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lunedì 20 agosto 2007

Il pieno, per favore

Dalle parti della Madonnina è tutto un triste rimirar portafogli vuoti, dopo le rivelazioni dell'Ufficio Studi della Cgia di Mestre (che, ricordiamo, non è una ONLUS ma l'associazione di categoria che riunisce piccole imprese e artigiani della zona) secondo le quali il capoluogo lombardo soffre di un eccesso di tributi locali rispetto al resto del territorio nazionale. Il dato nudo e crudo (rilevato da consuntivo 2005), infatti, è piuttosto schietto: a Milano se ne vanno via, ogni anno, in tasse comunali, provinciali e regionali la bellezza di € 2.082,23 a cittadino, contro una media nazionale di € 1.434,13 oppure, tanto per fare un esempio, contro i 1.486,50 euro sborsati dal cittadino di Siena. Il fior fiore della stampa quotidiana nazionale si è gettata a pesce sulla notizia, un po' perché parlar di vil denaro ingolosisce sempre il lettore (invidioso e livoroso al tempo stesso), un po' perché a buon mercato le si offre la sponda per tornare a parlar male di quella casta che spilla risorse dove può, quando può, più che può, e se in classifica arriva prima Milano oppure Enna importa punto. Non che la notizia manchi di un suo specifico allure, specie se, oltre le veline di prammatica, si abbia la pazienza (mica poi tanta) di trovare il documento originale e guardarsi la tabella allegata e riepilogativa. Da cui si ricava, ad esempio, che dell'impressionante dato meneghino è parecchio responsabile l'ente Regione che svetta, sulle venti totali, con i suoi milleottantotto euro per abitante. A onor del vero, in tutta la Lombardia non v'è altro capoluogo che sprema così i propri contribuenti (nell'almeno altrettanto operosa Brescia pagano quasi il 50% in meno all'Amministrazione comunale). Siccome però il can can seguito alla notizia fa leva sul valore assoluto del salasso fiscale, converrà andar più a fondo e, utilizzando semplicemente gli scarni numeri forniti dai veneti, verificarne la consistenza. Osservando l'elenco di città capoluogo che segue alla breve analisi della Cgia, balza subito all'occhio con malinconica evidenza che le province sono davvero l'anello inutile nella catena delle autonomie locali nel quadro istituzionale odierno. Con quegli striminziti ottanta euro annui di pressione fiscale (un decimo del peso regionale) vien quasi voglia di regalargliene qualche altro, salvo ricordarsi immediatamente dell'incontrovertibile assenza di qualsiasi ragione per mantenere in vita l'ente intermedio per eccellenza. Tornando invece alla tenzone che contrappone, in una riedizione moderna dei duelli rusticani, comuni e regioni, si dovrà tener innanzitutto conto di un elemento predominante: l'IRAP. Quest'ultima non può certo essere addossata al privato, essendo la sua base imponibile esclusivamente legata al volume d'affari (o al costo del personale) delle attività produttive. Quindi, dal totale pro-capite pagato al Pirellone nelle province lombarde, si dovrà detrarre una quota non inferiore agli ottocento euro (ho utilizzato, per il gettito lombardo, i dati ricavati da un'indagine UIL a preventivo 2005 disponibile qui, rapportato ai nove milioni circa di abitanti nella regione). Restano cioè poco meno di trecento euro di tributi regionali a carico dei lombardi. Ciò che dovrebbe emergere, al contrario, è che, poiché l'IRAP finanzia prevalentemente (e indirettamente) la spesa sanitaria e, sempre prevalentemente, non è carico delle persone fisiche, il dato della Cgia rappresenta non il peso fiscale effettivo, ma quello che dovrebbe essere applicato, in relazione ai servizi offerti. Si tratta di un ragionamento estremamente semplificato, ma che riporta l'oggetto dell'osservazione a un minimo comune denominatore. Di quei trecento euro, infine, un'altra fettina (più o meno sottile) se la porta via la compartecipazione sulle accise del carburante, cioè un tributo in senso stretto, ma affatto legato (come l'IRAP) ai servizi offerti dall'ente Regione. In conclusione, Milano, anche senza il contributo sostanzioso dei tributi regionali, manterrebbe la testa della classifica stilata dalla Cgia (Venezia non fa testo perché, come spiegato nella striminzita legenda, beneficia dei proventi dell'annessa casa da gioco e, si sa, l'azzardo è vizio capitale), ma spiegarne i motivi è tutto un altro paio di maniche.

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