizzo “sostanzialistico”, accolto dalle Sezioni unite, e quello “formale-legalistico” secondo il quale la qualifica di area edificabile presupporrebbe, anche ai fini fiscali, che le procedure per l’approvazione degli strumenti urbanistici siano perfezionate – trova conferma nel del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248 – intervenuto dopo che le stesse Sezioni Unite erano state investite del riferito contrasto - , che, all’art. 36, comma 2, fornisce una chiave interpretativa da utilizzare, per espressa volontà del legislatore, nell’applicazione delle disposizioni relative, oltre che all’I.C.I., anche all’I.V.A., al T.U.I.R. ed all’imposta di registro.” A partire da questo punto, nel caso in discussione, la Corte ha attribuito all’ente (smentendo la CTR della Lombardia che aveva, invece, dato ragione al proprietario) il diritto di pretendere il pagamento dell’imposta anche su un’area con quelle caratteristiche. Da questo punto di vista, il principio che la Cassazione ribadisce sempre più spesso (dopo avere per anni sostenuto l’esatto contrario) è che l’area inserita in un PRG adottato non può essere considerata priva di valore solo perché mancano gli strumenti attuativi. Sarà piuttosto cura del Comune approfittare della facoltà concessa dalla legge e attribuire direttamente un valore a quell’area con l’apposita deliberazione annuale, prima del bilancio di previsione. In questo modo, l’area ancora vincolata sarà valutata con un metro forse contestabile (e non potrebbe essere altrimenti, data la mancanza di parametri oggettivi predeterminati), ma almeno ufficializzati da un atto amministrativo collegiale. Quest’ultima soluzione, tuttavia, non piacerebbe ai giudici milanesi della Commissione regionale che, nell’altra sentenza citata stavolta dal Lenzuolo rosa, pongono un chiaro altolà alle istanze del Comune che, nel motivare un avviso di accertamento per area fabbricabile, ha riportato un valore calcolato basandosi su omologhe decisioni di comuni limitrofi. In sostanza, non solo la vocazione edificatoria di un’area non è elemento bastante a pretenderne l’imposta, ma quand’anche essa sia dimostrata, per poterla valutare correttamente bisogna andare molto più a fondo. Fino a, dicono i giudici meneghini, tener conto dello “stato del procedimento urbanistico al momento in cui la stima è stata effettuata”, per verificarne la coerenza con i valori desunti dalle transazioni commerciali e con i valori medi di mercato di terreni le cui procedure urbanistiche fossero a un identico stato di realizzazione. Se così non fosse, ne risulterebbe pregiudicato il diritto alla difesa del contribuente, sostiene la CTR. E però come si concilia questa posizione di chiara intransigenza con la lettera della legge? Infatti, non si concilia. La recente disposizione del D.L. n. 223/2006, poi assunta dalla Cassazione come principio-guida, non lascia spazi per ulteriori manovre interpretative. Indubbiamente, il Comune può (deve) attribuire un valore alle aree collocate in zone diverse, utilizzando tutti i dati a propria disposizione (e quindi anche, perché no, i valori attribuiti da enti limitrofi ad aree omogenee). E se l’attuazione del PRG è di là da venire, ciò non rende le aree esenti da imposta.

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