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giovedì 30 agosto 2007

Un colpo al cerchio

Chissà a cosa serve davvero istituire un ufficio di staff alle dirette dipendenze del capo dell'amministrazione (Sindaco o Presidente che sia)? Nella più tipica tradizione trasformistica italiana, un funzionario già dipendente di un ente locale (e dunque ad esso legato da un vincolo di professionalità imparziale) può essere nominato dal Sindaco o dal Presidente "per l'esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge", come prevede l'art. 90 del TUEL. In quella locuzione non proprio esplicita può essere compreso tutto e il suo contrario ma, senza alcun dubbio, la prevalente opinione degli addetti ai lavori è che lavorare per il Sindaco nell'esercizio di quelle funzioni significhi soprattutto fargli: a) da portaborse; b) da ufficio stampa; c) da segretario personale (non necessariamente in quest'ordine). A qualche amministratore compiaciuto non par vero sapere di essere autorizzato a istituire una struttura di collaboratori (anche uno solo, al limite) che a lui solo riferisce, una sorta di ente parallelo, slegato dagli ordinari vincoli che imporrebbero un filtro politico e gestionale (dal Consiglio ai dirigenti) ben strutturato. Per coprire questa posizione (regolarmente inserita nell'organico dell'ente) il legislatore ha appunto previsto una sorta di esclusività delle opzioni di scelta a disposizione dell'amministratore nominante: il prescelto non potrà che essere un dipendente già in forza alla struttura amministrativa, destinato, per la durata del mandato elettivo, a nuovi e più alti compiti. Oppure, è offerta la possibilità di indire un'apposita procedura concorsuale che però non può garantire al neo-assunto un impiego duraturo: al massimo, fino alle prossime elezioni (salvo riconferma della stessa maggioranza). Quella norma, infatti, è stata sì interpretata come una specificazione del genus previsto dall'art. 110 TUEL, ma con una limitazione oggettiva che privilegia la soluzione interna. Ma perché limitarsi a guardare nel proprio orticello, quando il libero mercato offre fior di candidati. A questo proposito, in più occasioni, la Corte dei conti ha sanzionato quegli amministratori che hanno scelto di farsi affiancare nella loro attività da soggetti assunti ex art. 90 (da ultimo, la sezione pugliese con sentenza n. 241/2007, ma in precedenza anche la sezione della Toscana con decisione n. 624/2004) in maniera non ortodossa, cioè utilizzando le procedure più spiccie dell'affidamento diretto intuitu personae ex art. 110 TUEL. Che però riguarda in via generale gli incarichi di alta specializzazione extra dotazione organica e non potrebbe essere automaticamente applicato a una fattispecie altrimenti regolata. Ovviamente, il punto critico per la magistratura contabile è rappresentato soprattutto dalla disinvoltura con la quale si retribuiscono questi incarichi rispetto al formale rispetto dei CCNL previsto obbligatoriamente dall'art. 90 TUEL. Sotto questo profilo, come dare torto alle pronunce della Corte? In assenza di vincoli specifici, può passare qualsiasi nefandezza e l'assistente del Sindaco può essere retribuito con un trattamento pari a quello di un dipendente di categoria D3 pur non avendo il diploma di laurea (è il caso della sentenza pugliese), ma soprattutto pur non avendo alcuna esperienza precedente all'interno di un ente pubblico. In realtà, vorrei ribaltare la prospettiva del ragionamento. Per svolgere i compiti di staff di cui si parla, comunque non assimilabili a quelli di un funzionario con responsabilità di gestione e risultato, non potrebbe bastare il diploma di scuola media superiore e l'attribuzione di una categoria non superiore alla C (quella degli istruttori amministrativi, per intenderci)? E dunque, se un Sindaco decidesse di incaricare direttamente un diplomato retribuendolo da diplomato, non sarebbe forse meno ipocrita di uno che, per l'identica posizione, sceglie di bandire un concorso ma di categoria D3?

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