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martedì 4 settembre 2007

Bassa acidità

Sotto il grande cielo della pubblica amministrazione niente è più incerto del diritto ad accedere ad atti e documenti, per definizione, disponibili a chiunque ne abbia interesse. L'incertezza deriva quasi sempre da una doppia concomitanza: l’inanità di alcuni funzionari, scarsamente inclini a predisporre percorsi limpidi per la pubblicizzazione dell’attività propria e del proprio ufficio; l’antico timore reverenziale che ancor oggi incute nel cittadino medio l’idea stessa di ufficio pubblico, che gli impedisce l’esercizio di un interesse legittimo o, addirittura, di un diritto soggettivo solo perché non ne conosce limiti e confini. E’ pur vero che quando allo sportello (qualsiasi sportello) pubblico si presentano energumeni disposti a ogni colluttazione pur di ottenere con le cattive quello che con le buone non avrebbero titolo a pretendere, l’istinto di conservazione tipico del dipendente pubblico produce un ragionamento automatico che suona pressapoco così: se con i maleducati devo comunque comportarmi come a un pranzo di gala, posso ottenere qualche piccola rivincita facendo penare a chicchessia l’ottenimento del regolamento x piuttosto che della deliberazione y. Di questo passo, tuttavia, sappiamo bene dove si giunge: nel vicolo cieco dell’irrisolutezza, dove i privati avranno sempre buon gioco a criticare l’indifferenza del settore pubblico e gli alfieri di quest’ultimo si sentiranno perennemente sotto tiro, costretti a giustificare anche i comportamenti più inqualificabili. Così, quando il Consiglio di Stato impone ad un comune che aveva opposto un fiero rifiuto di produrre a favore di un’impresa di servizi copia della documentazione di bilancio, perché quest’ultima possa verificare la sussistenza o meno dello stanziamento a suo favore, a tutela di crediti in maturazione, risulta chiaro chi è il vincitore del tedioso tiro alla fune e ammetterlo solleva l’animo, non c’è che dire. E’ il merito della pronuncia che però attira l’attenzione. Siamo, con questa sentenza, in un terreno molto più fertile di quello normalmente associato a questo tipo di richieste. La tutela degli interessi legittimi è costantemente affermata da qualsiasi giurisdizione adita, e persino l’amministrazione coinvolta non oppone resistenze decisive all’esercizio di una posizione giuridica così radicata e giustificata. Tutto un altro paio di maniche quando il tasto sfiorato è quello dei diritti soggettivi. Basta evocare lo spettro della giurisdizione civilistica e anche il più mite degli amministratori si sente investito dell’oneroso compito di tutelare la propria incolumità, talvolta omertosamente. Eppure, qui, si può solo intuire quale possa essere stata la vera motivazione dell’originario niet. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci s’azzecca, sosteneva, non senza ragione, un navigatissimo uomo politico. Dunque, è probabile che quello stanziamento nel bilancio comunale non ci fosse e che il credito dell’impresa fosse dunque più traballante del previsto (la grana dei debiti fuori bilancio allunga i tempi e rovina irrimediabilmente i rapporti di buon vicinato). Ne vien fuori un assioma di una semplicità disarmante: il bilancio di un ente locale è, appunto, pubblico, cioè: “che tutti possono utilizzare, in quanto di proprietà della collettività”. Parrebbe lapalissiano, non fosse che il Comune intendeva ‘pubblico’ in un’accezione appena differente, cioè: “dello stato, relativo alle sue competenze istituzionali”. Si finisce per sorridere di un atteggiamento così fuori dal tempo, che colloca le amministrazioni in uno spazio orwelliano e fa arretrare di qualche passo la linea del fronte della modernità amministrativa. Resta da vedere se, quando il privato riceve, pur forzosamente, quanto richiesto, sia in grado di interpretare ciò che le carte dicono senza aver bisogno di affidarsi a consulenti ed esperti di provata fama. Povero privato, anche il successo in tribunale equivale a una vittoria di Pirro.

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