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martedì 31 luglio 2007

Reazione a catena

L'indagine promossa dall'Università di Napoli Parthenope sull'attività dei nuclei di valutazione in 58 enti capoluoghi di provincia ripropone il tema assai spinoso del giudizio sull'attività dei dirigenti negli enti locali. Parlo di 'dirigenti' nel senso più ampio possibile, indipendentemente dall'effettivo inquadramento contrattuale. Perché quello che è vero in comuni dalla struttura a volte ipertrofica può essere replicato negli enti minori. Con importanti distinzioni. La ricerca del dipartimento di Studi aziendali campano giunge a una conclusione inequivocabile: il livello qualitativo delle prestazioni del 75% dei dirigenti (di fatto e di contratto) in servizio è eccellente, inoltre, per un altro 13% del totale, quel livello è ottimo. Il risultato è frutto dell'esame del lavoro realizzato minuziosamente dai nuclei di valutazione, organismi di controllo esterno (dunque teoricamente più che imparziali) che però giungono ad una straordinaria unanimità di giudizio dal brumoso Piemonte alla barocca Sicilia. Il finto stupore che circonda questo esito (che definirei invece piuttosto scontato) serve più che altro a ricordare che la valutazione dei risultati nella pubblica amministrazione dovrebbe essere una cosa seria ma, al contrario, non ci sono nuclei di valutazione che tengano: abbiamo una dirigenza perennemente al di sopra della media perché non vogliamo giudicarla. Per sapere come stiano esattamente le cose dovremmo in realtà trascorrere mesi a diretto contatto con la struttura burocratica. Scopriremmo, allora, che i nuclei, a causa di una cronica assenza di metodologie valutative, evitano di scontrarsi con i giudicati e assegnano l'indennità di risultato come il 18 politico qualche decennio fa. A parte le scontate filippiche sulla cronica resistenza della P.A. a mettersi in gioco seriamente, varrebbe la pena fare i bagagli e andare, ad esempio, al di là della Manica. L'esperienza ricordata qualche settimana fa casca davvero a fagiolo, in questo frangente. La conclusione è che buone leggi non bastano se chi le deve applicare partecipa della stessa indolenza. Ciò che vale per le città, vale anche per i centri minori? Cosa accade dunque negli enti dove a dirigere vi sono funzionari di categoria massima D3? Non guasterebbe un'analisi 'ad hoc', ma in mancanza, azzardiamo qualche scenario, che ha il triste sapore del vissuto. Ente di 4.000 abitanti, 3 posizioni organizzative (Ragioneria, UTC, Polizia locale), un D3 giuridico, due D1 giuridici. Da cinque anni, la scelta del nucleo è invariata: a tutti e tre l'8% dell'indennità di posizione. Senza specifiche motivazioni, né per spiegare perché allora non il 10%, né per chiarire sulla base di quali elementi le tre prestazioni non meritano alcun distinguo. Nessuno dei tre funzionari si lamenta, tra l'altro, dunque implicitamente avalla e il loop si ripete ad ogni esercizio. Fuori dai denti, qualcuno (si legga il segretario) sostiene che una differenziazione troppo spinta fra le tre indennità non sarebbe positiva per l'armonia di un ente con soli 18 dipendenti. Può darsi che uno (o due o tutti e tre) dei funzionari non gradisca il giudizio (appellabile con juicio) del nucleo. Ma che trasformi l'eventuale malumore per lo scarso esito della valutazione in arma di ricatto per costringere il nucleo a tornare sui suoi passi sembra davvero esagerato. Mi chiedo piuttosto che senso ha far giudicare le prestazioni dei funzionari da soggetti estranei all'amministrazione. In tutti i comuni in cui il segretario è direttore generale dovrebbe essere affidato a lui il compito di assegnare i voti con equanimità. Cosa volete che importi al nucleo di penalizzare uno a scapito di un altro, in mancanza di strumenti oggettivi di giudizio? La complicazione delle procedure è, anche in questo caso, la migliore nemica dell'efficienza.

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