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martedì 14 agosto 2007

Incolonnati

Ho letto domenica con la consueta curiosità il quindicinale pezzo di Enrico De Mita sul Lenzuolo rosa e, lo confesso, non l'ho capito. Non ne ho compreso, cioè, la tesi sottostante. L'argomento era di quelli sapidi, da alimentare dibattiti e discussioni per mesi, da qui alla prossima primavera: il progetto di legge delega sul federalismo fiscale, approvato dal Governo il 3 agosto, ora in attesa della discussione parlamentare. Il titolo del pezzo era promettente: "Federalismo: legge delega debole e incerta". Finalmente, ho pensato, un rigoroso e stentoreo contributo a favore di una revisione del testo in prospettiva davvero decentralizzata. Invece, a parte alcune osservazioni che meritano di essere commentate, non vi ho trovato una tesi unitaria (da condividere o respingere); piuttosto, dopo un assaggio di analisi critica, una rapida e incomprensibile interruzione del ragionamento, quasi in redazione avessero voluto tagliar corto una volta riempite le due colonne assegnate. La premessa è, appunto, il via libera di Palazzo Chigi a un provvedimento che deve dare attuazione al testo nuovo dell'art. 119 della Costituzione sul finanziamento delle autonomie locali. Di certo, oggi, si sa che, dopo l'approvazione parlamentare e il passaggio in Conferenza Unificata per acquisire il parere di Regioni, Province e Comuni, entro i successivi 12 mesi l'esecutivo dovrà approvare uno o più decreti legislativi che daranno contenuto all'involucro adottato. Giusta, qui, la critica di De Mita alla scelta di utilizzare lo strumento della delega legislativa che, in materia costituzionale, dovrebbe essere accantonato per un più ampio dibattito parlamentare sfociante in una legge ordinaria. A seguire, il professore suddivide il provvedimento in due porzioni distinte. La prima che si incarica di costruire l'impalcatura del sistema fiscale locale prossimo venturo, con il suo mix di poteri impositivi assegnati alle Regioni e agli altri enti locali (articolo 3). La seconda che, in realtà, altro non è se non una mera previsione di maggiore gettito agli enti locali a seguito dell'assegnazione di quote di tributi ora 'statali'. A parte quest'ultima, poco interessante, ciò di cui serve occuparsi è la porzione autonomista. E infatti De Mita ne sottolinea la delicatezza, in particolare quando all'art. 3, c. 1, lett. g) si legge: "1. Ai fini del coordinamento del sistema tributario, si applicano i seguenti principi e criteri direttivi: (...) g) previsione che la legge regionale possa, con riguardo alle materie non assoggettate ad imposizione da parte dello Stato e nei limiti di cui alla lettera a): 1) istituire tributi regionali e locali; 2) determinare le materie nelle quali comuni, province e città metropolitane possono, nell’esercizio della propria autonomia, stabilire tributi locali, introdurre variazioni alle aliquote od agevolazioni;". Rispetto all'attuale sistema, il DDL introduce un passaggio intermedio che formalmente assegna alle Regioni il ruolo che oggi è della legge statale. La qualità dei decreti attuativi si misurerà sull'equilibrio che essi sapranno offrire delle potestà attribuite parallelamente alle regioni e a tutti gli altri enti. Maggiore libertà di azione ai comuni non può in ogni caso significare, infatti, il ritorno a un fisco feudale che moltiplica all'infinito i tributi a dispetto della chiarezza e della semplificazione. Su questo passaggio peraltro, al contrario di De Mita, non vedo quale altro strumento abbiano i comuni per "stabilire tributi locali" se non un regolamento consiliare. Tra l'altro, non credo neppure che la norma delegante intenda attribuire alle municipalità una potestà impositiva che non sia compresa all'interno di un quadro tassativamente predefinito dalle Regioni (e tra le Regioni coordinato), altrimenti perché sarebbe così esplicito il richiamo alla "previsione che la disciplina dei singoli tributi ed il sistema tributario nel suo complesso debbano rispondere a razionalità e coerenza; rispetto dei limiti imposti dai vincoli comunitari e dai trattati ed accordi internazionali; esclusione di ogni forma di doppia imposizione."? Poco oltre, De Mita osserva: "Se il sistema tributario deve essere razionale nel suo complesso (il che sembra ovvio) e coerente (e qui la cosa diventa alquanto più opinabile)...". In che senso "opinabile"? Che il sistema non deve essere coerente, a scapito dell'autonomia degli enti? Oppure che è materialmente impossibile arrivare a un sistema coerente, causa insostenibili pressioni politiche? A proposito, l'autore nulla dice lasciando il dubbio che la sua opinione penda più verso quest'ultima interpretazione. Lo stesso Lenzuolo, il lunedì precedente, aveva aperto ricordando che il prelievo fiscale delle Regioni nel 2007 è cresciuto del 5,4% rispetto all'anno precedente, aumentando il sospetto che la coerenza è già realtà, solo se si tratta di ritoccare le aliquote per ripianare i deficit del settore sanitario, però. La preoccupazione del professore è rivolta al diffondersi della doppia imposizione, soprattutto in tema di imposizione sui redditi, sottolineando la complessità di un impianto normativo che distribuisce potestà ai diversi livelli, senza definirne con esattezza i confini. Detto questo, tuttavia, De Mita si ferma. In pratica, un terzo abbondante del pezzo (tutta la parte finale) è dedicato alla pedissequa riproduzione dei tributi di competenza regionale, provinciale e comunale. Quale dovrebbe essere dunque la conclusione del ragionamento? O meglio, come vorremmo che fosse il sistema tributario dopo il decentramento? La mia opinione personale è che il peso delle Regioni dovrebbe essere ridimensionato, a favore di una maggiore uniformità del prelievo sul territorio nazionale, individuando nella legge dello Stato l'unica fonte di istituzione tributaria e indicando tassativamente quali sono i tributi applicabili da Province e Comuni e la relativa base imponibile. L'autonomia locale sarebbe poi garantita lasciando agli enti la libertà di stabilire aliquote, detrazioni e agevolazioni per meglio rispondere alle esigenze della singola comunità amministrata. Razionale (perché nessuno potrebbe inventarsi nuovi balzelli) e coerente (perché riferito a norme giuridiche in vigore erga omnes).

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