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sabato 31 marzo 2007

Convergenze parallele 2

Dopo i quesiti preliminari, di cui abbiamo parlato nel post di ieri, ci si addentra nell'analisi di parametri fondamentali per approfondire il livello di crisi certificata dall'organo di revisione. A questo punto, infatti, la Corte arriva se le è stato suonato almeno un campanello d'allarme nella fase precedente. La prima sezione si apre con un riepilogo del quadro di verifica degli equilibri di parte corrente nel 2007 e nel 2006. Poiché il bilancio non può essere approvato se manca la copertura dell'eventuale saldo negativo, i prospetti sono proposti per determinare come quest'ultimo è stato coperto. Di fatto, la Corte intende seguire con attenzione la necessità dell'ente di utilizzare oneri di urbanizzazione per finanziare spese correnti. In un quadro successivo, infatti, è richiesto di riepilogare i dati di utilizzo che riguardano l'ultimo quadriennio (2004-2007). Insieme alle informazioni sui proventi delle sanzioni del Codice della Strada accertati nell'identico quadriennio, danno un quadro coerente della quota di entrate correnti che presentano un carattere di eccezionalità. Nel caso degli oneri, non basta, certo, la semplice autorizzazione normativa all'utilizzo (con elevate probabilità di modifica da un anno all'altro che, dunque, ne accentuano l'aleatorietà) per sostenere un'efficace politica di utilizzo delle risorse. Economicamente siamo infatti tutti d'accordo nel dire che non si può garantire l'equilibrio di un bilancio corrente con entrate straordinarie. Da qui a lottare a spada tratta perché ciò non si verifichi, ce ne corre. Quando le risorse correnti scarseggiano. O meglio, quando le richieste di spesa si gonfiano oltre misura, ci si appoggia volentieri sul cuscino rappresentato dagli oneri. Alla fine, per quanto può insegnare l'esperienza diretta, le lamentele più frequenti giungono dall'assessore ai lavori pubblici, giustamente irritato per la sottrazione di risorse al suo programma annuale. Se il giudizio sulla pratica contabile può essere negativo, la Corte peraltro non può sindacarla a meno che la percentuale di utilizzo sia superiore al consentito (ma, ribadiamo, ciò vuol dire che il bilancio è stato approvato in disequilibrio, nonostante, spero, i pareri negativi di ragioniere e revisori). Gli effetti patologici di questa abitudine si riverberano inevitabilmente sul risultato economico della gestione al termine dell'esercizio. Qui la Corte (che richiede i dati dal 2003) può farsi un'idea sullo stabilizzarsi di un costante ricorso agli oneri per salvare la barca, ma al di là di un osservatorio permanente sul precipizio non può andare (mi riesce difficile ipotizzare una raccomandazione al Consiglio di ridurre l'uso degli oneri a novembre). Più interessante, per altri versi, il prospetto sulla situazione di cassa che può evidenziare un ricorso al fido bancario più o meno intenso e dunque dare alle Sezioni regionali motivo di preoccupazione per una eventuale insostenibilità finanziaria degli impegni dell'ente. Quanto alle notizie sull'evasione di tributi locali accertata e sanzionata, esse possono far attribuire all'ente la patente di virtuosità fiscale, sempre che quel gettito possa incrementare in modo strutturale la base imponibile. Infine, la Corte chiede ai revisori di verificare l'utilizzo di plusvalenze da cessioni immobiliari per finanziare la restituzione delle quote capitale di mutui passivi. Un ulteriore tassello nel mosaico delle risorse occasionali, sul quale si posa sistematicamente l'occhio vigile della Corte.

venerdì 30 marzo 2007

Convergenze parallele 1

La parte dell'avvocato del diavolo, quando serve, deve durare il tempo necessario a sollevare temi e problemi. Poi, inevitabilmente, rischia la sovraesposizione e di danneggiare il lavoro critico precedente. Così, anche a motivo dell'indubbio interesse informativo del documento, voglio dedicare i post del week-end a una disamina delle Linee guida 2007, sintesi efficace dell'attività della Corte dei conti nei prossimi mesi. I revisori che le dovranno compilare potrebbero agire in piena autonomia senza lavorare al documento in tandem con il ragioniere interessato. Offro di seguito (e sino a domenica) qualche ulteriore elemento di discussione per una redazione consapevole e non automatica. Mi cimento con il testo approvato per i piccoli comuni (sotto i 5.000 abitanti, cioé), che sono maggioranza e che, soprattutto, nella edizione dello scorso anno, erano stati colpevolmente trascurati (il mea culpa è arrivato puntualmente e apprezzabilmente quest'anno). La premessa discorsiva è l'affermazione di un sodalizio coattivo tra magistratura e revisori dei conti, sancito dalla Finanziaria 2006 e ora giunto finalmente a regime: "gli organi di revisione, conservando la natura giuridica di organi di controllo interno dell’ente locale, hanno assunto, infatti, il compito di trasmettere alle Sezioni regionali le informazioni necessarie per la tutela dell’equilibrio finanziario del bilancio." Quanto i singoli professionisti vedano favorevolmente questo scambio unilaterale (i revisori trasmettono i questionari compilati, ma la Corte invia le osservazioni al Consiglio) non è ancora dato sapere. Senz'altro, amplia le loro responsabilità e dunque acuisce l'attenzione nell'indicare i dati. Tanto più che la segnalazione all'ente dei revisori inadempienti ("alcune Sezioni hanno però rilevato ritardi e omissioni nella trasmissione delle relazioni. La legge obbliga gli organi di revisione all’invio delle relazioni: il ritardo o l’omissione ostacola l’esercizio del controllo della Corte dei conti, con le conseguenti responsabilità a carico dell’organo inadempiente. Le Sezioni regionali inviteranno perciò gli organi di revisione inadempienti a provvedere entro un breve termine, trascorso il quale, segnaleranno l’omissione al consiglio comunale o provinciale per l’eventuale revoca del revisore, ai sensi dell’articolo 235, comma 2, del T.U.E.L. 18 agosto 2000, n. 267.") per una eventuale revoca dell'incarico funge da monito al recalcitrante professionista, in dubbio se scrivere il contrario di quello che ha indicato nel parere o fare spallucce e ignorare il questionario. In effetti, come la stessa Corte ha rilevato, la quasi totalità dei revisori ha regolarmente adempiuto ai suoi nuovi doveri. La speranza è che la reiterata minaccia serva ad eliminare anche il residuo di reticenza. Il documento è solo apparentemente snello. Ai revisori è indicata la strada maestra per compilare il questionario correttamente, che dovrebbe essere poi la stessa che informa il processo di esame dei documenti di programmazione: l'obbligo di segnalare le irregolarità contabili e finanziarie gravi, concretamente rilevabili dalla gestione dell'ente, alle quali l'organo consiliare può porre rimedio. "La nozione di “grave irregolarità contabile e finanziaria” non può essere definita in astratto, ma deve essere ricavata dall’analisi della situazione finanziaria dell’ente. Gli organi di revisione segnaleranno perciò sulla base di quella analisi, innanzitutto, le irregolarità che possono incidere sull’equilibrio di bilancio o sul rispetto del “ principio di veridicità” (art. 162, comma 1, TUEL n. 267/2000)." Tutto questo traspare inoltre dai quesiti introduttivi, che con la loro sequenza di rapidi si o no mettono subito in guardia la Corte su quello che sarà indicato dopo: metodo spiccio per individuare con immediatezza i questionari da leggere sino in fondo da quelli che subito si possono riporre nella vaschetta "Evasi". Dei primi, poi, la Corte farà un'ulteriore cernita, immagino, separando gli enti per i quali è possibile la sollecitazione di procedure di correzione (entro il 30 novembre, con l'ultima variazione disponibile), "previo contraddittorio con l'amministrazione", da quelli di cui sono state segnalate irregolarità che configurano già profili di responsabilità contabile e che dunque rientrano nell'attività di controllo ex art. 7, c. 7, L. 131/2003. Anche se, a dire la verità, quest'ultima ipotesi è decisamente esclusa dalla Corte: "il controllo sulla gestione riguarda soltanto gli enti e i contenuti individuati nel programma annuale della Sezione." Mi chiedo cosa impedisca alla Corte di iniziare una procedura nei confronti di un ente quando venga a conoscenza, attraverso i questionari, di atti o fatti che integrano i profili tipici del danno erariale. A questi, infatti, non è detto che il Consiglio dell'ente sia in grado di porre rimedio, neppure agendo con la massima tempestività.

giovedì 29 marzo 2007

Guida pericolosa

Finalmente pubblicate, le Linee guida della Corte dei conti e i relativi questionari per i preventivi 2007 sono oggetto di una entusiasta campagna di stampa, dal sapore vagamente aprioristico, da parte del Lenzuolo rosa che anche ieri, per mano nientemeno che di Giuseppe Farneti, si esprime con termini dai toni reboanti: "ha già seminato importantissimi elementi di innovazione nella gestione di Comuni e Province", "forme di controllo che funzionano", "ricco di conseguenze per la vita degli enti e per la nostra democrazia", ecc. Lungi da me l'intento di sottovalutare l'importanza di un'attività che si preannuncia rinnovata, forte di un anno di esperienza sul campo. Non siamo di certo in grado di dare un giudizio così netto a favore o contro la nuova e ficcante attività della Corte, ma mi piacerebbe che qualche elemento di criticità fosse messo sul piatto, se non altro per ricordare che, con i mezzi a disposizione, la distanza fra l'efficacia complessiva del controllo degli O.Re.Co. e quello (pur sempre a campione) previsto attraverso le Linee guida è ancora siderale. L'aspetto più significativo in favore del controllo della Corte è senz'altro rappresentato dal suo coté collaborativo. In realtà, cioé, la verifica sugli strumenti di programmazione si caratterizza per la sua natura di segnalazione al Consiglio dell'ente di eventuali provvedimenti rettificativi in caso di evidenti scostamenti dalla buona gestione. E' un notevole passo avanti, soprattutto perché negli ultimi anni non è esistito, di fatto, alcun controllo sull'attività degli enti locali che non fosse quello, comunque sporadico e manifestamente non sistematico, derivante dall'iniziativa di singoli consiglieri desiderosi di mettere pulci nelle orecchie giuste (lodevole ma, non possiamo escluderlo, strumentale). Resta però il fatto che, concentrandosi su una percentuale limitata di enti, può aumentare la credibilità dell'intero sistema solo nel lungo periodo. Considerando, inoltre, che avviene quando i buoi sono già a mezza strada tra il recinto e la libertà, non rappresenta (ancora) quel radar preventivo che a suo tempo funzionava per tutti. E' vero che i questionari, quest'anno, si caratterizzano per una maggiore attenzione agli enti piccoli, che rappresentano il vero benchmark statistico da cui partire. E forse questo è il segnale più incoraggiante verso un'ulteriore estensione dei controlli. Ma torno a chiedere se le risorse a disposizione della Corte possono garantire la crescita di questo sistema oppure se ci si dovrà accontentare di verifiche a macchia di leopardo che non graffieranno a sufficienza la superficie e limiteranno gli approfondimenti alle situazioni croniche. Non è responsabilità della Corte attuare da sola una rivoluzione anche culturale (o restaurazione, fate voi). Ma o le si affideranno più mezzi oppure la riforma sarà riuscita solo per metà.

Diabolicum est

Anche Girolamo Ielo sostiene (sul n° 4/2007 di AziendItalia Finanza&Tributi) che se "il comune decide di confermare l'aliquota" dell'addizionale IRPEF "dell'anno precedente, senza prevedere alcuna esenzione, si asterrà dall'adozione di qualsiasi deliberazione, in quanto, in via automatica si applicherà l'aliquota dell'anno precedente." Perché ci si ostini a non voler considerare che da un anno all'altro è cambiato l'organo competente ad approvare le aliquote dell'addizionale non si sa. Spero non sia il richiamo al comma 169 della Finanziaria 2007, perché il silenzio-conferma, ora esplicitamente previsto per la generalità dei tributi, non può valere (nel 2007) per ICI e Addizionale IRPEF: entrambi i tributi ritornano quest'anno nell'ambito di discrezionalità consiliare e non ci sono deroghe che tengano, la conferma deve passare dall'aula, non sotto silenzio. Il problema, purtroppo, è che questa worst-practice è interamente avallata dal Ministero. Così gli enti si sentiranno autorizzati a eludere un principio essenziale dell'ordinamento: la competenza a deliberare è inderogabile.

mercoledì 28 marzo 2007

Le mille e una notte

Ogni approvazione di bilancio porta con sè tutto il carico di ansie e tensioni accumulate sino alla fatidica sera. La differenza però la fa solo una cosa: partecipare alla seduta oppure starsene a casa, attendendo il giorno dopo per conoscerne gli esiti. Mi è sempre accaduto di rientrare nella prima ipotesi. Non ho mai capito se per l'eccessiva disponibilità del sottoscritto oppure per il manifesto terrore dei rispettivi sindaci/segretari ad assumersi le proprie responsabilità e competenze (quantomeno preoccupandosi di leggere i documenti allegati al bilancio vero e proprio). Da quando ho iniziato a consegnare insieme al voluminoso fascicolo dei tre bilanci ufficiali una relazione tecnica più descrittiva che numerica, tentativo non so quanto riuscito di riorganizzare soprattutto le mie idee, speravo di essere se non altro sgravato dall'ingrato compito di assistere all'intero Consiglio seduto accanto al Sindaco. Invece, in tutta evidenza, neppure questo stimolo è stato sufficiente per far superare ai sedicenti amministratori l'ostacolo della complessità di un bilancio di previsione. Così, come accade da ormai 14 anni (se si esclude l'eccezione del primo anno, grazie all'unico segretario veramente ferrato in materia che abbia mai incontrato e all'esenzione che spetta solo ai rookie), il copione della serata (quando va benone, perché altrimenti si tratta di nottata) è più simile a uno psicodramma che a un dibattito politico (ché di questo, in fondo, si tratta). Le introduzioni del Sindaco sono sempre più striminzite: non si può neppure dire che parli a braccio, perché le poche frasi pronunciate sono quasi sempre le stesse, all'inizio o alla fine del mandato. Subito dopo, inevitabilmente, si tenta di passare la palla al ragioniere. Come se, la ripetizione (c'è stata, nel frattempo, una estenuante commissione bilancio, va ricordato) di numeri e cifre potesse in qualche modo impedire alle scorate minoranze (non che quelle attuali brillino di intelligenza nell'avvicinarsi al bilancio) di fare interventi prolissi e, talvolta, fuori tema. Ai quali, beninteso, raramente rispondono gli amministratori, ma il solito ragioniere. Accadde, qualche anno fa, che davanti al goffo tentativo della maggioranza di scaricare sul tecnico una scelta evidentemente politica, la minoranza insistette nel volere che fosse proprio il Sindaco a renderne conto. Ma le mosche bianche non le ha mai viste nessuno e così, di norma. gli sguardi che incrocio durante la seduta dai banchi dell'opposizione sono a metà tra la diffidenza e l'ostilità vera e propria. Quasi fossi in qualche misura il catalizzatore delle loro frustrate ambizioni di un dibattito finalmente all'altezza del consesso di cui fanno parte. Alla fine, ne esco con poco appetito (nonostante il misero tramezzino pre-seduta) e con adrenalina ancora in circolo. Nella notte, sulla strada verso casa, la radio ha il volume al massimo.

martedì 27 marzo 2007

Il legislatore e il vocabolario

Sguainate le sciabole, il duello semantico è iniziato. Pare che neppure le sezioni regionali della Corte dei conti siano riuscite a sottrarsi al più tipico dei virus giurisprudenziali: la contraddizione. E così, su un tema delicatissimo come la riduzione delle spese per il personale hanno iniziato una disputa di pura natura interpretativa, nella migliore tradizione delle magistrature nazionali. Tutto nasce in un fatidico comma della Finanziaria 2006, il 204-ter (benché introdotto nella tiepida estate dello scorso anno con il primo decreto-legge a nome Bersani, n. 223 del 4 luglio). Integrando la disciplina introdotta con il comma 198 che imponeva risparmi sulle spese in questione tali da ridurle dell'1% di quelle sostenute nel 2004 (e nessuno ha sinora provato a spiegare perché proprio quell'anno e non, ad esempio, il 2003 o il 2002), il legislatore sotto il sole caldo aveva mitigato questa improvvisa stretta, escludendo dal calcolo delle spese da ridurre quelle riferite a "le spese di personale riferite a contratti di lavoro a tempo determinato, anche in forma di collaborazione coordinata e continuativa, stipulati nel corso dell'anno 2005", se sostenute però da enti "in condizione di avanzo di bilancio negli ultimi tre esercizi". Il busillis nasce qui. La locuzione "avanzo di bilancio", in realtà non è mai stata usata in un testo di legge. Tanto più che i concetti di "avanzo" sono soltanto due nell'ordinamento contabile: quello economico, che scaturisce in sede di bilancio di previsione dall'eccedenza delle entrate correnti sulle spese correnti, e che può essere utilizzato per spese di investimento, e quello di amministrazione rilevato con l'approvazione del rendiconto. Tertium non datur, quindi. Poiché il testo della norma, purtroppo con un'espressione inventata di sana pianta, si premura di esprimere una valutazione di virtuosità degli enti che potrebbero in tal modo usufruire di uno "sconto di pena", non ci si può sottrarre al solito giochetto delle interpretazioni, in voga quasi più del sudoku. Non ci ha provato neppure l'Agenzia delle Entrate che nella circolare di Ferragosto ha affrontato altre questioni. E così, è toccato alla Corte dei conti prendere di petto il problema, da angolazioni però opposte. Da un lato, la Sezione regionale per la Liguria associa all'espressione "avanzo di bilancio" il concetto di avanzo di amministrazione. In questo modo, la norma assume una valenza più generale e ne può beneficiare un numero elevato di enti. Dall'altro, la Sezione lombarda ritiene che "avanzo di bilancio" non possa che ritenersi quello economico, restringendo dunque la platea degli avvantaggiati. Non solo, andando anche oltre, rileva che l'avanzo economico da prendere in considerazione debba essere quello ricavabile dai consuntivi. E ciò coerentemente con la valutazione dei risultati che deve essere rilevata alla chiusura dell'esercizio. E' anche obiettivamente divertente disquisire di queste sottigliezze che si fanno sostanza operativa quando passano nelle mani delle amministrazioni locali. Ma mi chiedo se non sia l'ora di smetterla con le norme scritte con approssimazione. Se la Corte dei conti fa il suo mestiere e interpreta, agli enti non è concesso che il lusso di applicare, con tutte le conseguenze che da un testo confuso possono scaturire.

lunedì 26 marzo 2007

Il lato sbagliato del dollaro

Proprio nei giorni in cui nel quotidiano vocabolario si insinua il neologismo "extragettito", ricco (è proprio il caso di dirlo) di implicazioni redistributive, affiora nelle ragionerie degli enti locali una preoccupazione purtroppo raramente messa in evidenza: quella delle difficoltà di cassa. Benché nel corso degli anni le entrate proprie (a partire ovviamente dall'ICI) abbiano incrementato il proprio peso nell'incidenza complessiva sui primi tre titoli, le erogazioni erariali (non importa se sotto forma di compartecipazione all'IRPEF) hanno mantenuto un carattere di prevalenza, solo in parte mitigato dall'aumentata pressione fiscale locale. In realtà, proprio a causa della novità della compartecipazione IRPEF (fantomaticamente fatta inserire tra le entrate tributarie pur essendo manifestamente un'elargizione statale), negli ultimi anni il mese di marzo è stato quello della pioggia di euro dal Ministero. Il 50% dello stanziamento annuo (saldato poi in piena estate) ha rappresentato (con una percentuale di compartecipazione giunta l'anno scorso al 6,5%) un vero e proprio toccasana per i comuni alle prese con le ordinarie ristrettezze di bilancio. In questo modo, era irrilevante l'accredito dei contributi in senso proprio, posta residuale di un sistema centralizzato vieppiù arcaico, del quale, per inciso, in pochi conoscono i meccanismi di attribuzione. La Finanziaria 2007, invece, ha riportato le lancette del tempo ad un'epoca quasi dimenticata e, riducendo drasticamente la percentuale di compartecipazione allo 0,69%, ha restituito un vago sapore di beffa ai primi mesi dell'esercizio. Ora i trasferimenti ordinari per i comuni sotto i 50.000 abitanti sono di nuovo consistenti e però (le regole qui non sono mutate) sono erogati in tre rate: la prima a febbraio (quindi è già stata accreditata), la seconda a maggio, la terza a ottobre. Poiché il menù dei fondi erariali è più vario di quello di un Vissani in stato di grazia, questo calendario di bonifici non è uguale se parliamo di fondo per lo sviluppo degli investimenti (due rate, maggio e ottobre) piuttosto che di fondo per il sostegno agli oneri per i rinnovi contrattuali dei segretari comunali (tutto a giugno). E' evidente però che la partita principale riguarda il contributo ordinario (quest'anno e per altri due esercizi incrementato per i comuni particolarmente giovani di somme anche consistenti) che, come detto, dovrebbe alleviare le tensioni di liquidità da qui all'estate, in attesa dell'accredito ICI. Poiché il Ministro ha già chiarito che una quota delle maggiori entrate accertate è di natura strutturale, perché non pensare ad una rettifica del sistema di erogazione che riporti a due le rate da accreditare, parificandone la data a quella prevista per la compartecipazione IRPEF? Per una volta, non si chiedono più fondi ma meglio distribuiti.

domenica 25 marzo 2007

Partita tripla

Il comma 61 della Finanziaria apre le porte all'introduzione generalizzata della contabilità economica negli enti locali. In realtà, più modestamente, si propone entro il prossimo 30 giugno di stabilire le "modalità per introdurre in tutte le amministrazioni pubbliche criteri di contabilità economica." D'altra parte, l'eterogeneità dei bilanci dei diversi rami della Pubblica amministrazione richiede un supplemento d'indagine per giungere in pochi mesi alla definizione di criteri di base, da implementare concretamente a cura dei singoli enti. L'obiettivo è significativo e, se non fossimo per natura scettici sulle capacità di sintesi di chi sta nella stanza dei bottoni ministeriale, otterrebbe un risultato sinora insperato: rendere leggibili i bilanci degli enti locali anche a coloro che, con comodo alibi, oggi li definiscono incomprensibili. Ne guadagnerebbe la trasparenza dell'informazione e la serietà delle professionalità in campo. Per giungere a ciò, il percorso è forse più semplice di quanto si pensi. Le fondamenta sono già state realizzate: i primi principi contabili sono operativi, dunque attendono solo una formale stauizione legislativa per essere cogenti. Immaginiamo, poi, che nella volontà del legislatore ci sia l'affiancamento della contabilità economica a quella finanziaria, non essendo auspicabile un'eliminazione di quest'ultima, che fornisce informazioni insostituibili sulla gestione autorizzatoria delle risorse. Sulla base di queste realtà già sperimentate dagli enti più all'avanguardia nel capire lo spirito del tempo, si può già realizzare un codice di comportamento minimo anche per gli enti minori, cioé con meno risorse. La novità che ci aspettiamo, dunque, (altrimenti ogni proclama di modernizzazione manterrà intatta la sua vanità) è l'obbligo di tenere la contabilità economica con il metodo della partita doppia. Credo che non possano esserci ragionevoli alternative a un sistema che funziona con un meccanismo matematico senza errori. Per avviare un motore che mi immagino pochi abbiano voglia di far carburare immediatamente, servono tre elementi. Innanzitutto è indispensabile che l'introduzione sia obbligatoria per tutti gli enti a partire da una stessa data, non importa se fra tre o cinque anni, ma tutti devono avere un identico orizzonte temporale al quale tendere, senza aspettarsi deroghe o rinvii. Chi non si adegua entro quella data, viene immediatamente segnalato alla Corte dei conti e subisce la sospensione dell'erogazione dei trasferimenti sino alla risoluzione dell'inadempienza. Il secondo elemento è l'assistenza concreta del Ministero. E' impensabile che gli enti si affidino esclusivamente alla buona volontà degli operatori, pur encomiabile. Chi preferisce fare da solo ne ha tutto il diritto, ma la necessità di un filo diretto costante tra centro e periferia è del tutto realistica: in sostanza, le risorse, soprattutto umane, ce le deve mettere anche l'erario, non solo i comuni. Il terzo elemento, il più significativo, è il coinvolgimento obbligatorio dei revisori dei conti nell'introduzione del nuovo sistema. Chi meglio dei professionisti più accreditati presso gli enti può consigliare sulle migliori tecniche da adottare, la cui complessità risulterà proporzionata alla struttura organizzativa dell'ente. Attendiamo il decreto ministeriale al varco. Nel frattempo lavoriamo per affinare questi tre elementi.

sabato 24 marzo 2007

La cattiva consigliera

L'ottimo sito Lavoce.info si sta occupando spesso di temi a noi vicini, con un taglio tecnico differente, poiché le questioni sono sempre osservate dall'esterno, dal punto di vista dello studioso di economia. Ma il rigore scientifico è utile per distinguere gli elementi della discussione, senza farsi influenzare dalla propria deformazione professionale. Nei giorni scorsi abbiamo letto con attenzione un intervento di Gilberto Muraro, Ordinario di Scienza delle Finanze all'Università di Padova, che esamina il tema dell'abolizione dell'ICI sulla abitazione principale sotto tre profili differenti. Il primo è quello che ci tocca direttamente, come operatori: il peso dell'ICI sulle finanze comunali. Vi si osserva correttamente che l'imposta è l'entrata (corrente) di maggior rilievo e che su di essa dunque le amministrazioni fanno affidamento per le loro politiche amministrative. Molto pertinente il richiamo al carattere di equità rappresentato dal prelievo su una base imponibile (quella patrimoniale) molto più concentrata rispetto al reddito, anche perché le amministrazioni hanno approfittato della possibilità loro offerta di modulare il prelievo con differenziazioni di aliquote e detrazioni. A questo proposito, il felice parallelismo con l'andamento (in crescita, ma moderata) delle aliquote dell'addizionale IRPEF previste per il 2007 ribadisce la prudenza complessiva delle amministrazioni locali. Sul secondo punto toccato da Muraro, non possiamo che concordare, avendo già scritto qualche giorno fa sulla infelice proposta di scambiare semplicemente l'ICI sulla prima casa con un po' di trasferimenti in più, pietra tombale dell'autonomia fiscale degli enti locali. Il terzo punto, invece, apparentemente esula da queste premesse e ribadisce la necessità di un forte intervento a favore dei nuclei familiari, specie se numerosi. E' proprio quest'ultima analisi, però, ad avvicinare di più alle nostre le posizioni del professore. Infatti, l'abolizione dell'ICI sulla prima casa è stigmatizzata come inutile, oltre che dannosa, essendo più efficaci politiche di adeguamento degli assegni familiari, di maggiore disponibilità di strutture per neonati, di assistenza agli anziani, quelle iniziative, insomma che affrontano il problema da prospettive diverse, allo stesso tempo e soddisfano più diffuse esigenze di vita. Invece di precipitarsi a fare dichiarazioni dall'evidente sapore elettoralistico, una riflessione più attenta sarebbe davvero opportuna.

venerdì 23 marzo 2007

Alla scoperta dell'acqua calda

Nonostante la proroga al 30 aprile, ufficializzata solo ieri e non ancora in Gazzetta, il numero di comuni che deve ancora approvare il bilancio di previsione 2007 tende ormai allo zero. E' dunque iniziata la verifica conclusiva sulla temuta torchiata dei tributi locali ai danni dei malcapitati cittadini. Il lenzuolo rosa si fa portatore delle migliori istanze informative, annunciando la pubblicazione periodica (per le prossime settimane, almeno) del trend 2007 di aliquote ICI e addizionale IRPEF rispetto all'anno precedente. Sbirciando nei dati aggregati pubblicati nel numero di lunedì scorso, la sensazione immediata è di un capolavoro di compensazione realizzato dalle amministrazioni locali che, nell'anno dello sblocco delle addizionali, hanno adottato l'approccio 'somma zero' nelle loro politiche fiscali. L'aumento dell'IRPEF locale, a detta di molti inevitabile dopo anni di stasi coattiva ma non necessariamente, poiché la luna di miele elettorale si è conclusa quasi per tutti (e in particolare per le amministrazioni che andranno a votare alla fine del prossimo maggio), si è rivelato, per ora, significativo ma non massicciamente oppressivo. E d'altro canto, anche dove esso è stato perpetrato, è stato mitigato da un corrispondente alleggerimento dell'ICI, quasi a riaffermare che, in tema di politica tributaria, le amministrazioni locali possono dare numerosi punti a quelle nazionali. La progressività imposta dalla Costituzione, insomma, viene meglio se fatta in casa. Non è detto che con ciò si rivitalizzi un principio decisamente impopolare, considerato lo spirito tutt'altro che collettivo dell'indole italiana, ma almeno si limiterà la sensazione che l'eguaglianza Comune=Tasse sia sempre vera. E non interessano qui le grandi città, per le quali, tra l'altro, non sembra ci sia l'intenzione di aumentare la pressione fiscale tout court, ma le municipalità che arrancano nelle quadrature tra spese e entrate correnti. Per questi enti sembra valere il primato dei rapporti di buon vicinato più che la necessità di fare cassa a tutti costi. Se la preoccupazione di un appesantimento del fisco locale era paventata dalla maggioranza degli osservatori, scommetterei volentieri un punto di addizionale che questa sensazione vista dal basso era tutt'altro che scontata. Per gli enti coinvolti dal patto di stabilità era, sostanzialmente, esclusa a priori dalla stessa imposizione di vincoli (salvo rientrare l'anno prossimo, sotto forma di sanzione, però), per tutti gli altri, invece, rappresenta certamente una boccata di ossigeno (qualche decina di migliaia di euro a punto è un gettito decisamente interessante), ma si tratta della tipica arma a doppio taglio sotto il profilo diplomatico dei rapporti con la comunità amministrata, che è lì sotto casa, non arroccata nei ministeri. Ci aggiorniamo ad aprile, per confermare l'ipotesi o bacchettare i sindaci vessatori.

giovedì 22 marzo 2007

Cambio di stagione

La scatenata frenesia calligrafica del Dipartimento Politiche Fiscali non risparmia (quasi) nessuno. Con risultati alterni, d'accordo, ma riuscendo a sollevare benefici polveroni che ci fanno riflettere e ragionare sulla messe di norme che ci sommerge nei primi mesi dell'anno. Stavolta ci occupiamo del passaggio dalla Tassa rifiuti alla Tariffa Ronchi alla Tariffa per la gestione dei rifiuti. La prima è, ormai da dieci anni, nel limbo del periodo transitorio, dovendo essere sostituita con l'applicazione della Tariffa a copertura totale, al massimo entro il 2007 (salvo ulteriori e imprevedibili proroghe). Nel frattempo, però, con un colpo di scena alla Hitchcock, anche la creatura di Edo Ronchi è stata soppiantata. Il guardiano del suo purgatorio si chiama Codice dell'Ambiente e cova l'ambizione di far gestire l'intero ciclo dei rifiuti alle ATO provinciali o, in ogni caso, agli organismi multiterritoriali da queste ultime coordinati. Per far questo, ovviamente, le risorse necessarie saranno reperite con i metodi usuali. Il prelievo fiscale assumerà la nuova veste di Tariffa per la gestione dei rifiuti. La sua entrata in vigore dipende da numerosi fattori, non ultima l'approvazione di un decreto attuativo che a sua volta non può essere completato prima che le ATO siano effettivamente costituite. Rispettando i tempi del D.Lgs. n. 152/2006, entro l'anno tutto dovrebbe sistemarsi. Abituati come siamo alle proroghe reiterate, attendiamo fiduciosi di essere finalmente clamorosamente smentiti. Nel frattempo, si diceva, il Ministero mette un sassolino nella scarpa delle amministrazioni volonterose che volevano avvicinarsi alla nuova tariffazione passando, anche se solo per poco tempo, attraverso la Ronchi (anche perché, di quest'ultima, resta soprattutto la necessità di copertura totale dei costi con le entrate). La previsione della Finanziaria 2007, che al comma 184 congela la situazione del 2006 sino a tutto il 2007, è stata integralmente raccolta dal D.P.F. che, nella nota del 19 marzo, le assegna il grado di norma tassativa, dunque non derogabile. Ne siamo davvero sicuri? La motivazione per sospendere gli eventuali passaggi da TARSU a TIA sarebbe che, in questo modo, si impedirebbe "l'insorgenza di ulteriori incertezze interpretative". Che vuol dire? E soprattutto, i Comuni che prima dell'approvazione della Finanziaria hanno provveduto ad approvare per la prima volta il regolamento per la Tariffa, compreso il Piano finanziario, e che dunque hanno deliberato un cambiamento nel 2007 rispetto al 2006, cosa dovrebbero fare? Revocare tutti gli atti per evitare "ulteriori incertezze interpretative"? Quel che la legge non dice, dovrebbe (in condizioni normali) contemplare la prassi. Qui invece non ci si mette, come al solito, nei panni operativi dell'ente e, semplicemente, si vieta, forti delle certezze granitiche di chi materialmente stende la norma. L'incorreggibile tendenza a ascoltare solo con un orecchio produce risme di carta stampata senza aiutarci a risolvere i pratici problemi da altre risme creati.

mercoledì 21 marzo 2007

La strategia del caos

Come chiamarla? 'Sindrome da sovraesposizione di commi'? Oppure semplice 'Overdose di Gazzetta Ufficiale'? Qualsiasi sia il virus che sta contagiando i funzionari dei ministeri, i danni che produce sono peggiori di un'influenza, per quanto recidivante. Dopo il Viminale, anche il Ministero dell'Economia e delle Finanze si offre in pasto ai divoratori (per necessità e per mestiere) di norme affrontando il tema, quest'anno molto delicato, dell'addizionale comunale all'IRPEF. Rispondendo a un ente locale che aveva chiesto lumi sull'applicazione delle nuove disposizioni dal 1° gennaio 2007, il Dipartimento delle politiche fiscali (e qui, in calce alla risposta, c'è pure un nome e un cognome al quale eventualmente inviare due noterelle di protesta) cerca di riassumere in poche righe la posizione ufficiale del Ministero sulla competenza a deliberare l'aliquota opzionale dell'addizionale. Da quest'anno, infatti, è necessaria una previsione regolamentare, perciò adottabile esclusivamente con deliberazione di Consiglio, per poter applicare l'aliquota. Ma dopo i primi tre paragrafi, sui quali non è neppure necessario soffermarsi, tanto risultano elementarmente chiari, nella stanza del direttore dell'ufficio deve essersi introdotto un sabotatore. Senza alcun problema, infatti, si dice, testualmente, che: "Va precisato, infine, che qualora il comune abbia già provveduto in passato ad istituire l’addizionale in discorso, non vi è la necessità di procedere a nuove deliberazioni, fatto salvo il caso in cui l’amministrazione comunale intenda modificare la misura dell’aliquota o introdurre la citata soglia di esenzione a norma dell’art. 1, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 360 del 1998." La cantonata è talmente macroscopica che bisognerebbe chiedere al Ministero di ritirare immediatamente dal sito la nota per riscriverla come si deve e inviare a tutti i lettori un buono sconto per l'acquisto di un buon ansiolitico. L'imprudente uscita riesce in un colpo solo a contraddirsi rispetto a quanto detto poche righe prima e a insinuare nei comuni il dubbio che, in quell'ufficio, la Finanziaria non l'abbiano riletta neppure una volta prima di pubblicarla in Gazzetta. Nel paragrafo immediatamente precedente, correttamente, si faceva notare che la competenza consiliare (oltre che dalla inderogabile previsione con regolamento) deriva anche dalla eventualità di introdurre una soglia di esenzione in presenza di casi particolari. Poco dopo si dice che, si, il Consiglio viene interpellato in questi casi, ma se la Giunta ha deciso che l'addizionale non cambia, non servono altre pronunce. Ma, fino allo scorso esercizio, se l'ente non intendeva modificare l'aliquota doveva comunque approvare una deliberazione giuntale. Dov'è scritto che ora non servirebbe la pronuncia di nessun organo? D'altronde, un atto dell'organo esecutivo sarebbe comunque inefficace (annullabile, in realtà) perché viziato da incompetenza relativa. Serve necessariamente una deliberazione consiliare. E davvero in questo caso la norma non lascia spazio a voli di fantasia sulla sua applicazione. La conseguenza dell'inazione dei Consigli sarebbe, a questo punto, la disapplicazione dell'addizionale (aliquota zero), poiché a differenza di quanto accade per l'ICI (dove una specifica disposizione stabilisce l'aliquota da applicare in caso di assenza di decisioni dell'ente, il 4 per mille), per l'addizionale IRPEF nulla si dice nella norma istitutiva e regolamentare del tributo. Il consiglio del Dipartimento, insomma, rischia, se seguito, di far invalidare le sedute di approvazione del bilancio 2007. Sempreché, va da sè, le minoranze siano così attente da sollevare la questione per tempo.

martedì 20 marzo 2007

Il bastone e la carota

Poveri revisori! Non bastava la minaccia di revoca immediata dei due terzi dei collegi nei comuni sotto i 15.000 abitanti, paventata (benché erroneamente) da più di un 'esperto', dopo la recente Finanziaria. Ci voleva pure la Corte dei conti, con le sue Linee guida 2007, a turbare definitivamente i sonni dei professionisti. A differenza dello scorso anno, infatti, la compilazione del modello (ce ne saranno tre versioni, secondo la dimensione demografica dei comuni) è diventata un adempimento tassativo, quasi fosse il parere sul bilancio di previsione o la relazione sul rendiconto (sulla falsariga dei quali, tra l'altro, sono ricalcate le Linee). A dispetto dell'assenza di un termine perentorio per la presentazione, dunque, i revisori dovranno comunque rispedire alle competenti sezioni regionali della Corte i questionari entro un termine che, per quanto riguarda il documento sul preventivo 2007, è stato individuato approssimativamente nella fine dell'estate, per dar modo ai magistrati contabili di disporre entro ottobre, laddove necessario, le pronunce che gli enti dovranno poi rispettare attraverso apposite deliberazioni consiliari, da adottare necessariamente entro il 30 novembre, ultima data possibile per introdurre variazioni al bilancio di previsione. Il ritardo non giustificato nell'invio farebbe scattare, a partire da quest'anno, una formale comunicazione della Corte ai rispettivi Consigli, con la richiesta di considerare addirittura la revoca del professionista (o del collegio) inadempiente. La Corte ha ragione a chiedere risposte tempestive. In caso contrario, di fatto, la sua azione nei confronti dell'ente sottoposto a controllo risulterebbe vana. E' però vero che la revoca dei professionisti è prevista esclusivamente in relazione a inadempienze dirette nei confronti dell'ente che lo ha nominato. L'Art. 235, c. 2, del TUEL infatti recita: "2. Il revisore è revocabile solo per inadempienza ed in particolare per la mancata presentazione della relazione alla proposta di deliberazione consiliare del rendiconto entro il termine previsto dall'articolo 239, comma 1, lettera d)." Se dal questionario spedito pur in ritardo emergessero profili di rischio per gli equilibri del bilancio dell'ente, ciò sarebbe stato già evidenziato dal revisore nel suo parere al bilancio di previsione, poiché i dati richiesti dalla Corte non sono un'estensione, semmai una sintesi, di quanto indicato nel parere. Il Consiglio, voglio dire, non dovrebbe aspettare la pronuncia della Corte per ritenersi investito della questione. Se, infine, la Corte chiedesse al Consiglio di revocare il professionista, l'intera vicende assumerebbe i contorni di un ironico racconto morale. Se, per distrazione o semplice incuria, il revisore non trasmetterà per tempo il documento, il Consiglio, già inadempiente, prenderebbe provvedimenti contro colui che ha segnalato, almeno in due occasioni, il rischio di disequilibri. Sembrerebbe di assistere al cambio di allenatore sulle panchine di un qualsiasi campionato di calcio. E la carota, dove sta? Per ora, direi nell'ammontare dei compensi in proporzione al lavoro svolto e alla responsabilità assunta. Ma il bastone, in questo caso, picchia forse troppo forte. O nel senso sbagliato.

lunedì 19 marzo 2007

Eppure non convince

E perché dovrebbe? Anche il lenzuolo rosa cade ogni tanto nella tentazione di prendere per buone le posizioni ufficiali dei ministeri senza andare a controllare de visu se le cose stanno proprio così, oppure devono essere diversamente interpretate. L'ultimo caso mi sembra piuttosto clamoroso, anche perché ricorda quasi esattamente il tranello in cui era caduto lo struzzo giallo non più tardi di qualche settimana fa in un breve ma incisivo articolo. Vi si sosteneva che, con l'eccezione isolata del 2007, regolato in modo esplicito dalla Finanziaria 2007 (comma 712), già dal 2008 non sarebbe stato più possibile applicare neppure un euro di oneri di urbanizzazione per il finanziamento di spese correnti. Si trattava di una posizione mal argomentata, ma del tutto riferibile agli estensori dell'articolo. Qui invece si prende inizialmente per buona l'interpretazione del Viminale, contenuta nella recente lunga circolare sulla L. 296/2006 (n. 5/2006). Il Ministero afferma senza alcun tentennamento che, poiché il comma 712 regola esplicitamente solo la gestione degli oneri per il 2007, dall'anno prossimo non c'è più trippa per gatti. In sè, non vi sarebbe nulla di eccepibile, perché quello che non è regolato dalla norma attuale deve rientrare nella legge previgente. Ma il punto sta proprio qui. L'errore commesso è lo stesso dello struzzo: ritenere che non vi siano in vigore norme che consentano l'utilizzo degli oneri per spese correnti. L'avevo già sinteticamente illustrato e non mi ripeto. Quello che fa specie è il fatto che neppure al Ministero si preoccupino di verificare le cose che scrivono. Avevamo appena terminato di complimentarci per la limpidezza delle note sul comma dedicato alla revoca dei collegi di revisione che dobbiamo fare un appunto altrettanto netto, stavolta in segno di biasimo. Il che significa che leggere attentamente le circolari non è più solo un fatto legato all'aggiornamento professionale, è pure un esercizio di enigmistica moderna. La posizione apparentemente distaccata e neutrale del lenzuolo rosa è altrettanto deludente. Dopo aver ricordato che la Corte dei conti e l'Osservatorio sulla finanza e la contabilità degli enti locali si sono pronunciati per l'assenza di vincoli sull'utilizzo degli oneri, il quotidiano si limita a insinuare negli enti il dubbio che la posizione ministeriale debba essere comunque prevalente rispetto ai pur autorevoli pareri di quegli organi. Trattandosi di una circolare, e dunque di un interpretazione che non ha neppure il crisma dell'autenticità, si dovrebbe comunque andare cauti. Se poi fossero andati a leggersi l'art. 49, c. 7, L. 27 dicembre 1997, n. 449 (Finanziaria 1998), mai abrogato, che testualmente recita: "7. I proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni di cui all'articolo 18 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, e successive modificazioni, e all'articolo 15 della medesima legge, come sostituito ai sensi dell'articolo 2 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, possono essere destinati anche al finanziamento di spese di manutenzione del patrimonio comunale." l'articolo si sarebbe allungato di qualche riga, ma di certo avrebbero smascherato il distratto circolarista degli interni.

domenica 18 marzo 2007

Il libro della giungla/2

Non scherzavo ieri, proponendo una rinnovata versione dei comitati di controllo (a parte la denominazione che mi ha sempre evocato visioni kafkiane di una burocrazia all'ennesima potenza) guidati e gestiti dalla Corte dei conti. L'esame delle relazioni ai bilanci di previsione (e ci aspettiamo in tempi brevi anche l'indagine sulle relazioni dei consuntivi 2005) ha evidenziato il limite più significativo delle cosiddette linee guida. Si tratta di un controllo successivo all'esecutività degli atti, successivo anche al termine per proporre eventuali ricorsi al TAR da parte dei portatori di interessi legittimi. In questo modo, non può ritenersi uno strumento deterrente di cattiva amministrazione (senza discutere sulla buona o mala fede degli organi deliberanti). Anche l'evidenza dei numeri sconsiglia di ritenere questa come la forma ottimale per ovviare all'attuale anarchia protetta nell'adozione delle deliberazioni. Avanzare, quindi, un'ipotesi di restaurazione non sembra un azzardo visionario. Più semplicemente, un contributo a un dibattito che langue, con l'accondiscendenza delle amministrazioni che, di certo, non sono diventate dopo l'abolizione dei Co.Re.Co. covi di associazioni a delinquere, ma che certamente non hanno protestato più di tanto per tale repentina scomparsa. L'obiezione principale (e certamente decisiva nel rendere irrealizzabile questa proposta) sarà quella dell'organico limitato, dovendo la Corte occuparsi di ogni comparto della Pubblica amministrazione e dovendo agire (facendo di necessità virtù) a campione sulle singole tipologie di enti. Forse, però, proprio qui sta una possibile via d'uscita compromissoria. Avendo comunque a disposizione un numero predeterminato di controlli annuali sugli enti locali, perché non ipotizzare che ciò avvenga (sulla base, si intende, di un'esplicita previsione legislativa) con le identiche modalità che contrassegnavano l'operato dei controllori regionali (i quali istruivano le pratiche sui bilanci come dei magistrati, benché solo alcuni di essi lo fossero, anche in quiescenza) attraverso le sezioni regionali di controllo, già istituite e regolarmente in attività? Le garanzie per una più approfondita analisi degli atti di programmazione e di rendicontazione mi sembrano indiscutibili. Così come trovo difficile pensare che le amministrazioni respingano la necessità di sottoporre i propri atti (solo alcuni, poi) ad un controllo, celandosi dietro una malinterpretata definizione di autonomia amministrativa. Non si ha notizia che il Codice delle autonomie intenda affrontare di petto la questione. Eppure, a maggiore tutela di amministratori e amministrati, dovrebbe essere un'occasione da non perdere.

sabato 17 marzo 2007

Il libro della giungla

Da quando non esistono più i comitati di controllo regionali, nessuno chiede più ai comuni di sottoporre i loro atti fondamentali all'esame di organi istituzionali. A meno che ci si ritrovi nel mezzo di un esposto alla Corte dei conti, con le conseguenze del caso. Si tratterebbe comunque di una verifica di legittimità a posteriori e perderebbe quindi il suo potere di dissuasione preventiva che i Co.Re.Co. (negli ultimi anni, O.Re.Co.) avevano saputo, nel bene e nel male, costruire. La magistratura contabile ha approfittato di una norma della Finanziaria 2006 per restituire una dose minima di attendibilità ufficiale agli atti della programmazione locale, obbligando i revisori degli enti a trasmettere le relazioni su preventivi e consuntivi costruite secondo le ormai note Linee guida. Dall'analisi dei dati rilevati dalla Corte sui bilanci di previsione 2006, benché riferiti a un campione di enti di poco superiore al 10% (829 su 8.103), emerge una tendenza che fa riflettere. 659 delle 829 osservazioni espresse dalla Corte (più dell'80%) sono relative al rispetto del Patto di stabilità. I rimasugli riguardano, infatti, il personale, le esternalizzazioni, la gestione delle entrate e l'equilibrio del bilancio (fanalino di coda con 17 osservazioni). Questa insistenza su un aspetto della gestione che dovremmo definire legalitario più che di legittimità non depone benissimo a favore della prosecuzione dei controlli a cura dei magistrati contabili. Innanzitutto, si pone un discrimine tra la maggioranza degli enti (esclusi dal Patto) e tutti gli altri. I revisori dei primi compilano una versione semplificata della relazione, paragonabile a una sintesi del parere espresso prima dell'approvazione del preventivo. I dati che si possono rilevare da questi bignami sono funzionali all'attività di controllo solo se rappresentano irregolarità macroscopiche. In questi casi, cioè, tali patologie dovrebbero già essere state sottoposte all'attenzione dei rispettivi consigli per porvi rimedio, le osservazioni della Corte servendo solo a corroborare eventualmente la posizione dei revisori. I collegi degli enti sottoposti al Patto compilano un documento molto più dettagliato, ma solo per evidenziare il rispetto o meno dei criteri per il rispetto dei parametri sui saldi di cassa e competenza. Che cosa ha tutto ciò a che vedere con l'esame della buona gestione finanziaria degli enti? Il patto di stabilità nasce con finalità assolutamente diverse da quelle di controllare la qualità della programmazione locale. Se in un ipotetico bilancio consolidato nazionale devono entrare anche i comuni, sono proprio questi ultimi a garantirne l'equilibrio, di certo non le Regioni e (ça va sans dire) lo Stato. Così, la sostanza delle osservazioni non incide (se non in ridottissima misura) sulla legittimità delle scelte di politica fiscale locale, di acquisizione delle risorse umane, di gestione dei servizi pubblici. Una volta imputavamo ai funzionari regionali un eccesso di formalismo nell'esaminare i bilanci. Rimpiangere ora le discussioni sulle ordinanze (talvolta chilometriche) dei comitati lascia più che perplessi. E se il legislatore reintroducesse i Co.Re.Co. (Corti Regionali di Controllo)?

venerdì 16 marzo 2007

Unico nel suo genere

Pare che, nel prossimo Codice delle Autonomie, faccia capolino la nuova figura del Dirigente unico. Il testo di un emendamento al decreto quasi approvato dal Consiglio dei ministri stabilisce che il codice dovrà "prevedere una funzione apicale che garantisca la distinzione e il raccordo tra gli organi politici e l'amministrazione, nonché il coordinamento unitario dell'azione amministrativa per assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione, in attuazione dell'articolo 97 della Costituzione." Questo esemplare un po' fantozziano, gerarchicamente parificabile al Segretario/Direttore generale, dovrebbe nelle intenzioni del legislatore risolvere l'ormai annoso problema del ruolo del Segretario nell'ente locale. Quest'ultimo, si sa, da quando è stata introdotta la figura del Direttore generale, si è trasformato (nei rari casi in cui non gli è riuscito di farsi nominare tale) in un mero assistente a favore degli organi amministrativi. E non vale ricordare che, comunque, egli è a capo del personale. La sua autorità, e di conseguenza la sua capacità di governare la dotazione organica, o gli deriva dal carisma della sua esperienza professionale oppure non è. Al contrario, nei comuni dove è stato nominato Direttore generale, egli incarna contemporaneamente tutte le figure rappresentative della più alta gerarchia, poiché oltre ai compiti in materia di personale, gli sono attribuite le funzioni di responsabile della realizzazione dei programmi dell'ente, essendone il dirigente di fatto e di diritto. Dalla constatazione di questa concentrazione di poteri nasce ovviamente una domanda chiave: in quanti enti essa si manifesta come una reale competenza manageriale? E non stiamo parlando qui di manager in senso strettamente privatistico, ma più semplicemente di capacità reale di andare al di là della competenza amministrativa per calarsi in un ruolo molto più vicino a quello del Responsabile dei servizi finanziari. Il senso retorico della domanda è, purtroppo, assolutamente intenzionale. Non ditemi che non vi siete mai trovati alle prese con segretari che non conoscono l'ABC della contabilità economica e dunque non saprebbero compilare un conto economico neppure sotto tortura. E non è neppure vero che non si può giudicare un direttore generale dalle sue competenze economiche perché, se non sa leggere sul serio un bilancio, che credibilità potrà mai avere come soggetto a capo della struttura operativa che quel bilancio lo deve gestire? Peraltro, sembra che la previsione normativa abbia soddisfatto le aspettative di tutti i soggetti in gioco. Almeno di quelli interpellati, perché (e torniamo a bomba) non si comprende che differenza ci sia tra la "funzione apicale" prevista nel Codice e il Segretario così come è concepito ora. Caso mai proporrà ex-novo, nei comuni dove già sono presenti due distinte figure professionali, un problema di convivenza con i direttori generali. Dal che si deduce che uno dei due dovrebbe istituzionalmente soccombere. Sospettiamo che si tratterà dei d.g., ancora troppo poco diffusi per rappresentare una categoria omogenea, cani sciolti del management comunale ai quali manca una lobby parlamentare di sicura affidabilità. Si diffonderà così il segretario-direttore, senza che ne sia garantita, corrispondentemente, la professionalità. L'unico soggetto che può ufficialmente accertare la qualità dei nominati è, oggi, la Scuola superiore della pubblica amministrazione, ma al ritmo con il quale vengono banditi nuovi corsi-concorsi (l'ultimo, in Gazzetta lo scorso 6 marzo, per 300 posti), prima di assistere al ricambio dell'attuale classe dirigente dovremmo attendere generazioni.

giovedì 15 marzo 2007

Conflitto d'interessi

Il sovraffollamento delle scadenze tributarie e contabili, prontamente registrato da tutta la stampa specializzata, stava quasi per far passare in secondo piano l'opportunità di regolamentare alcuni aspetti (e non secondari) della gestione di imposte e tasse comunali. La Finanziaria 2007, prodiga di consigli ma soprattutto di imposizioni, caldeggia la modifica dei regolamenti comunali per adeguare nell'ordine: il tasso d'interesse da addebitare/accreditare al contribuente in caso di versamenti difformi; l'importo minimo dei versamenti; l'eventuale compensazione tra debiti e crediti di tributi comunali differenti. Vorrei soffermarmi sulla questione degli interessi, perché propone un dilemma di discreto rilievo. Innanzitutto, la norma contenuta nella L. 296/2006 (comma 165) recita testualmente: "La misura annua degli interessi è determinata, da ciascun ente impositore, nei limiti di tre punti percentuali di differenza rispetto al tasso di interesse legale. Gli interessi sono calcolati con maturazione giorno per giorno con decorrenza dal giorno in cui sono divenuti esigibili." Il comma si conclude ribadendo la reciprocità del trattamento nel caso in cui sia il contribuente a essere creditore di somme. Non si tratta di una novità assoluta. L'Art. 13, L. 133/1999 attribuiva già ai comuni la facoltà di individuare nell'ambito della propria potestà regolamentare l'importo del tasso di interesse da applicare. E il già citato comma 165 non sostituisce l'applicazione del saggio legale nel caso di ravvedimento operoso. Una volta stabilito che la determinazione della misura degli interessi può essere solo del Consiglio comunale, è necessario capire quali sono le possibili alternative. Diciamo subito che il tasso d'interesse attualmente vigente (salvo che appunto una diversa disciplina sia stata già introdotta dal comune) è quello stabilito con D.M. 27 giugno 2003. Ora, primo caso, se l'ente ha già provveduto sulla base della L. 133/1999 e il saggio rientra nei limiti della Finanziaria 2007, non dovrà adeguare alcun regolamento. Se l'ente, secondo caso, non ha mai introdotto una misura degli interessi, ora potrebbe approfittare della opportunità entro fine marzo (salvo ulteriori proroghe del termine per l'approvazione del bilancio, secondo alcuni ormai praticamente certe). E se, terzo caso, il comune non ha regolamentato e non regolamenterà l'importo degli interessi? Applicherà, come sostengono alcuni, il tasso di interesse legale? Diremmo di no. Nessuna norma, attualmente, stabilisce quella soglia come lo standard di riferimento. Sosteniamo, per razionalità e coerenza, l'ipotesi di Bruno Battagliola, il quale richiamando il saggio d'interesse stabilito per i tributi erariali, al quale è stato parificato quello per i tributi comunali, applicherebbe, appunto tale misura per evitare trattamenti diseguali di fronte alle norme tributarie del contribuente. Cambierà solamente la modalità di conteggio degli interessi (a giorno, anziché a semestre), ma questa non è una disposizione derogabile.

mercoledì 14 marzo 2007

Do di petto

Niente di personale, sostiene il Ministero. Nel senso che di risorse umane a disposizione, con tutta la buona volontà, non ce n'è proprio. Diciamo pure che non serviva un ulteriore nota del Viminale per girare il coltello in una piaga aperta da anni. In ordine di tempo, l'ultimo paletto nella staccionata del ranch Quinonsiassume ce l'ha messo la Finanziaria 2007 che ha, se possibile, inasprito i vincoli già stretti dei precedenti provvedimenti. Ancora alle prese con la redazione di bilanci sui quali pesa sempre, per alcuni, la riduzione dei trasferimenti a fronte di maggiori introiti ICI solo sperati e tutti da verificare, spunta la coattività del comma 557 che, senza remore, ricorda ai comuni il comportamento del buon padre di famiglia: taglierai le spese del personale fino al livello di quelle di tre anni fa. Non so se il fatto di perseverare ritenendo il 2004 un anno cardine rappresenta per il legislatore un punto fermo. Certo è che l'indistinto riferimento a un monte salari di un anno nel quale magari si erano verificate dimissioni o quiescenze penalizza immotivatamente alcuni enti rispetto ad altri. Ora, purtroppo, è comunque tardi per ipotizzare correttivi e la strategia del risparmio a tutti i costi fa un altro passo avanti (o indietro, dipende come al solito dai punti di vista) poiché le maglie si fanno, a un anno di distanza, ancora più strette. Non dimentichiamo poi che il Dpcm del febbraio 2006 è ancora maledettamente vigente, quindi di nuove assunzioni se ne parlerà solo quando metà del personale se ne sarà andato e la qualità dei servizi forniti pure, e questo senza tenere in alcun conto il fatto che l'ente possa disporre di risorse proprie sufficienti a reggere a lungo termine l'ulteriore irrigidimento della spesa corrente dopo un'assunzione a tempo indeterminato. A meno che il legislatore non voglia sostenere, in un rigurgito di giustizialismo preventivo, che, per definizione, gli enti locali sono sovradimensionati e dunque se anche perdono 3 (o 5 o 9) unità di personale possono benissimo continuare a offrire prestazioni di qualità, anzì addirittura superiori perché più efficienti. Ci sembra una interpretazione che, fosse vera, farebbe ritornare la qualità del confronto Governo - Enti locali a un minimo storico. Meno maliziosamente, un giochetto di questa specie sembra più rispondere alla smania di rispettare i vincoli del Patto senza mai mettersi veramente nei panni di chi opera in realtà di dimensioni ridotte. Mi sembra, quasi, di scrivere come farebbe un Domenici qualunque e ciò mi preoccupa. Non tanto per Domenici, il quale guida un'Associazione che non sempre porta a casa quello che rivendica come proprio risultato, quanto per la ripetitività delle istanze e per l'inutilità apparente della polemica. In conclusione, infatti, i tagli devono essere effettuati. E nessuno sembra preoccuparsi delle conseguenze. Che, nel medio periodo, non mancheranno di rivelarsi nel loro misero splendore.

martedì 13 marzo 2007

La vita agra

Dal 27 febbraio scorso, la fibrillazione degli amministratori comunali ha raggiunto l'apice. Non serviva avere sott'occhio il dettaglio dei contributi erariali per il 2007, poiché la norma contenuta nel collegato alla Finanziaria era già, purtroppo, molto chiara. Di certo, però, ha definito con precisione la dimensione della rabbia montata nel frattempo. Il punto critico, lo sapete bene, è la riduzione, diciamo così, preventiva del contributo ordinario a causa del maggior gettito ICI che dovrebbe derivare ai comuni dall'azione di accertamento a tappeto svolta dall'Agenzia del Territorio. Questo lavoro di fino (parecchio impegnativo a dir la verità) riguarderebbe in particolare gli immobili rurali oltre che quelli di tipo D (industriali). I primi sono da tempo un elemento di discussione e contenzioso, trattandosi di fabbricati dichiarati come a servizio del fondo e come tali non autonomamente tassabili. Si sa, al contrario, che dietro questa parvenza si nascondono abitazioni non più utilizzate dall'agricoltore o dalla sua famiglia ma ormai diventate dimore civili a tutti gli effetti. L'azione accertatrice dovrebbe far emergere la mole di informazioni mai comunicata al catasto immobiliare e ripristinare la piena soggettività passiva dei possessori, di certo molto poco rurali, come gli edifici occupati. Si tratta peraltro di un mondo che verrà, futuro risultato di una certosina analisi del territorio, la quale vorrebbe essere conclusa entro il prossimo ottobre (data dell'erogazione dell'ultima rata dei trasferimenti 2007), ma che, consapevolmente, in quei mesi sarà ancora in pieno corso. Tanto che le mani avanti il Ministero le ha già messe, anticipando che, con apposito decreto, il taglio dei contributi o sarà puntuale (al comune Tizio tolgo esattamente quanto potrà incassare in più di ICI, operando dunque il necessario conguaglio) oppure sarà distribuito come le razioni K, in modo eguale per tutti, proporzionalmente al totale dei contributi spettanti. Un sistema terribilmente centralista, oltre che iniquo ab origine. Ma che si presenta già inevitabile: le proteste delle associazioni dei comuni, infatti, sembrano per ora non aver sortito alcun effetto. La base imponibile dell'ICI resta, al momento, invariata. La base di calcolo del contributo ordinario, invece, è già stata opportunamente rivista. E poi dicono che la finanza pubblica non ha la fantasia di quella privata...

lunedì 12 marzo 2007

L'appello del lunedì

Il pressing a tutto campo delle associazioni dei Revisori dei conti ha partorito la scorsa settimana un appello rivolto al legislatore ma assolutamente universale nel rivendicare, alla vigilia della discussione finale sul Codice delle Autonomie, istanze di continuità con l'attuale sistema contabile misto (finanziario ed economico), che offre soprattutto vantaggi se adoperato con gli strumenti della migliore tradizione ragionieristica pubblica e privata. Ognuno dei due sistemi, infatti, conserva funzioni informative specifiche che un'eventuale nuova regolamentazione non dovrebbe disperdere, razionalizzandone anzi l'utilizzo, favorendo in particolare le piccole realtà che, a causa dell'endemica carenza di risorse umane (di certo non incentivata dalle recenti Finanziarie), sono quelle che più risentirebbero di ulteriori obblighi di rendicontazione e di gestione. Di seguito propongo l'appello nella versione integrale apparsa sullo Struzzo giallo di venerdì scorso. Dopo averlo letto, caldeggio l'adesione (anche se non siamo revisori, la struttura prossima della contabilità comunale ci interessa eccome) con una semplice e-mail al seguente indirizzo: fg.grandis@uniurb.it oppure p.criso@crisoassociati.it.
"La prossima riforma delle autonomie locali costituisce l'occasione di un ulteriore implementazione e miglioramento della gestione dei servizi pubblici resi al cittadino. In questo contesto i principi fondamentali contenuti negli ordinamenti finanziario e contabile degli enti locali rappresentano, ormai, una consolidata ed efficiente normativa che ha consentito l'omogeneizzazione dei comportamenti amministrativi sull'intero territorio nazionale e l'accrescimento dei livelli di efficienza, anche in un periodo di ristrettezze finanziarie. Per questo motivo i sottoscritti auspicano un intervento che salvaguardi i seguenti elementi fondamentali, già presenti nell'attuale contesto normativo: - evitare ulteriori obblighi contabili per gli enti minori, mantenendo le attuali semplificazioni; - preservare la «contabilità finanziaria» quale garanzia del principio costituzionale della «copertura finanziaria», ciò anche al fine di omogeneizzare e armonizzare i documenti contabili atti a soddisfare il fabbisogno informativo dei cittadini e delle amministrazioni vigilanti; - mantenere l'affrancamento, che in atto è obbligatorio, dei documenti contabili di natura economica a quelli di natura finanziaria, in modo da attuare una convergenza con i sistemi contabili privatistici che al contempo sia rispettosa delle specificità degli enti pubblici; - salvaguardare la facoltà per gli enti di adottare quel sistema di «contabilità economica» più adeguato alle loro dimensioni e, comunque, idoneo ad alimentare i processi di programmazione e controllo nonché a soddisfare il fabbisogno di informazioni sui costi, sui rendimenti e sui risultati dell'azione pubblica; - tutelare la funzione autorizzativa, necessaria al «principio della distinzione» e al conseguente conferimento ai dirigenti di autonomi poteri di spesa; - ribadire che la «contabilità economica» è indispensabile per apprezzare l'andamento della gestione e le connesse responsabilità risultato dei dirigenti pubblici, mentre la «contabilità finanziaria», oltre a esprimere informazioni gestionali sui flussi finanziari, serve a verificare il rispetto delle norme che soprassiedono alle modalità di acquisizione dei beni e servizi e permette di identificare e quantificare le responsabilità penali, civili, patrimoniali e amministrativo-contabili dei soggetti che hanno disposto delle risorse finanziarie pubbliche affidategli con gli atti di programmazione; - evitare lo stato di incertezza del personale pubblico e la necessità di ricorrere a professionalità esterne, inevitabili conseguenze di una rivoluzione metodologica, radicale e repentina, fondata sull'abbandono della contabilità finanziaria a favore di un sistema esclusivamente economico-patrimoniale; - responsabilizzare maggiormente il collegio dei revisori dei conti sulla correttezza e veridicità delle informazioni contabili, garantendo, con più forza, la terzietà e la professionalità di questo organo di controllo. I sottoscritti sono consapevoli che una scelta oculata sul modello contabile da applicare agli enti locali non può limitarsi a considerare solo l'impatto sul sistema informativo aziendale, ma deve indagare sull'effetto che produce su tutti i meccanismi operativi della singola amministrazione pubblica, sulla sua organizzazione e sui diversi vincoli normativi, alcuni dei quali rinvenibili addirittura nella Costituzione del nostro paese."

domenica 11 marzo 2007

Le relazioni pericolose

Da quando è ripartita in grande stile la campagna per redistribuire il maggior gettito delle imposte erariali, l'ICI è quasi sempre presente nelle discussioni di esponenti della maggioranza che ormai non lesinano più fantasiose proposte per trasformare il prelievo sulla prima casa in un'elargizione generosa del Ministero delle Finanze. Adesso, la modalità più in voga sembra essere quella della concessione di sgravi in funzione delle condizioni reddituali e della numerosità del nucleo familiare che tenderebbero ad azzerare l'imposta sull'abitazione principale. Ma nella sarabanda di iniziative (tutte, tra l'altro, annunciate come più che prossime, quindi praticamente già in vigore) non si distingue più il furore abolizionista dall'impeto egualitario e i paladini del populismo e del marketing cosmetico fanno festa ad ogni telegiornale. Come sempre, invece di discutere con coloro che utilizzano l'ICI per il finanziamento dei propri servizi, si preferisce mantenere una sorta di copyright sul tributo, da concedere in uso agli enti locali nei tempi e nei modi preferiti dall'erario, secondo la convenienza del momento. Abbiamo già stigmatizzato questo modus operandi, per almeno due ordini di motivi. Il primo di natura istituzionale: se si vuole dare credibilità all'azione amministrativa dei comuni, l'ultima cosa da fare è levargli da sotto i piedi l'unico appoggio fiscale rimasto (con tutti i limiti riconosciuti che la sua applicazione comporta). Il secondo di natura strettamente tributaria: d'accordo che il tributo è stato istituito con legge dello Stato e che l'autonomia regolamentare dei comuni ha confini invalicabili, ma non per questo ogni volta deve essere rimesso in discussione il principio del decentramento fiscale, già risicato e sempre meno significativo. D'altronde, gli enti locali non possono istituire nuovi tributi, quindi restano comunque sotto l'imperio della legge. La quale però ha fino ad oggi garantito una elasticità di manovra sufficiente per dare a un'entrata così rilevante il carattere di imposta sul serio comunale (compresi gli insulti alle amministrazioni). Il prossimo baratto invece riproporrà il rapporto feudale tra vassallo e valvassore. Dalle Finanze già pervengono le prime giustificazioni: "Per il mio tornaconto d'immagine ti levo l'ICI sulla prima casa, ma non ti preoccupare, quel che perdi te lo rifondo come contributo in più. Come dici? Se ne va a farsi benedire la tua autonomia? Spiacente, è la politica, bellezza!"

sabato 10 marzo 2007

Innocenti evasioni

La scelta di affidare a società costituite 'ad hoc' la gestione di alcuni servizi pubblici locali, anche istituzionali, comunque non di rilevanza industriale, è di solito motivata con la necessità di ridurre i costi fissi e razionalizzare l'utilizzo delle risorse disponibili. Poi, alla resa dei conti, scopriamo che l'impalcatura creata con tanta attenzione cela una voglia di deregulation, di briglie sciolte quasi insopprimibile. Ne costituisce esempio lampante il caso citato dall'Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 37/E dello scorso 8 marzo. Una società (nella forma a responsabilità limitata, quindi a tutti gli effetti commerciale) è affidataria della gestione dei "servizi informatici e telematici" di un comune. Il contratto di concessione è stato stipulato nella forma dell'"house providing", senza cioè esperire le necessarie procedure concorsuali d'appalto. Da ciò discenderebbe, secondo la società, un rapporto non commerciale tra i due enti e, di conseguenza, la irrilevanza ai fini IVA delle prestazioni rese a favore del comune dalla stessa S.r.l. Questa interpretazione, respinta drasticamente e senza possibili alternative dall'Agenzia, sembra voler far passare il concetto che il diritto commerciale, l'intera normativa tributaria, trovino una zona franca quando si tratta di operare all'interno di entità giuridiche costituite per gestire servizi pubblici senza rilevanza economica. Ma l'impostazione frettolosa di chi consiglia queste scappatoie dimentica che la strumentalità della società costituita rispetto al comune servito si ferma nel momento in cui la sua forma giuridica è quella di una società commerciale. Deroghe, a questo punto, non ve ne sono. Sembra quasi che possa verificarsi una sorta di sospensione temporale della norma per consentire liberamente alle pubbliche amministrazioni di spezzettare le proprie attività in rivoli specialistici e privi dei lacci tipici del settore pubblico. La confusione nasce anche dal voler mettere sullo stesso piano procedure di affidamento e soggettività ai fini fiscali. Come le pere e le mele. Peccato che il diritto non conosca deroghe se non espresse e motivate. In questo caso, grazie all'opportuno interpello, la società dovrà rassegnarsi a fatturare le prestazioni fornite al comune (e applicare l'IVA con aliquota ordinaria). Dovrebbe essere un motivo sufficiente per ripensare al senso delle esternalizzazioni selvagge.

venerdì 9 marzo 2007

Circolare, circolare....

Torno ad occuparmi di revisori perché il Ministero dell'interno ha infine detto la sua. Che è poi anche la nostra. La circolare multicolore di ieri mette fine ai dualismi rusticani delle scorse settimane e consegna l'immediata cessazione dei collegi nei comuni sotto i 15.000 abitanti all'oblio delle opinioni azzardate. Per una volta, la limpidezza del testo merita la citazione estesa: "(...) Il comma 732 introduce una modifica all'art. 234 del TUEL, prevedendo che l'organo di revisione abbia una composizione collegiale solo per i comuni con popolazione pari o superiore a 15.000 abitanti (il limite precedente era fissato a 5.000 abitanti). Per i comuni interessati alla modifica (quelli con popolazione compresa tra 5.000 e 14.999 abitanti) la disposizione trova applicazione alla naturale scadenza dell'incarico attualmente affidato all'organo collegiale: in tale occasione il consiglio comunale provvederà al rinnovo dell'organo nominando un solo revisore." Esplicito, senza sbavature. Terminerà, dunque, il tira e molla tra i fautori della cacciata repentina e quelli, vincitori, del rispetto della scadenza del mandato. In realtà, il Viminale fa un passo avanti e completa il quadro derivante dalla nuova disposizione. Il non irrilevante aspetto dei compensi dovrà essere regolato da un nuovo decreto ministeriale che modifichi le fasce di attribuzione. In attesa della sua emanazione, per i collegi in scadenza il Ministero suggerisce una impostazione al risparmio (in linea con la tendenza restrittiva in ogni settore della amministrazione pubblica), attraverso l'applicazione del compenso massimo oggi spettante ai revisori della fascia sino a 5.000 abitanti. Per non sembrare troppo tirchio, offre anche un consiglio alle amministrazioni locali: riservarsi di poter rivalutare il compenso alla luce dei nuovi limiti, una volta approvato il D.M. In realtà, le amministrazioni potrebbero già procedere a un incremento dei valori attualmente erogabili sulla base della vigente normativa. Infatti, il decreto del 20 maggio 2005 prevede un adeguamento anche sostanzioso (20% cumulato) per gli enti che dimostrino di aver sostenuto una spesa corrente e per investimenti al di sotto dei limiti indicati. Si tratta di soglie non impossibili, per le quali dunque non è necessario che l'ente sia più che mediamente virtuoso. Certo, si tratta di una facoltà consiliare, non di un automatismo. Almeno, però, ci si avvicinerebbe alle nuove cifre che giungeranno (a breve?) dal Viminale. L'ultimo aspetto da prendere in considerazione è quello dell'eventuale cessazione di uno dei componenti i collegi precari prima della scadenza naturale. Qui il Ministero non può far altro che ribadire l'unica soluzione possibile: l'incarico in sostituzione del membro uscente, che avrà durata pari al residuo mandato del collegio. Una ventina di righe, nel complesso, ma limpide. Tanto che ci si chiede se non sarebbe possibile dirle già prima queste cose, nel testo della legge che, invece, va sempre interpretata (e non sempre con risultati così inequivocabili).

giovedì 8 marzo 2007

Affari di famiglia

Euro sonanti, liquidità senza fine, una montagna di soldi che, per ora solo in punta di teoria, dovrebbe finire nei forzieri del neonato fondo d'investimento gestito per conto dei lavoratori anche degli enti locali, dove confluirebbero le quote delle ritenute INADEL operate sulle retribuzioni. Dopo l'accordo (ancora sotto la veste di ipotesi, ma con linee generali già definite e che dunque difficilmente saranno rimesse in discussione) tra l'ARAN e le confederazioni sindacali, anche il pubblico impiego sembra destinato a avviarsi verso il destino dei lavoratori del settore privato. Il fatto che l'adesione ai fondi sia del tutto facoltativa non muta la sostanza di una rivoluzione che ribalta la certezza finora acquisita dell'indennità di fine rapporto. Nessun fondo, infatti, per quanto prudente, bilanciato e ben gestito, potrà mai garantire la tenuta nel lungo periodo del valore capitale del TFR così destinato. C'è da scommettere che le sirene del gestore si faranno sentire, pressanti. Anche perché, trattandosi di un'impresa finanziaria e dovendo produrre risultati economici, non potrà certo stare ad aspettare che i lavoratori si decidano ad abbandonare la via vecchia per la nuova. La novità del fondo appena creato è che prende in considerazione tutti i lavoratori, di ruolo e non (unico limite la durata minima del rapporto che non può essere inferiore a tre mesi), a tempo pieno e part-time. La platea di potenziali clienti dovrà essere, infatti, la più ampia possibile per garantire l'economicità della gestione e, nel medio periodo, un rendimento decente del capitale investito. E' altamente probabile che siano già state effettuate approfondite analisi sulla percentuale di lavoratori intenzionata ad aderire. Peraltro, di fronte alla certezza dell'incertezza non sottovaluterei la tipica prudenzialità del lavoratore pubblico (se no, per quale altro motivo avrebbero scelto il posto fisso, ma fisso sul serio?). Il rischio dovrebbe essere apprezzabilmente valutato dai lavoratori ai quali ci aspettiamo sia data una informativa congrua in tempi ragionevoli. Informazioni fornite tra l'altro da soggetti pubblici, per non incorrere nel sospetto di interessi confliggenti. Sul versante privato, infatti, circolano sms di società finanziarie che, dietro la copertura della lezioncina sul TFR nei fondi, hanno l'unico obiettivo di proporre il loro portafoglio di prodotti. Per ora, la percezione è di un entusiasmo molto, molto tiepido. Per attizzarlo non basteranno una brochure a colori e qualche slogan ben studiato.

mercoledì 7 marzo 2007

Fuori controllo

Mi piacerebbe mettere in discussione l'inevitabilità dell'associazione Regioni-Autonomie locali che pervade la legislazione nazionale. A partire dal contratto di lavoro, che assimila mele e pere ma non riesce a spiegare perché in Regione possono essere in più di mille e nei comuni bisogna aspettare il pensionamento di cinque dipendenti per assumerne uno. Una delle più sconcertanti verità che ci dividono (comuni e province) dalle Regioni è l'assenza in queste ultime di un collegio di revisione esterno. Sono ormai quasi diciassette anni che i comuni e le amministrazioni provinciali incaricano i professionisti dei principali albi contabili per controllare la loro attività gestionale. Con risultati più o meno brillanti, più o meno discutibili. Con la serietà di alcuni e l'accondiscendenza di altri. Ma con la consapevolezza che una norma come quella introdotta dalla vecchia legge 142 ha cambiato in meglio la percezione dell'ente locale come azienda di erogazione e non più come ente para-assistenziale. Le Regioni, invece, hanno resistito alla tentazione di farsi controllare e hanno beatamente continuato a produrre deficit sempre più abnormi con assoluta impunità (l'eccezione della Campania non fa testo, anzi, perché il collegio è costituito da consiglieri). Oggi, a prendere l'iniziativa per interrompere questa discriminazione è proprio la categoria dei revisori. Da quando la Finanziaria 2007 ha cominciato a incrinare il rapporto con i professionisti, riducendone forzosamente il numero nei comuni sotto i 15.000 abitanti, è tutto un fiorire di proposte per recuperare credibilità e per sostenere una campagna promozionale per impedire l'estinzione del revisore comunale. Non ultima appunto, ma paradossalmente di un'equità straordinaria, quella di avvicinare le Regioni e fare un po' di lobbying per diventare prossimamente i controllori degli sprechi dei governatori. Non nego che alcune argomentazioni abbiano un peso importante e soprattutto abbiano un fondamento serio. Ma hanno tutta l'aria di arrivare nel momento meno favorevole per la categoria e quindi suonano sinistramente di opportunismo. Peraltro il punto sembra essere un altro: perché mai le Regioni dovrebbero volontariamente accettare di sottoporsi a un vaglio esterno, perdendo una prerogativa (la spesa allegra) che politicamente paga in modo sostanzioso (in termini di consenso politico, s'intende). Il lavoro ai fianchi delle associazioni dei revisori deve dunque essere indirizzato al legislatore nazionale che non dovrebbe più ignorare questa lacuna.

martedì 6 marzo 2007

Arecibo

Affogate nel mare di commi che quest'anno navighiamo da fine dicembre, riaffiorano all'occhio più attento le norme apparentemente meno significative, ma che, in fondo, offrono spunti gustosi se non di discussione, almeno di critica polemica. Al comma 474 (che insieme al cugino 475 fa comunella) si insinua una famigerata Commissione tecnica per la finanza pubblica. Dieci piccoli membri che avranno l'ardito compito di: formulare proposte per accelerare l'armonizzazione e il coordinamento della finanza pubblica (tradotto: dare ai bilanci degli enti pubblici una veste uniforme), migliorare la trasparenza dei dati conoscitivi della finanza pubblica (appunto), armonizzare i criteri di classificazione dei bilanci della P.A., elaborare studi preliminari e proposte tecniche per la definizione e il coordinamento della finanza pubblica e dei rapporti finanziari tra Stato ed enti locali e dell'efficacia dei meccanismi di controllo della finanza territoriale, valutare l'affidabilità, la trasparenza e la completezza dell'informazione statistica relativa agli andamenti della finanza pubblica, svolgere ricerche, studi e rilevazioni su richiesta del Parlamento. Francamente troppo per una sporca dozzina. Non sentite forte il profumo della burocrazia che si diffonde per ogni dove? Ci caricano di responsabilità sul versante dello snellimento delle procedure, della riduzione dei costi, della stretta sulle assunzioni. Ci impongono di aumentare alcune aliquote qualora non si rispetti il patto di stabilità. E sono solo le ultime manette in ordine di tempo. E poi, con scioltezza impudica, si decide di istituire un altro organismo, senza dubbio inutile, che partorirà studi pensosi e relazioni fiume, ma che soprattutto succhierà un altro po' di risorse che agli stessi fini potevano eventualmente essere dirottate, tanto per non far nomi, sul ben più sostanzioso ed efficace Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali. Quest'ultimo è indubbiamente la migliore idea partorita dalle parti del Viminale negli ultimi lustri. Ha introdotto un rigore di analisi e di approfondimento fino a ieri sconosciuti nelle vetuste stanze ministeriali. La redazione dei primi principi contabili ha confermato la serietà e la concretezza del lavoro svolto. La proposta di un rinnovato prospetto di conciliazione la prova provata che quel consesso serve davvero. Al contrario, se per dare un parere su come rendere più omogenei i bilanci pubblici è necessario riunire qualche volta l'anno un gruppo di espertoni senza macchia e senza paura, sospetto fortemente che ci troviamo già nuovamente all'anno zero della semplificazione amministrativa.