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mercoledì 31 ottobre 2007

Il colpo della strega

Provare ci hanno provato. Tentar non nuoce, recita un antico e sempre valido motto. Tra l'altro, trattandosi di un parere, neppure si dovevano adeguare, se non fossero stati pienamente soddisfatti. Chi ha presentato alla Corte dei conti dell'Emilia-Romagna la richiesta di cui tra poco dirò, sapeva bene di raccontare un'eresia. Eppure, non ha esitato a mettere su carta il bizzarro e malizioso dubbio, sperando in una distrazione dei giudici. Il quesito pare uscito dalla Settimana Enigmistica (rubrica Vero o Falso). Un responsabile di servizio che sottoscrive contratti per conto del Comune (ad esempio quelli cimiteriali) può beneficiare dei diritti di segreteria (nella misura spettante al segretario dell'ente)? Ora, non mi pare che i magistrati avessero un ventaglio molto ampio di possibili risposte. La questione, sviscerata in tutte le sue sfaccettature nel corso del parere, si pone al di là dell'ovvio, poiché l'esclusiva competenza dei diritti in capo al segretario comunale non può essere ragionevolmente contestata. Allora, la vicenda trova una sua ragione d'essere nell'occasione di poterne ricavare almeno due riflessioni. La prima riguarda la facilità con la quale è possibile fare lavorare la Corte dei conti su problemi che neppure il più scarso dei consulenti prenderebbe sul serio. Perché paradossalmente sono numerosissimi i casi di pareri ritenuti inammissibili, non rispondendo ai criteri fissati tra l'altro da una delibera del 2005 e che si fondano sulla distinzione, non sempre limpidissima, fra disciplina contabile (ammessa) e disciplina amministrativa (esclusa). Purtroppo, contemporaneamente, passano attraverso il fitto setaccio della Corte richieste che non esitiamo a definire ridicole. E che, solo per il fatto di aver superato le qualificazioni, hanno diritto a essere prese in considerazione ed esaminate con dovizia di particolari. Tempo e risorse sprecati, quindi, per inseguire il miraggio della consulenza perfetta, inattaccabile ma, come in questi casi, sterile. Dunque, è forse il caso di ripensare la funzione consultiva della Corte e introdurre un ulteriore criterio selettivo dei quesiti: la serietà. Il secondo pensiero è rivolto alle reali intenzioni di chi sottopone fatue ma subdole questioni all'attenzione della Corte. Che non sono certo quelle di risolvere dubbi, quanto di sperare in uno svarione dei magistrati, sventolando poi l'eventuale comoda risposta come vessillo di correttezza procedurale. Fortunatamente, sotto questo profilo, non meno pericoloso del primo, un vaccino sembra essere già in circolazione. Gli stessi magistrati, consapevoli di questo opportunismo, si sono tutelati rendendo estremamente difficile l'utilizzo improprio delle proprie pronunce, ma non di meno il rischio è pur sempre in agguato. Anche perché i pur autorevoli pareri finiscono per incrociarsi con le interpretazioni ministeriali, innescando un corto circuito i cui benefici stentiamo a riconoscere. E se la Corte si limitasse alla fase di controllo?

martedì 30 ottobre 2007

Regolamento di conti

7 o 22. Sempre di mercoledì si tratta, ma in mezzo, oltre a due settimane esatte, ci sta tutta la differenza del mondo. Non che ai membri dei consigli di amministrazione delle società partecipate, interessati al taglio previsto dalla Finanziaria 2007, possa far caldo o freddo se gli vengono concesse un paio di sedute in più oppure no. La decisione di rendere più striminziti i CdA (tre o cinque al massimo i membri effettivi, secondo l'ammontare del capitale sociale) fa parte della grande partita che si gioca sui costi della politica e chi siamo noi per contestare tali nobili intenti. Ma il termine entro il quale modificare i relativi statuti è ormai diventato oggetto di una tenzone da fare invidia ai tornei medievali. Tutto gira attorno alla natura di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (è con un provvedimento di questo tipo, infatti, che è stato definito il livello di capitale sociale oltre il quale i CdA possono avere cinque componenti): è o non è un regolamento? Se lo è, allora entra in vigore dopo la normale vacatio legis quindicinale. Se no, è vigente lo stesso giorno in cui appare in Gazzetta. Siccome allo scoccare dei tre mesi dall'entrata in vigore del decreto la carrozza dei CdA si trasforma nuovamente in zucca, ecco spiegato il busillis. Già, ma la risposta corretta qual è? Il punto è che sta passando (anche in lidi autorevolissimi) la tesi secondo la quale, per modificare gli statuti generosi e ridurli a più miti consigli, ci sia tempo fino al 22 novembre. La Corte dei conti della Lombardia ha offerto al Comune di Milano un articolato parere sulla più ampia questione determinata dalla cessazione dei consiglieri in esubero e delle conseguenze che ne deriverebbero alla società che li mette in quiescenza. Ne approfitta, però, per segnalare che: "Il decreto è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 7 agosto 2007 e, considerata la sua natura regolamentare, è entrato in vigore il 22 agosto 2007 per cui il termine entro il quale gli statuti delle società devono essere adeguati alla disciplina posta dal citato co. 729, dell’art. 1, della legge finanziaria per il 2007 è quello del 22 novembre 2007." Non si mette neppure per un attimo in discussione il fatto che il decreto non abbia natura regolamentare. Eppure. Imbeccati da un amico che se ne intende (grazie Giuseppe), abbiamo scavato pure noi. Partendo dalla considerazione che i regolamenti sono una fonte del diritto secondaria, si tratta di verificare se l'iter per l'approvazione di un D.P.C.M. è quello di un regolamento governativo (solo questi ultimi infatti sono atti normativi, gli altri restano, più modestamente, atti amministrativi). I regolamenti devono essere approvati dal Consiglio dei Ministri: e fin qui ci siamo. Servirebbe, a questo punto, un parere del Consiglio di Stato. E non mi pare che quest'ultimo sia stato coinvolto. Poi, dovrebbero essere emanati sotto forma di decreti del Presidente, sì, ma della Repubblica. E qui il paragone dovrebbe esaurirsi. Resta, è vero, il passaggio della registrazione alla Corte dei conti, ma a quel punto, la frittata è già fatta. Insomma, ci pare che la Corte sia scivolata su un'insidiosa buccia di banana. Oppure ci è sfuggito qualcosa che avrebbe illuminato il percorso. Urge un chiarimento, prima che ci scoppi la testa.

lunedì 29 ottobre 2007

Troppo rumore per nulla

L'ho lasciato a bollire lentamente per un'intera settimana. Volevo capire se sarebbe evaporato, non lasciando tracce di sè, oppure se avrebbe resistito alla temperatura, sedimentando sul fondo della pentola i suoi detriti. Dopo sette giorni era ancora lì, praticamente intatto: bisognava cucinarlo a fuoco alto. Quell'articolo del Lenzuolo rosa meritava una replica, perché, checché ne dicesse il quotidiano, il quadro normativo è ben chiaro. Ma, sotto sotto, c'è un motivo inconfessabile. Il tema è un vero sempreverde, specie di questi tempi, all'inizio della stagione dei bilanci, quando le risorse sono sempre meno abbondanti davanti alle richieste di affamati assessori. In molti abbiamo approfittato negli anni della possibilità di utilizzare gli oneri di urbanizzazione (passatemi la vecchia dizione, ci sono affezionato) per finanziare una quota di spese correnti dedicate alla manutenzione ordinaria del patrimonio. Quando la percentuale era "solo" del 30%, nessuno si lamentava troppo e in tempi di edificazioni spinte quella fetta di proventi rappresentava un toccasana da prendere senza fare troppo gli schizzinosi. Poi, una legislazione in continuo tellurismo provocò una mezza rivoluzione anche sul versante contabile. Quella percentuale, così, oscillò fino a raggiungere il 100%, aberrazione economica se mai ve ne fu una, ma pur sempre consentita dalla legge (.. sed lex). Oggi, dopo che le ultime due Finanziarie avevano addirittura concesso di finanziare per una debole quota qualsiasi spesa corrente, senza più deroghe siamo di nuovo al punto di partenza. Che non è, come cerca di far passare un po' subdolamente il Lenzuolo dello scorso lunedì, il divieto di utilizzare gli oneri tout-court. Infatti, in assenza di una normativa che fissi dei limiti, resta ancora in vigore l'art. 49, c. 7, L. 27 dicembre 1997, n. 449 (Finanziaria 1998) che testualmente recita: "7. I proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni di cui all'articolo 18 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, e successive modificazioni, e all'articolo 15 della medesima legge, come sostituito ai sensi dell'articolo 2 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, possono essere destinati anche al finanziamento di spese di manutenzione del patrimonio comunale." C'era cascato, ricorderete, anche il Ministero dell'interno, qualche mese fa. E il Lenzuolo l'aveva seguito a ruota. Oggi quest'ultimo ripropone l'identica visione, incurante dell'evidenza (per pudore, si dice, in mezza riga che sono "presenti dubbi interpretativi in proposito", prima di citare l'art. 49). Sulla questione poi, il pezzo si dilunga affrontandola per giro e per verso, senza dimenticar nulla, neppure l'annosa questione se l'entrata sia da considerare corrente o in conto capitale. Però, sopra tutte le considerazioni, emerge il cuore dell'intervento; tutto quel fumo serve a perorare una causa molto poco nobile. Quella dell'utilizzo degli oneri di urbanizzazione per spese correnti senza alcuna differenziazione tra manutenzione del patrimonio e spese di rappresentanza. Non può essere un alibi quello della carenza di risorse, perché in questo caso siamo di fronte a una palese distorsione dell'utilizzo di entrate per loro natura straordinarie. La colpa qui non è del legislatore, che oggi farebbe bene a lasciar le cose come stanno. Speriamo che gli ingordi, alla fine, si agitino per nulla.

venerdì 26 ottobre 2007

Anni ruggenti

Non so se ci avete fatto caso, ma quando si esprime, la Funzione pubblica lo fa come un elefante in cristalleria, usando tutte le accortezze possibili pur di non provocare disastri o, peggio, reazioni scomposte da parte del pubblico al quale si rivolge. Certo, un atteggiamento così guardingo (riscontrabile, se ne avete la pazienza, nell'intera produzione interpretativa del Dipartimento) partorisce documenti normalmente noiosi, la cui lettura si affronta mediamente con scarso piacere, consapevoli che, alla fine, avremo pure appreso qualcosa in più, ma senza fremiti o emozioni di contorno. Nonostante questa minore passionalità, però, credo non si possa proprio sottovalutare la capacità del Dipartimento di chiarire (al contrario di qualche altra vecchia conoscenza, molto meno accorta e dunque decisamente più pericolosa) la portata delle norme giuridiche di riferimento, senza urlare, pacatamente, ma con autorevole fermezza. L'ultimo esempio è quello della stabilizzazione dei precari nella P.A. alla quale la Funzione pubblica ha dedicato, dopo l'entrata in vigore del comma 519 dell'ultima Finanziaria, una importante direttiva e qualche parere a corollario. Non più tardi di due settimane fa, l'UPPA (il braccio operativo del Dipartimento) ha ribadito che le stabilizzazioni possono essere effettuate anche a riguardo di dipendenti che abbiano maturato i tre anni di servizio presso amministrazioni diverse. Questa posizione era stata certificata una prima volta nella direttiva che Nicolais dedicò alla questione nella scorsa primavera, fissando anche un ordine di priorità: "Saranno stabilizzati in primo luogo i dipendenti che hanno maturato il requisito dei tre anni di servizio nella medesima amministrazione. In secondo luogo si procederà per coloro che abbiano raggiunto il predetto requisito presso diverse amministrazioni." Niente di rivoluzionario, intendiamoci. La norma aveva le maglie abbastanza larghe per consentire questo spazio di movimento, perfettamente coerente con lo spirito accomodante che da una disposizione di questo tipo, naturalmente, risulta. Peraltro, farei notare due cose. Innanzitutto, la direttiva citata non si rivolgeva direttamente anche agli enti locali, i quali infatti non apparivano tra i destinatari in indirizzo. Ciò però non ha impedito all'UPPA di rassicurare il comune che chiedeva lumi affermando che, con quella direttiva, il ministero: "comunque, formula dei principi orientativi in materia di stabilizzazione del personale che codesto ente potrà, nel rispetto della propria autonomia, decidere di mutuare (...)". In questo modo, da un lato, si rispettano i confini del proprio mandato d'ufficio (non dire più di quello che le norme giuridiche statuiscono), dall'altro, si evita la pessima abitudine di ergere muri burocratici laddove, invece, se ne può ragionevolmente fare a meno. Secondariamente, con documenti redatti in questo auspicabile modo, si offre al mondo delle autonomie un'immagine di coerenza e di rispetto dei ruoli che sono elementi indispensabili per una limpida ed efficiente P.A. e che, purtroppo, troppo spesso sono messi in un cantuccio da chi, al contrario, pretende di decidere pur non avendone la potestà.

giovedì 25 ottobre 2007

Giro di vite

Le abitudini, si sa, difficilmente si cambiano. Quando, per ragioni di forza maggiore, vi si è costretti, lo si fa sempre a malincuore, covando la segreta speranza che il corso degli eventi possa essere invertito e che ci sia dato modo di ritornare al passato. Non di meno, i saggi accettano il cambiamento, consapevoli che la tutela del bene superiore deve prevalere. C’è qualcuno, invece, che non è neppure sfiorato dal dubbio di essere obbligato a tornare sui suoi passi e che continua imperterrito a scavalcare i confini della propria competenza, noncurante delle conseguenze. Se stavate pensando al Dipartimento per le politiche fiscali, avevate ragione. Sul tema della soggettività passiva ICI nel caso di abitazione coniugale, il Ministero si era pronunciato qualche mese fa, con una risoluzione (la n. 4440 dello scorso 4 aprile), ampiamente controversa ma, come è recente suo costume, categorica nelle conclusioni. E anche un po’ eversiva. Si trattava, ricorderete, di stabilire se il coniuge separato/divorziato al quale il giudice non aveva assegnato la casa coniugale avesse comunque diritto, in quanto proprietario e dunque soggetto passivo ICI, a usufruire delle agevolazioni previste dalla normativa (eventuale aliquota ridotta e maggiore detrazione). Si tratta di una fattispecie che la legge non regola in maniera esplicita, il che determinerebbe immediatamente la negazione di qualsiasi beneficio. Eppure, la vena generosa del Ministero si espresse con vigore affermando che, per introdurre nell’ordinamento una previsione di questa natura, è sufficiente approvare una modifica ‘ad hoc’ del regolamento comunale di gestione dell’imposta, assimilandola a quella (prevista invece dalla norma di legge) che regola le abitazioni “concesse in uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale” chiedendo all’ente di stabilire solamente il grado di parentela entro il quale l’agevolazione si intende applicare. Rendendosi conto di aver fatto il passo ben più lungo della gamba, il DPF cercò in extremis di giustificarsi sostenendo che tale previsione può rientrare nella più ampia potestà regolamentare prevista dall’art. 52, comma 1, dimenticando però che quest’ultimo vieta di introdurre disposizioni regolamentari che disciplinino l’individuazione e la definizione delle fattispecie imponibili e dei soggetti passivi. Neppure il trascorrere dei mesi ha raffreddato i bollenti spiriti ministeriali, che anzi risultano immutati come si può rilevare dalla lettura della più recente risoluzione n. 5/DPF dello scorso 18 ottobre. Si ritorna, nel documento, sulla stessa questione risolvendola con gli stessi argomenti, senza mai ragionare sul fatto che una deroga a una norma non può che essere introdotta da un’altra norma di pari grado. Ma queste bazzecole procedurali non sono, evidentemente, motivo di preoccupazione per gli estensori delle note, i quali, piuttosto, preferiscono chiamare in causa la giurisprudenza della Cassazione che, in almeno un paio di occasioni, ha fornito un suo quadro della situazione, ma guardandosi bene dall’affermare ciò che invece il Ministero divulga con preoccupante faciloneria. Attendendo l’approvazione di una norma che integri l’attuale elenco tassativo di attribuzioni regolamentari o, almeno, un orientamento della giurisprudenza che affronti di petto la vicenda, temiamo gli ulteriori fuochi d’artificio del Ministero, sperando che non ci scoppino fra le mani.

mercoledì 24 ottobre 2007

Chiacchiere e distintivo

Capite bene che ciò che sto per raccontarvi deve rimanere riservato. Qui si vanno a toccare interessi e suscettibilità particolari, da prendere con le pinze. L'argomento è stato affrontato dal Ministero, ma non per questo non dobbiamo usare i guanti. Infatti, ci servono per non lasciare tracce: non si sa mai che ci stiano ascoltando. Nessuna detrazione ICI per gli agenti di polizia, a meno che, come nelle migliori detective story, non forniscano l'alibi che li scagiona. Questo hanno sentenziato dal Dipartimento delle politiche fiscali. Però, anche stavolta, si sono spiegati maluccio. La questione era stata posta dal diretto interessato in modo civile, senza pretendere alcunché. Insomma, tutta la santa settimana gli tocca risiedere in caserma, e mica per scelta: gliel'hanno imposto. L'agente si è adeguato alle disposizioni superiori e nell'unica casa di proprietà, che si trova (ma questo, come vedremo, è irrilevante) in un comune diverso da quello in cui si trova la caserma, ha lasciato la sola dimora: ci abita, insomma. Finisce il turno di notte e se ne ritorna dentro le civili mura domestiche, ben lontano da brande e posti di guardia. Scrupolosamente, conoscendo la lettera della legge, si chiede (e chiede al Ministero) se non sia possibile comunque usufruire della detrazione stabilita dall'art. 8, c. 2 del D.Lgs. n. 504/1992 posto che, dopo le modifiche intervenute con l'ultima Finanziaria, quest'ultimo ora stabilisce la presunzione secondo la quale per abitazione principale si deve intendere quella dove il contribuente ha la residenza anagrafica, "salvo prova contraria". Il DPF, però, non sembra davvero in vena di chiarezza e, come d'abitudine, la prende larga. E pare voler scoraggiare il solerte agente, richiamando, appunto, la presunzione di legge e concludendo, con accondiscendenza infastidita, che la prova contraria la deve fornire lo stesso contribuente. Insomma, il Ministero la mette giù dura. "Alla luce di tali principi, per i soggetti appartenenti alle Forze di Polizia l’unica possibilità per ottenere l’applicazione dell’aliquota ridotta e la detrazione per l’abitazione principale è quella di fornire la prova della dimora abituale nel comune ove è ubicato l’immobile." Sai la difficoltà. Se in caserma il nostro ci lavora soltanto, quali ostacoli potrà incontrare per dimostrare al comune impositore che nella casa di proprietà ci vive davvero? La chiusura, poi, è da teatro d'avanguardia. Pur di non dare soddisfazione all'interpellante, che nel frattempo non ha ben compreso tanta reticenza nel decretare l'ovvia conclusione, il Ministero tira fuori dal cilindro il riferimento a una vecchia norma che stabilisce alcune agevolazioni su IVA e imposta di registro per l'acquisto della prima casa per il quale, per le forze di Polizia e per quelle armate "non è richiesta la condizione della residenza nel comune ove sorge l'unità abitativa". Non c'entra, ma fa sentire in colpa il contribuente che il dubbio se l'era posto. Alla fine, il nostro agente potrà usufruire della tanto sospirata detrazione. Ma che fatica.

martedì 23 ottobre 2007

Azione futurista

Alla guerra come alla guerra, dicono i cugini d'oltralpe. E non hanno mica torto. Quando si tratta di menar fendenti per scacciare chi assale il fortino, nei ministeri non si tirano indietro. Non ultima, ma certamente non meno letale, Linda Lanzillotta che, incurante della marea montante dell'anti-politica, si propone come paladina delle province, specie che qualcuno vorrebbe in via di estinzione, ma che si ostina, quasi offendendo il darwinismo più ortodosso, a sopravvivere, eccome. Non ce l'ho con le province in quanto tali, ma, obiettivamente, schiacciate come sono nel sapido sandwich Regioni-Comuni, fanno la parte della sottiletta, che ci deve essere sempre, anche se nessuno ne sente il sapore. Voglio dire, quali sarebbero le competenze, attualmente rigorosamente provinciali, che non potrebbero essere delegate (in su o in giù) senza che ne risenta la qualità delle comunità amministrate? A me non ne viene in mente nessuna. Tanto più che quando si parla di decentramento, vien da sogghignare pensando alle entrate proprie delle ormai più di cento targhe presenti lungo lo stivale: imposta sulle trascrizioni, imposta sulla RC Auto, addizionale TARSU/TIA, Addizionale ENEL. A parte l'addizionale IRPEF, inutile e oneroso doppione di quello comunale e (guarda caso) regionale, non si trova una traccia consistente di un percorso dritto verso l'indipendenza finanziaria. Il che non significa che, di punto in bianco, le decine di migliaia di dipendenti provinciali debbano restare senza lavoro. Ma gli amministratori, perché no? Gliel'ha forse ordinato il medico? Eliminare un livello di intermediazione favorirebbe senz'altro l'efficienza complessiva della P.A. Sfido chiunque a dimostrare il contrario. Lo stridio di specchi si sente nitido ogni volta che si buttan lì delle giustificazioni per non smantellare (insieme, ovviamente, alle centinaia di altri enti intermedi che più piccoli sono e più costano) le amministrazioni provinciali superflue. Attenzione, tuttavia, a non buttar via, con l'acqua sporca, anche il bambino. Nelle fresche dichiarazioni del Ministro per gli Affari regionali che, sulla questione invita a guardare pilatescamente altrove, sbuca (innocente?) una nuova e sorprendente vittima sacrificale: gli ATO (Ambiti Territoriali Ottimali). Questi organismi deputati a gestire il gran business dell'acqua e dello smaltimento rifiuti non hanno una storia molto lunga. Eppure sarebbero già in età da ospizio. E così, a quanto pare, il Codice dell'Ambiente, che attorno agli ATO ha costruito tutta l'impalcatura del nuovo servizio idrico e della tariffa per la gestione dei rifiuti. In un emendamento alla Finanziaria 2008, starebbe già scritta la parola fine alla breve commedia. Pare siano troppi e, certo, 222 ambiti forse tanto ottimali non sono. Però un conto è redistribuire competenze (come accadrebbe eliminando le province), un altro travasarle improvvisamente in un recipiente senza fondo. Dove sta il trucco, allora. Nel fatto, credo, che gli stessi ATO sono collegati a filo doppio con le amministrazioni provinciali le quali finirebbero per assumere nuovamente un ruolo gestionale centrale. Le poche idee in materia sono ancora troppo confuse per arrivare in breve a risultati concreti ma, questo sì, la sopravvivenza della specie è garantita almeno fino alla prossima glaciazione.

lunedì 22 ottobre 2007

In tre è una folla

Di associazioni che tutelano il buon nome dei revisori contabili se ne conta più d'una. Anche perché di enti da tenere sotto controllo ce n'è a bizzeffe. ANCREL e ANREV, a livello nazionale, si dividono le platee e, forse, gli iscritti. Il repertorio suonato a ogni cambio di stagione, però, è quasi sempre lo stesso. In questi mesi, poi, c'è da combattere la madre di tutte le battaglie: quella contro il revisore unico nei Comuni tra i 5.000 e i 15.000 abitanti. Ricordate benissimo, lo so, la sottile perfidia con la quale la Finanziaria 2007 aveva sottratto a un discreto numero di professionisti l'appannaggio di quegli enti che fino ad allora erano verificati da un collegio trino. La norma fu oggetto di interpretazioni controverse (anche se, fortunatamente e sensatamente, per breve tempo). Il tiro alla fune si giocava tra coloro che ritenevano decaduti da subito i collegi in carica (in un ascesso di furia tagliateste) e i più freddi fautori del 'vivi e lascia scadere' (il mandato), che alla fine (in nome del diritto) prevalsero. Ma quel comma restò lì, immutato, a ricordare che la riduzione dei costi della politica passa anche da una struttura di auditing più snella, laddove è proponibile. Avete mai sentito una corporazione plaudire a una decisione che ne limita i poteri? Nemmeno io. E allora, ad ogni convegno, il ritornello non cambia: ridateci il terzetto. Sullo Struzzo giallo di oggi, tocca ad ANREV l'ennesimo tentativo di farci credere che da soli non ci si riesce proprio a controllare tutto. Che poi, le motivazioni per non lasciare disoccupati i professionisti tagliati, con un piccolo sforzo si trovano. Dalla maggiore responsabilità assegnata ai revisori dalle leggi in vigore (non ultima quella sulle Linee guida da inviare alla Corte dei conti), alla mole di lavoro che, da solo, un controllore non reggerebbe. Ricordo, anni fa, in un collegio a tre, che il Presidente si faceva preparare dall'ufficio ragioneria i verbali in bozza prima della seduta. Così, quando si presentavano per le verifiche, la pappa era già mezza pronta. Insomma, non sono certo i funzionari dell'ente che lesinano in collaborazione. Qui invece, non solo si ribadisce il no secco della categoria, ma si alza addirittura la posta chiedendo un ritocco ai compensi e, tanto per far capire che per i giovani revisori c'è sempre tempo, possibilità di un terzo mandato (non consecutivo, ci mancherebbe). Quindi, per evitare il ridicolo, sarebbe opportuno trovare altri alibi. Difficile, lo so. Tanto più che, con questo oltranzismo che ormai rasenta la cocciutaggine, i revisori non acquistano di certo sostenitori, al di fuori dei loro iscritti. Eppure, basterebbe una sola significativa proposta: chiedere l'approvazione di una norma che assegni alla Corte dei conti il compito di nominare i revisori negli enti locali, in luogo dei Consigli. Un sistema pratico ed efficace per ridurre (se non eliminare tout-court) i sospetti di una sotterranea connivenza tra controllori e controllati. Finora, l'ho sentita pronunciare dal solo Antonino Borghi, voce autorevolissima ma, a quanto pare, isolata. Non sarebbe sufficiente a farci cambiare idea sull'opportunità dei collegi a tre, ma almeno restituirebbe all'intera categoria la dose di carisma che oggi stenta a meritare.

venerdì 19 ottobre 2007

Essere o non essere

I mesi che precedono l'approvazione di una Finanziaria sono, per la stampa specializzata, una vera manna. La messe di emendamenti che inonda le aule parlamentari offre materiale a non finire per i nostri fogli preferiti che si beano di questa abbondanza e sperano che fino a dicembre Camera e Senato si rimpallino il testo, infinitamente modificato. Resta così poco spazio per commentare e analizzare atti e provvedimenti vigenti sul serio. Ma, alle volte, non è davvero un male. Prendiamo ad esempio la recente risoluzione n. 274/E, sui rapporti tra IRAP e compensi agli amministratori. Ma davvero a qualcuno era sorto il dubbio che l'ente locale non dovesse calcolare e versare l'imposta per gettoni e indennità a favore di amministratori professionisti. Il polverone alzato dalla risoluzione nasce dal seguente interpello: "In particolare, dato che i comuni sugli importi determinati con decreto ministeriale sono tenuti al versamento dell'IRAP, che per i dipendenti è a carico del datore di lavoro, il ministero istante ha chiesto se anche per le indennità in questione, assimilate ai redditi di lavoro dipendente, gli importi già stabiliti con decreto ministeriale debbano intendersi comprensivi della quota da versare a titolo d'IRAP." L'arzigogolata risposta del Ministero giunge a una conclusione limpida, ma, lasciatemelo dire, banale: l'IRAP è a carico dell'ente erogante perché così prescrive la norma. Infatti, in questo caso, non è necessario lanciarsi in ardite interpretazioni di commi controversi. Il Comune è soggetto passivo? Sì, come indicato dall'art. 3, c. 1, lett. e-bis) del D.Lgs. n. 446/1997. La base imponibile è rappresentata dalle "retribuzioni erogate al personale dipendente, dei redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente di cui all'articolo 47 (oggi art. 50 NdR) del testo unico delle imposte sui redditi, (...) e dei compensi erogati per collaborazione coordinata e continuativa di cui all'articolo 49, comma 2, lettera a), nonché per attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente di cui all'articolo 81, comma 1, lettera l), del citato testo unico"? Sì, è l'esplicito dettato dell'art. 10-bis, c. 1, D.Lgs. n. 446/1997. I compensi corrisposti ai membri di Giunta e Consiglio sono assimilabili a redditi di lavoro dipendente? Sì, come previsto dall'art. 50, c. 1, lett. g), D.P.R. 917/1986 "g) (...) le indennità, comunque denominate, percepite per le cariche elettive e per le funzioni di cui agli articoli 114 e 135 della Costituzione". Allora il dubbio dove starebbe? Nel fatto che, a qualcuno, è venuto in mente di associare tali compensi alla lettera f) del comma appena citato, laddove si parla di "indennità, i gettoni di presenza e gli altri compensi corrisposti dallo Stato, dalle regioni, dalle province e dai comuni per l'esercizio di pubbliche funzioni.", che sarebbero esclusi dalla base imponibile se "rese da soggetti che esercitano un'arte o professione." Ma è un'ipotesi del tutto fuorviante perché l'art. 114 della Costituzione, guarda caso, riguarda proprio i comuni, le province e le altre autonomie locali. Così, addirittura, lo Struzzo giallo di oggi propone un pezzo che si dichiara "finalizzato a portare un po' di chiarezza sulle incertezze generate nei giorni successivi alla diffusione della risoluzione n. 274/E da alcune interpretazioni discutibili apparse in dottrina sull'argomento." Ma la norma è limpida e la risoluzione lo ha certificato: di cosa si dovrebbe discutere, allora? C'è tanta aria fritta in giro da riscaldare il Polo nord.

Lenti a contatto

Sullo Struzzo giallo di oggi, mi sembra di essere incappato in una svista di Anutel. Ci si riferisce alla già discussa assenza nel ddl Finanziaria 2008 di una proroga per la gestione della TARSU, in attesa dell'entrata in vigore del nuovo sistema. Nella breve nota a pagina 49, si smentisce che tale dilazione sia necessaria perché la stessa norma che istituisce il nuovo sistema di prelievo prevede che "continuano ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti" sino all'emanazione del regolamento attuativo della nuova tariffa per la gestione dei rifiuti. Da ciò l'autore deduce che: "i regolamenti vigenti alla data di entrata in vigore del decreto ambientale (29/4/2006) continuano ad avere applicazione fino all'approvazione del regolamento per la disciplina della nuova tariffa (...)". Sbaglio, o stiamo parlando di due regolamenti completamente diversi? Il Codice dell'Ambiente, infatti, per 'discipline regolamentari vigenti' non può intendere quelle dei regolamenti comunali relativi alla gestione del singolo tributo, bensì quelle (approvate con il D.P.R. n. 158/1999) derivanti dall'applicazione della TIA e, fino alla conclusione del regime transitorio, della TARSU. Quest'ultimo, senza ulteriori norme sospensive, si chiude definitivamente con il 31 dicembre 2007. Ho avuto le traveggole?

giovedì 18 ottobre 2007

Sei mesi di solitudine

Il tempo passa inesorabile. Anche più velocemente, quando si attende un provvedimento che i più avveduti hanno, in mesi non sospetti, definito fondativo. Eppure, nemmeno uno spiffero dalla stampa sempre attenta a segnalare i raffreddori dei sottosegretari. Segno che, non soltanto della nuova Commissione tecnica per la finanza pubblica non vi è traccia neppure nei resoconti stenografati delle consulte parlamentari, ma nemmeno c'è l'idea su cosa debba essere e, soprattutto, se debba davvero nascere. La delusione ha più il sapore della disillusione, perché scopo dichiarato di quel nuovo organismo era l'attuazione di un pacchetto sostanzioso di iniziative. Ne ricordiamo, a memoria, qualcuna: accelerare l'armonizzazione e il coordinamento della finanza pubblica (tradotto: dare ai bilanci degli enti pubblici una veste uniforme), migliorare la trasparenza dei dati conoscitivi della finanza pubblica (appunto), armonizzare i criteri di classificazione dei bilanci della P.A., elaborare studi preliminari e proposte tecniche per la definizione e il coordinamento della finanza pubblica e dei rapporti finanziari tra Stato ed enti locali e dell'efficacia dei meccanismi di controllo della finanza territoriale, valutare l'affidabilità, la trasparenza e la completezza dell'informazione statistica relativa agli andamenti della finanza pubblica, svolgere ricerche, studi e rilevazioni su richiesta del Parlamento. E c'è davvero da rabbrividire. In tempi di enti inutili e da sopprimere, ci vuole un coraggio da leoni a proporne di nuovi e con obiettivi così ambiziosi, poi. E probabilmente sta qui il punto. Caricato di un fardello erculeo, il gruppo di lavoro (posto che si sia mai riunito) si è defilato di gran carriera, lasciando sul terreno la solita quantità di buone intenzioni. Eppure, a setacciare i traguardi che la Commissione avrebbe dovuto raggiungere, ce n'è uno che non sembra la solita minestra riscaldata di paroloni in libertà. Definire i criteri di classificazione dei bilanci pubblici è, seriamente, una necessità più che un bel proponimento. Oggi, a parlare di bilanci consolidati viene da ridere (o da piangere), vedendo come sia praticamente impossibile capire chi è debitore/creditore di chi. E la responsabilità cade tutta su chi non ha ancora voluto introdurre definitivamente la contabilità economica nelle autonomie locali. Non insieme alla, ma in sostituzione della contabilità finanziaria, obsoleta persino alle Far Oer. Mentre gli enti si affannano nel compilare l'inutile prospetto di conciliazione, utile a produrre conti economici e stati patrimoniali informativi quanto una velina da Montecitorio, nessuno si preoccupa di offrire davvero un nuovo inizio agli uffici ragioneria. Anzi, no, qualcuno c'è: il genio che ha proposto la contabilità ambientale obbligatoria. Peccato che abbia cominciato dalla fine.

mercoledì 17 ottobre 2007

Febbre alta

Tira un’aria pesantissima dalle parti del settore informatico del Comune di Milano. Dopo che la procura della Repubblica è entrata con veemenza nel beato mondo della protezione informatica del capoluogo, ci si comincia a chiedere se mai potrà nascere davvero un unico sistema che metta in condizione l’intera penisola di comunicare e trasmettere dati da una pubblica amministrazione all’altra. Pare infatti che un impegno di circa un milione di euro (all’anno) per l’acquisto di software antivirus per la tutela di centinaia di postazioni municipali, dopo essere stato regolarmente onorato dal fornitore, ma anche dal cliente, che ha pagato con puntualità le relative fatture, sia rimasto inutilizzato, nei cassetti di qualche funzionario indolente. Nessuno si è preoccupato di installare gli applicativi, tutti probabilmente ancora incellofanati. Sicché, al primo serio attacco di qualche hacker autoctono, si è prodotto il classico bailamme di dati cancellati oppure arbitrariamente modificati. Stanno cadendo parecchie teste nel frattempo, e neppure di second’ordine. Di ognuna si può dire tutto tranne che si sia trattato di una svista, anche perché l’ordine di acquisto non è certo stato calato da un’entità sconosciuta. Il macroscopico scivolone, giustamente piazzato sotto i riflettori della stampa famelica di gettar fango sul settore pubblico, stavolta potrebbe davvero creare un danno indiretto difficilmente riparabile. Ci si arrabatta ogni giorno, nelle realtà più modeste della provincia tricolore, per utilizzare le poche risorse informatiche assegnate. E soprattutto dove non è concepibile istituire dei veri e propri CED (sostanzialmente nel 90% dei casi), il lavoro di chi si improvvisa amministratore di server è pressoché invisibile. Dando per scontate (da parte degli amministratori nel senso di politici) competenze probabilmente autodidatte, ma autenticamente appassionate e perciò mediamente disinteressate (benché un riconoscimento almeno per lo spirito di iniziativa se lo meritino). Eppure, in tutti questi enti, i misconosciuti campioni del silicio nostrano hanno trovato più di un sistema (legale) per ovviare agli inconvenienti del microterrorismo da pc. Non è infatti un mistero per alcuno che sono reperibili, senza dover spendere un euro, ottimi software antivirus che forniscono una barriera magari non sofisticatissima, ma assolutamente sufficiente a filtrare i più comuni tecno-bacilli. E dunque, se ogni anno si spreca il milione fatidico in quel modo, il vulnus prodotto è almeno triplice. Se la magistratura ordinaria farà il suo corso, dopo aver correttamente accertato responsabilità per violazione della normativa sulla privacy, conseguenza dei cyber-lucchetti scardinati senza fatica, e quella contabile chiederà conto di quegli applicativi lasciati lì a prender polvere, a qualcuno verrà pure in mente di verificare perché, a monte, si deve passare sempre per la strada più onerosa, senza neppure buttar l’occhio su un mondo, quello del freeware e dello shareware, pieno di belle sorprese, per un occhio appena curioso. Un puro ragionamento di efficienza economica, niente più.

martedì 16 ottobre 2007

Arte contemporanea

Quindici minuti di notorietà non si negano a nessuno. Specie se passano attraverso uno schermo televisivo. Se poi il diretto interessato ne ricava solo pubblicità negativa, poco male. Il vecchio adagio, infatti, recitava: “Purché se ne parli”. Oggi, sotto i ‘malevoli’ riflettori del giornalismo d’inchiesta, ultimo baluardo del controllo pubblico sulle prepotenze dei più furbi, sono finiti i prodotti finanziari derivati, nati dalla fantasia dei maghi di Wall Street con l’obiettivo preciso di alimentare l’industria dei prestiti a buon mercato, consentendo agli operatori di incassare prima (la differenza fra i tassi) e pagare, forse, il più tardi possibile il debito residuo. E insieme ad essi, troviamo sullo stesso banco degli imputati le autonomie locali che vi hanno fatto ricorso negli ultimi anni per rinegoziare un indebitamento troppo alto e troppo caro, sfruttando il temporaneo calo dei tassi di interesse, e spostando sempre più lontano la data di estinzione dei mutui. E’ inutile dire che ad approfittarne in modo massiccio sono state soprattutto le amministrazioni regionali che, causa i deficit giganteschi prodotti in particolare dalla gestione della sanità, si sono trovate per le mani un giocattolino allettante che proponeva il vantaggio collaterale delle somme versate up-front dagli istituti di credito. Il meccanismo dello swap è in teoria piuttosto semplice: gli interessi (quasi sempre a tasso fisso) che si devono versare, ad esempio, alla Cassa DD.PP. se li accolla l’istituto di credito, al quale, come contropartita, si pagheranno interessi sullo stesso capitale ma a un tasso variabile più conveniente. Il giochetto, va da sè, è vantaggioso nel breve periodo e tanto più se l’allungamento della vita media del debito è procrastinato quanto più possibile. Le banche che spingono per stipulare queste tipologie di contratti si coprono a loro volta distribuendo il rischio su altri operatori (e qui si apre il fronte affatto diverso dell’instabilità complessiva di un sistema fondato sull’azzardo). Gli enti locali, forti di un’autorizzazione sancita da norme giuridiche, non dimentichiamolo, ne hanno approfittato sapendo perfettamente che il vantaggio a breve non sarebbe mai stato superiore al costo rappresentato in prospettiva dal prolungamento della durata media dei contratti di mutuo esistenti. Ma cosa sarà mai trasferire alle prossime generazioni il peso di un debito contratto quando non erano neppure nati? Qualche rata in più e lo spettro del default si allontana. Peccato che oltre i libri di testo, c'è una pratica molto più spinosa. Pensiamo, infatti, alla più classica delle leggi economiche: la vita media di un bene non può essere inferiore a quella del debito contratto per acquistarlo. Poiché la rinegoziazione di prestiti è proposta dagli istituti di credito per importi superiori ai due milioni di euro (altrimenti spalmare il nuovo rischio su altri operatori sarebbe improponibile), le probabilità che l'aurea regoletta sia rispettata non sono altissime. Purtroppo però è su questo parametro che bisognerebbe ragionare per giudicare la qualità del debito di un comune, lasciando perdere Finch e i suoi soppravvalutati rating. Un adeguato sondaggio sul rispetto di questo principio da buon padre di famiglia farebbe, credo, emergere un numero importante di situazioni sospette e allora sì, dire peste e corna dei derivati avrebbe una ragione. Nella canea indistinta dell’antipolitica, però, restano inascoltate le istanze di buon senso che la finanza locale, talvolta, sa mettere in campo.

lunedì 15 ottobre 2007

La parola ai giurati

E’ cassazione’ si diceva una volta, a sottolineare un argomento definitivo, che non ammetteva repliche o dubbi. All’autorevolezza della magistratura (di qualsiasi giurisdizione si trattasse) si rendeva merito, introducendola addirittura nel vocabolario comune, e riaffermando un certo timore reverenziale che oggi, al contrario, fa meno presa, annacquato com’è da protagonismi da talk-show e dalle mille contraddizioni del sistema giudiziario. Ci si mette, poi, il potere subdolo delle categorie professionali a rendere ancora più arduo un eventuale ritorno in auge del carisma togato. Prendiamo, ad esempio, la sentenza con la quale il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di un segretario comunale, al quale l’amministrazione aveva contestato l’assenza dal servizio, che riteneva corretto non dover certificare la propria presenza in ufficio tramite timbratura poiché, nei comuni di minori dimensioni, segretario equivale a dirigente e dunque esonero dall’uso del cartellino. Palazzo Spada non ha accolto questa tesi e, in poche righe, ha smontato la difesa del funzionario sostenendo che, a contrario di quanto dedotto, neppure il segretario deve ritenersi esonerato dall’obbligo di segnalare che è entrato in servizio, ‘come tutti i dipendenti’. La citazione di due note del Viminale del 1994 a supporto di questa tesi, è in realtà solo ad ulteriore conforto di una posizione mai così chiara. Non risulta, infatti, che i dirigenti comunali siano esonerati dalla timbratura. Il fatto che, in quanto dirigenti, possano distribuire il loro orario di lavoro con maggiore elasticità (essendo vincolati ad un’obbligazione di risultato), non li esime peraltro dal controllo del rispetto dell’orario di servizio (una vecchia circolare della Funzione pubblica – 24 febbraio 1995 - si spingeva un po’ più in là e sosteneva che l’osservanza dell’orario di lavoro “costituisce un obbligo dei dipendenti pubblici, anche del personale con qualifica dirigenziale, quale elemento essenziale della prestazione retribuita della Pubblica Amministrazione.” Questa affermazione di principio, che richiama più le regole del buon senso che non quelle della stretta prassi amministrativa, non è stata affatto apprezzata dalle parti dell’Agenzia dei segretari. Pare, insomma, che il badge magnetico produca in certi ambienti allergie mica da ridere. I lacciuoli rappresentati da questa pratica così invisa ai notai comunali rammentano molto da vicino il concetto di ‘mano invisibile’ caro ad Adam Smith, il quale non perdeva occasione di ricordare che era giusto non mettere vincoli al droghiere sotto casa nella gestione del suo negozio, perché, nel lungo periodo, i suoi interessi personali sarebbero coincisi con quelli collettivi. Con la differenza che questa libertà di movimento, secondo Smith, valeva per ogni categoria economica. Qui, invece, si vuol far credere che la corsia preferenziale non è semplicemente un privilegio ma l’esito di un’evoluzione normativa (c’è addirittura un contratto nazionale a dirlo a voce alta), giustificando il mantenimento di una cattiva abitudine a priori, indipendentemente da qualsiasi giudizio sul merito e sull'opportunità. L’ostinazione a essere trattati come mosche bianche della pubblica amministrazione è manifestamente anacronistica. Non vi sono ragioni logiche (e neppure di efficienza economica) che giustifichino per i segretari, oggi come ieri, un trattamento differente da ogni altro lavoratore della P.A. A meno che questi pruriti non nascondano altre, e meno nobili, motivazioni. Ma, dicono, a pensar male si fa peccato.

venerdì 12 ottobre 2007

Delitto perfetto

Quando ci vuole, ci vuole. Lo Struzzo giallo ha risolto con abilità romanzesca un caso apparentemente impossibile: il mistero della tassa scomparsa. E i complimenti non sono ironici. D'altronde, il colpevole non è mai stato un mostro di destrezza e, in questo frangente ancor più palesemente, è scivolato sulla più classica delle bucce di banana. La sequenza logica è ben nota. La TARSU è sopravvissuta insieme alla TIA fino ad oggi, per effetto di innumerevoli proroghe che hanno salvato i comuni di minori dimensioni proprio alla vigilia dell'approvazione dei bilanci di previsione. L'anno scorso fu proprio la Finanziaria a chiudere la stagione dei rinvii, bloccando con discutibile ma irremovibile fermezza qualsiasi passaggio da tassa a tariffa per il 2007, ma lasciando immutata la tempistica del periodo transitorio, a quel punto destinato a chiudersi, per tutti, il 31 dicembre 2007. Questo vuoto, in realtà, era il frutto della convinzione che nel corso di quest'anno sarebbe stato finalmente emanato il regolamento (previsto dal Codice dell'Ambiente) che avrebbe introdotto la nuova tariffa di gestione, ancora in gestazione eppure ammantata da un lungo velo di segretezza. La fiducia in un rapido evolversi della situazione fu, senza sorpresa, ancora una volta mal riposta. Ad oggi, di quel regolamento, non v'è traccia. Purtroppo, nè il decreto collegato alla Finanziaria 2008, nè il disegno di legge vero e proprio recano traccia di un'ulteriore simmetrica sospensione per il prossimo anno dei passaggi tra un tributo e l'altro. Siccome, talvolta, il livello comunicativo tra ministeri e, all'interno dei dicasteri, tra dipartimenti è ancora allo stadio del telefono senza fili, non è giunta a tempo l'informazione che avrebbe evitato il panico di queste ore: la dipartita, dopo lunga agonia, della TARSU. E, com'è ovvio dalla lettura letterale delle restanti norme vigenti, il corrispondente arrivo di un tributo, la TIA, già condannato all'estinzione. Il fatto, poi, che questa catena di eventi si produrrebbe in un numero importante di enti locali non fa che ribadire la pericolosità di un corto circuito normativo così irrisolto. Quest'ultima constatazione, triste conseguenza dell'indolenza legislativa, se non corretta per tempo (e a dire il vero basta talmente poco che qualcuno avrà magari già provveduto a rettificare il ddl) rischierebbe di trasformare un passaggio epocale in una farsa. Ricordate come il dipartimento politiche fiscali si espose nello scorso marzo sostenendo che la sospensione introdotta per il 2007 "è da ricercare nella volontà del legislatore che, nelle more della completa attuazione delle disposizioni recate dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante il Codice ambientale, ha inteso evitare qualsiasi modifica del regime adottato dall’ente locale al fine di impedire l’insorgenza di ulteriori incertezze applicative"? Peccato che questo fideistico attaccamento alla 'volontà del legislatore' manchi dell'unica prova a discarico: un emendamento fotocopia per il 2008 che impedisca il sorgere della ridicola contraddizione. Anche arrivasse domattina, comunque, sarebbe già tardi per salvare la faccia.

giovedì 11 ottobre 2007

Sotto il tetto che scotta

So bene che a toccare certi tasti si può ferire la suscettibilità di parecchi. E però la tentazione di fare le pulci alle regole fissate dal Garante della privacy per l’accesso dei comuni alle banche dati fiscali è troppo forte. L’opportunità è, effettivamente, ghiotta: agli enti locali è consentito collaborare con l’Agenzia delle entrate per scovare possibili sacche di evasione tributaria, ottenendo in cambio una sostanziosa percentuale pari al 30% dei maggiori tributi riscossi dall’erario a titolo definitivo.
Lasciamo per ora perdere quest’ultimo punto; nel senso che, facendo due rapidi conti sui tempi medi della riscossione, fra ricorsi, appelli e Cassazione, c’è il rischio che, prima di introitare quanto pattuito, il Comune, nel frattempo, abbia cambiato Sindaco. Solo Pangloss credeva di vivere nel migliore dei mondi possibili, dunque, facciamo un voto di fiducia e passiamo oltre.
Siccome tutto nasce da un’iniziativa di legge ormai vecchia di un paio d’anni, era ora che le modalità pratiche per gestire questa insidiosa forma di collaborazione fossero specificate. Mancava, appunto, il sigillo del Garante perché, qui bisogna dirlo fuor dei denti, le sabbie dei dati personali sono parecchio mobili. In particolare, le Entrate sono in grado di rendere disponibili ai comuni richiedenti: i movimenti bancari e postali relativi a particolari operazioni, i contratti di utenza nonché quelli di locazione immobiliare e le denunce di successione.
Sarà utilizzato il già notissimo sistema Siatel, coltellino svizzero dai molteplici usi e dall’affidabilità collaudata. Per accedere ai diversi livelli di Siatel è necessaria una forma di autenticazione degli utenti ordinaria: un nome utente (il suo codice fiscale, obbligatoriamente) e una password da cambiare frequentemente per non doversi registrare nuovamente previa autorizzazione dell’Amministratore (tipicamente un responsabile di servizio).
E il Garante, su questa base comune, ha lavorato di cesello, preoccupandosi soprattutto di tutelare il buon nome dell’Agenzia e confidando che quest’ultima passi sì le informazioni ai Comuni ma assicurandosi bene di “irrobustire la procedura di autenticazione tramite l’adozione di componenti non riservate delle credenziali non facilmente riconducibili a soggetti legittimamente incaricati (…)”. Tutto chiaro, ovviamente. Ci dicono, intelligentemente, che utilizzare il codice fiscale è rischioso e che la password di Paolo Rossi non può essere “paolorossi”.
Non solo. Chi intende accedere alle informazioni lo può fare solo dalle postazioni preventivamente autorizzate e certamente non dal proprio computer casalingo.
Eppure questo non basta. Evidentemente convinti che nei comuni si annidi una succursale di Dagospia, gli uomini del Garante chiedono che siano adottati profili di autorizzazione “anche basata su caratteristiche biometriche”.
D’accordo che la torta da affettare è consistente, ma qui sembra di stare ai varchi d’ingresso negli Stati Uniti, dove ormai passano in fretta solo gli americani.
E allora, mi torna in mente un episodio che, non più tardi di un anno fa, fu ben megafonato da stampa e tv. Alcune talpe avevano consultato avidamente gli archivi fiscali per curiosare nelle cartelle personali di qualche VIP. Ma, se la memoria non mi inganna, non erano impiegati comunali.

mercoledì 10 ottobre 2007

Una scommessa perduta

Già è risultata meno popolare della febbre gialla, se poi, quando la si vuole applicare, ci si mette pure il Ministero a bloccare qualsiasi iniziativa, siamo davvero al colmo. Avrete certamente compreso che il tema di oggi è l’imposta di scopo, misterioso oggetto tributario che solo una manciata di enti ha scelto coraggiosamente di introdurre nel proprio ordinamento.
La temerarietà sta soprattutto nell’impegno a realizzare l’opera individuata in tempi ragionevoli, ben sapendo che, in caso contrario, i contribuenti faranno immediatamente la fila agli sportelli per chiedere la restituzione del surplus maldestramente inutilizzato. Ma i volontari che hanno deciso di sottoporsi al rischioso esperimento intendono andare fino in fondo.
A questo proposito, infatti, un ente si è rivolto al Ministero chiedendo lumi sull’applicabilità del tributo per finanziare l’acquisto di un’area da adibire a verde al fine di (testuale): “porre l’area medesima al servizio della città.” Espressione vaga, quest’ultima, che presupporrebbe un’ulteriore analisi delle reali intenzioni dell’amministrazione ma che, invece, è stata sufficiente ai funzionari del DPF per negare in modo deciso che l’imposta di scopo possa risultare utile a quel fine pubblico.
Il Ministero (che risponde con risoluzione n. 3/DPF/2007) parte dalla elencazione (tassativa, in verità) che la norma istitutiva fa delle possibili opere finanziabili e, dopo aver verificato che l’acquisizione di un’area non è compresa nella lista, andando per esclusione, elimina l’unica (secondo lui) altra possibile variante: la risistemazione per parchi e giardini.
Ammesso e non concesso che a questa conclusione si debba arrivare comunque, vorrei partire da un’altra considerazione. La definizione più neutra e oggettiva di ‘opera pubblica’ è quella ricavabile dalla dottrina prevalente che si può riassumere come segue: “opera eseguita da un ente pubblico, di carattere immobiliare, destinata al conseguimento di un pubblico interesse.
Quel ‘carattere immobiliare’ fa presumere un manufatto, una costruzione a cura dell’uomo. Ne sarebbe esclusa, allora, la semplice acquisizione di un’area. Ma se l’acquisizione (che, peraltro, ha per oggetto un’entità immobiliare) fosse propedeutica alla realizzazione di qualcos’altro? Ipotizziamo, ad esempio, che quel terreno debba essere adibito in un momento successivo a parco o giardino pubblico. A quel punto non si potrebbe più escludere che si tratta di un’opera pubblica, tanto più che la stessa legge considera finanziabile, come si è visto, la risistemazione di parchi e giardini.
La Cassa DD.PP. S.p.a., poi, nel caso di opere pubbliche, afferma che: “sono finanziabili tutte le spese che concorrono a determinare il costo dell'opera, purché le stesse risultino previste nel quadro economico progettuale (originario o aggiornato), che non siano esplicitamente escluse da norme e che non abbiano natura risarcitoria.”, comprendendo dunque l’onere di eventuali acquisizioni di aree. L’obiezione relativa alla tipologia della spesa sembrerebbe dunque superabile.
Resta tuttavia l’ostacolo più difficile, rappresentato da un elenco di fattispecie che pare non ammettere eccezioni. A meno che, con una forzatura che di certo non piacerebbe al Ministero ma che proviamo a sostenere, la situazione riportata dall’ente interpellante non sia fatta rientrare nell’ipotesi indicata alla lettera h) del comma 147, e cioè: “opere relative a nuovi spazi per eventi e attività culturali, (...).
Se si concede che per ‘spazio’ si possa intendere un luogo non necessariamente rappresentato da un edificio (per concerti o manifestazioni all’aperto, ad esempio), il caso potrebbe essere riaperto da un volonteroso detective.

martedì 9 ottobre 2007

Rapporto di minoranza

Il doppio binario su cui corre da tempo la pubblicistica sugli enti locali si può descrivere così: da un lato coloro che auspicano rapidamente un’autonomia spinta, soprattutto in campo tributario, ritenendo fondamentale una gestione decentrata delle risorse per migliorare l’efficienza dell’azione amministrativa. Dall’altro lato, invece, stanno coloro che, al solo sentir pronunciare il binomio ‘tasse locali’, alzano le barricate e chiedono a gran voce il loro azzeramento, in un sistema già colmo di balzelli.
Curiosamente, questa differenza di metodo è spesso propugnata dalle stesse persone, in un balletto di idee schizofrenico, secondo l’umore del momento e, soprattutto, secondo il fine perseguito. Così, quando qualcuno osa introdurre nel ragionamento la questione del Catasto ai comuni, le contraddizioni emergono più forti che mai e la tensione si taglia con il coltello.
Il trasferimento di funzioni così complesse come quelle catastali era nell’aria da molto tempo e, finalmente, il legislatore ha dato compimento a una riforma che ha un solo vero obiettivo: snellire le procedure e aggiornare in tempo reale una banca dati per troppo tempo lasciata al proprio obsoleto destino. Eppure, per qualcuno, il vero motivo sottostante deve essere un altro: tartassare il contribuente.
Su LiberoMercato leggo un intervento a firma di Piergiorgio Liberati che sembra uscire dritto dritto da un romanzo di fantascienza. Non potendo costruire un ragionamento basato su fatti dimostrabili, l’autore si lancia nel più classico dei processi alle intenzioni e come anticipando un futuro crimine, arresta preventivamente il presunto colpevole. La gestione autonoma delle pratiche catastali sarebbe un facile metodo, secondo questa linea di ragionamento, per rivalutare a totale discrezione dei comuni le rendite immobiliari, facendo fare al gettito ICI un’impennata epocale. L’occasione fa l’ente ladro, insomma. E le casse comunali sono già pronte.
Cito dal pezzo: “Per Confedilizia la data del primo novembre segnerà, (...) «l'inizio della "grande abbuffata"»”. Che è un po’ come Vissani che dà i voti alla Simmenthal.
Stranamente, a nessuno viene in mente che il valore catastale non è attribuito a capocchia, ma utilizzando procedure che ne dovrebbero garantire la compatibilità con i corrispondenti valori di mercato. Applicando il metodo DOCFA, però, difficilmente otterremmo davvero il prezzo pagato dall’acquirente dell’immobile, considerata l’età media delle rendite attualmente vigenti. Un adeguamento dei valori a un livello più vicino a quello commerciale non può essere ritenuto scandaloso, soprattutto quando è ben nota la prassi di stipulare atti notarili per valori manifestamente inferiori alla reale transazione, al fine di evadere non solo l’ICI ma anche l’imposta di registro.
Che la si pianti allora di gridare al lupo ogni volta che si aggiunge un pezzo di autonomia alla fiscalità degli enti locali e si eserciti, invece e opportunamente, un migliore e più approfondito controllo su come essa è applicata, per verificarne l'equità e la legittimità.
E se proprio vogliamo parlare di numeri, la percentuale di enti che si sono già messi in fila per partecipare al gran banchetto delle rendite è del 7,7%. Di che preoccuparsi, davvero.

lunedì 8 ottobre 2007

Hit parade

L’abbiamo scampata per il rotto della cuffia. Ma è un sollievo temporaneo. Dalla prossima primavera, anche gli enti locali dovranno compilare e trasmettere per via telematica all’Agenzia delle Entrate l’elenco clienti e fornitori ai fini IVA. Si tratta, per quest’anno, di un indubbio favore, generato dall’interpretazione amichevole della normativa fornita dalla stessa Agenzia con la circolare n. 53/E dello scorso 3 ottobre.
Testo nel quale si legge: “Inoltre, lo spirito della norma e il suo intento ultimo consente di affermare che destinatari dell’esonero in disamina, per l’anno 2006, sono tutti gli esercenti attività economiche e professionali non obbligati alla tenuta della contabilità ordinaria ai fini delle imposte dirette (ossia, ad esempio, anche i produttori agricoli che non producono reddito d’impresa, ovvero gli enti non soggetti ad IRES, quali lo Stato, le regioni, le province, i comuni e gli altri organismi di diritto pubblico).
Il richiamo allo spirito della norma e al suo intento ultimo farebbero pensare a chissà quali principi del diritto naturale. Più modestamente, si tratta di un ulteriore esempio di ‘normativa per eccezione’: la regola è lì, bella e pronta, valida erga omnes. I destinatari, invece, diminuiscono giorno dopo giorno, dopo aver verificato che, per qualche motivo, non possono proprio adempiere per tempo.
Che la compilazione degli elenchi sia onerosa (per usare un eufemismo) non c’è bisogno di scomodare il signor Stakanov per osservarlo. Ciascuna scheda cliente o fornitore contiene una serie dettagliata di elementi che necessitano più di una verifica prima di poter essere inviati serenamente all’Agenzia. Dunque, lungi da me l’idea di lamentarmi per lo scampato pericolo. Quello che invece mi sembra evidente, e del quale continuo a dolermi, è che il favoritismo per l’ente locale si sviluppa a tempo determinato, quasi a riconoscere che, sì, le difficoltà ci sono e meritano un rinvio, ma senza pretendere l’esenzione a vita. Sfugge, cioè, il senso di questi eterni rinvii: la norma che prevedeva nuovamente l’invio degli elenchi è in vigore da un pezzo, dunque anche il primo esonero non è realmente giustificato da esigenze reali. Allora perché un anno no e l’altro si?
Se si analizza l’elenco dei soggetti esonerati comunque (quest’anno e i successivi), si scopre che trattasi di enti che svolgono attività non a scopo di lucro o che (in quanto contribuenti minimi ai sensi dell’art. 32-bis, D.P.R. n. 633/1972) hanno un volume d’affare manifestamente esiguo. In questi casi, la compilazione degli elenchi risulta eccessivamente onerosa e allo stesso tempo irrilevante per gli obiettivi informativi dichiarati dalla norma.
Anche gli enti locali risultano esonerati sine die, ma solo per le attività istituzionali. Ma gli enti locali non sono un’entità omogenea, anzi, prevalgono com’è noto, le realtà piccole o piccolissime, dove il volume d’affari è parallelamente basso (relativo ai servizi di mensa e trasporto scolastico, soprattutto), avendo esternalizzato attività ben più ‘pesanti’ come, ad esempio, la gestione del servizio idrico integrato. Non c’è motivo, allora, di non ritenerli suscettibili di rientrare (previa verifica, ovviamente) tra i contribuenti minimi.
Ci si ostina, invece, a fare un ragionamento cumulativo che dimostra la scarsa dimestichezza del legislatore con le dinamiche operative delle autonomie locali. Certo, di questo non ci accorgiamo solo ora. Tuttavia, la constatazione che nulla cambia mai davvero, non è meno desolante.

venerdì 5 ottobre 2007

Lievito madre

I primi giorni di una nuova Finanziaria hanno il sapore delle torte appena sfornate, caldissime e fragranti. Purtroppo, sono anche altrettanto indigeribili, pullulanti come sono di novità smentite nel giro di pochi giorni o di varianti approssimative, prima ancora di finire in Parlamento per la discussione. Quasi che il disegno di legge fosse davvero un progetto scritto con l'inchiostro simpatico, sul quale ognuno potrà esercitare il virtuosismo di cui è capace.
Basta osservare la rapidità felina con la quale un'autorevole esponente governativa ha precisato che i comuni non subiranno alcuna conseguenza negativa dalla nuova detrazione ICI, perché gli acconti saranno erogati tempestivamente. Come se il punto centrale fosse il denaro sonante e non l'allontanarsi quasi irrimediabile di una prospettiva seria di autonomia tributaria locale.
Il tema principe di quest'anno, poi, sembra essere il costo della politica. Non sarà sfuggito a nessuno che su questo terreno così scivoloso stanno cascando uno alla volta tutti gli attori in commedia (dai protagonisti alle comparse). Perché, come ha osservato in modo intelligente pochi giorni fa uno di loro, anche un solo euro speso per la politica è sprecato se quest'ultima è pessima, ma innanzitutto perché un'incessante campagna mediatica sta trasformando un'istanza ragionevole in una crociata dove non si fanno prigionieri.
Qui, invece, più prosaicamente, preferisco sottolineare che la nebbia umida e spessa nell'oceano della politica esosa impedisce di scorgere l'approdo della nuova Finanziaria in materia di finanza locale. Dal testo del disegno di legge e da quello del decreto correlato già in vigore si ricava l'impressione che nulla sia davvero mutato rispetto alle intenzioni pur recenti espresse ad alto livello. Sarà pur vero che, al posto di un solo mostro leviatano con migliaia di commi, la manovra 2008 è strutturata in un centinaio di articoli (in origine erano venti di più, ma le strigliate del Quirinale hanno avuto più efficacia di una sentenza di tribunale) e dunque la si può esaminare senza farsi venire l'emicrania, ma non si era detto che la specificità delle autonomie meritava un provvedimento stralcio che, in modo omogeneo, avrebbe costituito le linee guida per una organica gestione del bilancio 2007? Di questa utile semplificazione non v'è alcuna traccia oggi, e nel testo che il Senato comincia a discutere bisogna piluccare qui e là, come un banco di aperitivi, per trovare quel che piace.
Al di là della promessa non mantenuta, che francamente non sorprende e, dunque, non innervosisce più di tanto, tale mancanza di originalità è il segnale di una deriva concettuale verso chissà quali orizzonti. Se, sugli stessi tavoli, stanno contemporaneamente: Finanziaria 2008, Codice delle autonomie locali, Federalismo fiscale e Bilancio ambientale (ne cito solo quattro, ma non certo per difetto), norme che di organico avranno solo la testata ufficiale sulla quale saranno pubblicate, appare chiaro che non c'è oggi e neppure a breve un'idea condivisa su come si debba intendere il rapporto tra Stato e Autonomie locali.
Da un lato, la manovra di bilancio perpetua l'idea che basta qualche ritocco alla disciplina del Patto e alla gestione del personale (da ridurre, beninteso), mentre decide sull'ICI più di quanto fosse auspicabile; dall'altro il testo sul federalismo fiscale ripropone lo schema dei comuni come l'anello debole della catena che, se non devono essere controllati dall'Erario, non possono che dipendere dalle scelte della Regione di riferimento: con quali limiti e conseguenze, ancora non si sa. Infine, con il bilancio ambientale si aggiunge un mattone al castello sontuoso della contabilità pubblica, benché sulla solidità delle fondamenta (leggi contabilità economica) nessuno si pronunci più. Più che un laboratorio di idee, la stagione appena iniziata rischia di diventare la Torre di Babele.

giovedì 4 ottobre 2007

Pane e volpe

Fa sorridere il caso della contribuente che ha proposto ricorso (vincendolo in Cassazione, dopo ben due sconfitte in primo e secondo grado) contro due cartelle esattoriali emesse dal concessionario a fronte di avvisi di accertamento ICI, a quanto sembra, mai notificati. Ma solleva a un tempo anche più di una preoccupazione. Non tanto perché la gentile signora ricorrente non abbia dalla sua abbondanti ragioni (in punto di diritto e di fatto), quanto perché riporta all’attenzione generale la qualità del servizio tributi dei comuni.
Lungi dal prendere quest’ultima vicenda come campione rappresentativo di una realtà diffusa a livello nazionale, sarà in ogni caso l’ora di sottolineare che disattenzioni come quelle rilevate non possono essere considerate errori veniali. Bisogna però capirne innanzitutto le origini.
Prendiamo in considerazione i Comuni meno strutturati, fissando idealmente la comoda soglia dei 5.000 abitanti, e dunque rivolgiamo l’attenzione a una percentuale che non scende sotto il 75% del totale. In questi enti è estremamente raro trovare un ufficio tributi che sia adeguato a gestire direttamente tutte le fasi del contenzioso. Di norma, infatti, il responsabile del servizio finanziario è anche il responsabile di quello tributi e a uno o più collaboratori quest’ultimo ha assegnato la sola responsabilità del procedimento, ma si tratta di dipendenti che non sempre sono adibiti in via esclusiva alla gestione dei tributi, dovendo occuparsi comunque anche di ragioneria o personale.
Non mi dispiacerebbe essere smentito, anche clamorosamente, ma la fotografia della situazione reale non è in media diversa da come l’ho appena scattata. Da ciò discendono due conseguenze: se il controllo dell’evasione tributaria è stato assegnato all’esterno a una delle innumerevoli società che si propongono per svolgere questi servizi, la struttura interna deve comunque fare da adeguato filtro e seguire tutte le fasi procedimentali che seguono alla stampa degli avvisi di accertamento (compresa, ovviamente, la sottoscrizione degli stessi, adempimento tutt’altro che formale), quindi essa non può permettersi di esaminare gli atti prodotti da terzi con superficialità perché la responsabilità a quei terzi non la si può delegare.
Se anche la fase preliminare, che va dal controllo delle posizioni alla costruzione degli atti impositivi veri e propri, è demandata al personale interno, si capisce bene che il carico di lavoro, soprattutto nel periodo finale dell’esercizio, diventa particolarmente gravoso. E dunque, o a tutti gli addetti è garantita una continua e adeguata formazione professionale (il che significa approvare seriamente un piano conforme alle aspettative), oppure sarà del tutto impossibile star dietro alla parallela evoluzione di legislazione e giurisprudenza e con questo gestire il contenzioso con colpevole superficialità.
Badate bene che non sto indicando assunzioni a raffica, oggi impossibili persino con il contagocce. Più razionalmente, penso che un ufficio tributi debba innanzitutto essere all’altezza della complessità della materia, e non solo in grado di gestire l’attività di sportello, per quanto indispensabile.
Con ciò, tornando al casus belli, è vero che le motivazioni con le quali le Commissioni provinciale e regionale avevano sostenuto le ragioni comunali erano discutibili: “la mancata notificazione degli avvisi di accertamento non era da prendere in considerazione perché ciò è rilevabile dalla cartella esattoriale e dai tabulati delle notifiche in possesso del comune...”. Tuttavia, a quel punto, quella era l’unica via di fuga. Che, alla fine, il torto dell’ente sia stato riconosciuto dimostra solo che è stato commesso un errore. Madornale, forse. Ma che non si ripeterebbe in un’organizzazione costruita coi fiocchi.

mercoledì 3 ottobre 2007

Il tempo che fa

Consiglio vivamente un salto all’indirizzo internet http://finanzalocale.interno.it/pub/rel_add_irpef_2006/relazione.html. Come si può già facilmente intuire, il Viminale vi ha reso pubblico il testo della relazione annuale al Parlamento sull’applicazione dell’Addizionale comunale all’IRPEF. L’anno di riferimento è il 2006. Il documento è interessante non tanto per la prima, istituzionale, trattazione che ripercorre lo stato della legislazione vigente in quell’anno (ultimo del blocco forzoso delle aliquote), spiega il meccanismo di attribuzione e fornisce i dati complessivi del gettito introitato dalle amministrazioni che l’hanno applicata.
La vera rilevanza del rapporto parlamentare sta tutta nella sequenza articolata di grafici e tabelle che rielaborano statisticamente i dati comunicati al Ministero e che, in conclusione, disegnano la mappa del tributo secondo molteplici punti di vista.
Ne esce un quadro del federalismo fiscale applicato al quale guardare ogni volta che salgono i toni dell’annosa polemica sulla pressione tributaria locale. Per ragionarci sopra a mente fredda e senza inutili pregiudizi.
Innanzitutto, vale la pena soffermarsi sulla quantità di enti che hanno introdotto l’addizionale. Perché è un dato che fornisce buone ragioni ai detrattori dell’autonomia fiscale ma non di meno può essere interpretato anche a favore di coloro i quali sostengono la necessità di implementare un sistema tributario locale finalmente moderno. Fatto cento il totale degli enti italiani, quelli che applicano l’addizionale sono, dunque, quasi il 70%. Se facciamo l’ulteriore verifica della percentuale sulla popolazione totale arriviamo addirittura a oltre l’83%.
Argomento contro: si tratta di un inutile inasprimento della pressione fiscale, troppo facilmente applicabile invece di adottare efficaci misure di contenimento della spesa. Argomento a favore: la gamma di aliquote a disposizione permette di non gravare eccessivamente sul bilancio delle famiglie e, allo stesso tempo, di fornire servizi in più o meglio organizzati. Entrambe le tesi non reggono se non sono calate in ogni singola realtà locale, ma la seconda possiede, secondo me, un grado più alto di buon senso fiscale. Soprattutto se consideriamo che circa il 40% dei comuni che hanno applicato l’addizionale hanno contenuto l’aliquota entro lo 0,2%.
Dalla ripartizione geografica del prelievo non apprendiamo novità che ci sorprendono. E forse proprio questa normalità ci consente di assegnare all’addizionale un ruolo ancor più importante dell’ICI nel definire l’autonomia tributaria degli enti locali. Il dato ovvio è, infatti, che le regioni più ricche sono quelle che (indipendentemente dal peso specifico dell’aliquota deliberata) ottengono il gettito più elevato (in termini relativi e assoluti).
La perequazione che si intuisce dall’applicazione di questo meccanismo lapalissiano è, di fatto, molto più comprensibile di quella attuata dall’Erario nel calcolare i trasferimenti ai comuni, sempre più kafkiana. In definitiva, il gettito è di esclusivo appannaggio di chi lo impone, così sono accontentati persino i meno solidaristi, poco propensi a contribuire a un fisco nazionale che redistribuisce con criteri sempre meno condivisi dalle Alpi a Capo Passero.
L’argomento davvero decisivo, però, è che, a differenza di quanto accade per l’ICI, una sovraimposta sui redditi attua il principio costituzionale della capacità contributiva e ne sfruttano la potenzialità. Osservando, cioé, che alcuni grandi comuni (su tutti, Milano) si sono astenuti (fino al 2006) dall’approfittare della facoltà di legge, possiamo dedurre che la popolarità dell’imposta è inversamente proporzionale alla dimensione degli enti e che, pertanto, proprio laddove è più pesante la rigidità dei bilanci locali, un prelievo modulato sulla effettiva possibilità di partecipare alle spese comunali rappresenta uno strumento concreto di politica tributaria, che un Sindaco moderatamente assennato è in grado di far digerire anche all’elettorato più agguerrito.
La relazione del 2007, già lo sappiamo, farà rilevare l’ulteriore successo dell’addizionale nei comuni italiani, una volta liberati dalla gabbia del blocco. Ciò rafforzerà un altro po’ l’idea di una rete di autonomie locali già preparate a costruire bilanci dove le risorse dal centro sono più volubili delle perturbazioni meteorologiche e già abituate da un pezzo a fare le nozze con i fichi secchi.

martedì 2 ottobre 2007

Allodole allo specchio

Il labirinto nel quale si era cacciata la Ragioneria generale dello Stato adottando le ormai note circolari n. 28 del 6 agosto e n. 29 del 4 settembre sulla disciplina dei pagamenti sopra i diecimila euro introdotta dal nuovo art. 48-bis del D.P.R. n. 602/1973 era, ormai, più intricato di quello di Dedalo.
La spasmodica attesa di un decreto attuativo che ponesse fine al preoccupante ping pong di interpretazioni giocato da tutte le parti in causa, è di fatto stata annullata dalla (diciamolo pure) provvidenziale entrata in vigore del D.L. n. 159/2007 (in Gazzetta del 2 ottobre) collegato alla manovra finanziaria.
Ciò che resta dopo due mesi di colpi bassi, è il rinnovato testo dell’art. 48-bis che ora, ufficialmente, attende il decreto ministeriale per avere efficacia piena.
Tra l’altro la RGS, in luogo di un meditato silenzio, utile a congelare una situazione rapidamente scivolata nel caos, aveva appena spinto la contesa un passo oltre, rendendo note pochi giorni fa alcune ulteriori sue delucidazioni a proposito di aspetti controversi di un adempimento divenuto insidioso come le sabbie mobili.
Dannose come tutte le precedenti iniziative. Innanzitutto, ed è ovvio, per una questione di metodo. Così come l’irritualità di due circolari che si ergono a regolamento produceva l’effetto di non permettere più di riconoscere il valore gerarchico delle fonti del diritto, anche le risposte ai quesiti (sorta di edizione minore delle FAQ ministeriali) perpetuavano l’equivoco per il quale quando il Ministero si pronuncia, quella è la via da seguire, indifferenti al fatto che solamente un decreto ha valore erga omnes.
La gravità di questo assunto non pareva sfiorare neppure di striscio la RGS, per la quale è, evidentemente, più importante moltiplicare i dubbi piuttosto che fornire strumenti operativi finalmente attendibili.
Basta leggere infatti l’incipit della comunicazione ministeriale, per rendersi conto di come ogni passaggio ulteriore fomentasse la confusione: “A seguito della pubblicazione delle circolari indicate in oggetto, sono pervenuti e pervengono numerosi quesiti concernenti, in particolare, aspetti critici sull’esatta interpretazione della normativa recata dall’art. 48-bis del D.P.R. n. 602/1973.” Capiamo bene perché i quesiti sono stati così numerosi: 1) le circolari non sono decreti; 2) le circolari contengono istruzioni che imbrogliano la matassa, non la dipanano.
Comprendiamo anche il motivo originario di tanta bulimica produttività: è stata la stessa Ragioneria, con la circolare n. 28/2007, ad affermare l’immediata cogenza dell’art. 48-bis. Da ciò, automaticamente, discende l’impossibilità per quest’ultima di smentire se stessa.
Si è posta, però, anche una questione di merito. Perché il tenore delle risposte fornite nel breve documento (non sapremmo definirlo più precisamente) si prestava a ulteriori equivoci. Ad esempio, sull’esatta portata del termine “pagamento”. La RGS, nel tentativo di sembrare più esperta di quanto in realtà non fosse, sosteneva la necessità di prendere in considerazione solo i debiti che derivano da obblighi contrattuali, escludendo i pagamenti da amministrazione ad amministrazione. Ma che dire, allora e ad esempio, dei contributi versati da un ente locale a un’associazione sportiva o culturale? Non sono disciplinati dal Codice civile e non sono neppure ‘trasferimenti di fondi’. Dunque, come ci si sarebbe dovuti regolare?
Infine, mi chiedo che senso abbia avuto ripetere come un mantra, in calce ad ogni circolare/lettera/pronuncia, che “l’emanando regolamento ministeriale potrebbe contenere anche determinazioni in parte difformi da quanto sopra descritto”. E’ esattamente come dire: “Attenzione, se seguite le istruzioni che vi abbiamo fornito lo fate a vostro rischio e pericolo, perché non è detto che siano quelle corrette.” Adottando un sistema di comunicazione del genere, si azzera in un battibaleno lo spirito di collaborazione tra amministrazioni (i creditori, nel frattempo, emettevano fatture sotto soglia).
L’attesa del decreto è ora confortata da una norma di primo livello che mette il silenziatore alle troppe voci contradditorie (il nuovo art. 48-bis fa inoltre piena luce sull’ampiezza dell’adempimento, al quale non devono più sottostare le società a partecipazione pubblica, anche parziale) e mette tranquilli debitori, creditori e persino Equitalia. Sessanta giorni infuocati, ma era solo uno scherzo. Ora si deve buttare tutto nel cestino.

lunedì 1 ottobre 2007

Meno di zero

Ora che le carte sono finalmente sul tavolo, non c’è più spazio né tempo per barare e qualcuno dovrà ben prendersi la responsabilità di chiarire al più presto le modalità di gestione della nuovissima detrazione statale all’ICI.
Sì perché, dal lato contribuente, pare tutto semplicissimo: si determina il valore catastale dell’immobile (in realtà, e più specificamente, il riferimento è alla base imponibile ICI individuata dall’art. 5, D.Lgs. n. 504/1992), si calcola la percentuale pari all’1,33 per mille del valore catastale e si ottiene l’importo massimo della detrazione, che, in ogni caso, non può superare i € 200. Per poterne usufruire, però, è necessario possedere un reddito non superiore a € 50.000,00.
Quest’ultima è una novità introdotta nel testo del DDL nella notte fra venerdì e sabato scorsi, dopo che, probabilmente, qualche funzionario pignolo ha fatto rilevare che potevano beneficiare della nuova prebenda fior di nababbi, ma proprietari di case con valore catastale irrisorio. Poiché quest’ultimo calcolo è riferito al singolo proprietario e non al nucleo familiare, è inoltre prevedibile che l’esclusione non coinvolga un numero imponente di soggetti.
Concretamente, tuttavia, si pone nell’immediato un primo problema: la base imponibile indicata dal testo attuale del disegno di legge non è la stessa sulla quale si effettua il calcolo dell’imposta. Ricorderete, infatti, l’incremento forzoso del 5% introdotto sulle rendite a partire dal 1° gennaio 1997 dall’art. 3, c. 48, della Legge 662/96 (Finanziaria per il 1997) e applicato su quelle vigenti fino “alla data di entrata in vigore delle nuove tariffe d'estimo”. Di fatto, cioè, stando alla lettera del provvedimento, sarebbero necessari due conteggi: uno per calcolare l’agevolazione statale, l’altro per calcolare l’imposta. Si potrebbe rilevare che la maggiorazione del 5% è implicita, ma non mi sembra che il ragionamento sia così scontato perché il testo dell’art. 5 parla solo di “rendite risultanti in Catasto” e queste ultime non contengono di per sè la maggiorazione. Non intravedo una ragione sensata per mantenere tale distinzione. Se anche al Ministero se ne accorgeranno, provvederanno alla rettifica della svista.
La questione si fa, invece, più complicata quando si ragiona sul limite di reddito. Perché, a ben vedere, nella stesura frettolosa del testo il solerte scrivano non ha riportato alcunché a proposito delle modalità con le quali i soggetti passivi possono avvalersi dell’agevolazione. Se il signor X ha un reddito di € 60.000,00 ma decide di fare il furbo e si calcola e applica la detrazione come se gli spettasse, chi può controllarlo?
Il comune non si direbbe, perché il meccanismo attualmente studiato prevede solamente che l’ente, per ottenere il rimborso del minor gettito, dovrà presentare apposite certificazioni che richiederanno, prevedibilmente, l’indicazione di un importo complessivo di ICI mancante, non certo il dettaglio di ogni singolo contribuente.
Neppure l’Erario sembrerebbe responsabile, perché l’abolizione delle dichiarazioni ICI dal prossimo anno impedisce di raccogliere le necessarie informazioni. Può darsi, a pensarci bene, che l’impianto della manovra sia proiettato alle nuove modalità di comunicazione delle variazioni a fini ICI che (condizionale sempre d’obbligo) dovrebbero vedere la luce all’inizio del 2008. Se anche così fosse, chi provvederà all’incrocio dei dati provenienti dai comuni con quelli in possesso dello Stato, sfasati di un anno?
Come sempre, insomma, è tutto basato sulla fiducia. E viene in mente l’ammonimento di un vecchio casaro (la fiducia è una cosa seria). E non un rapporto a senso unico, perché, ovviamente dei comuni non si fida nessuno.
Una modesta proposta per non incagliarsi immediatamente: poiché di recente vanno parecchio di moda le autocertificazioni, invece di attendere un improbabile provvedimento attuativo, si preparino già in comune dei moduli per dichiarare di possedere un reddito sotto soglia. Potremo calcolarci da subito il minor gettito. E quando lo Stato ne chiederà conto agli enti, non saremo impreparati.
Infine, un’osservazione sul metodo di lavoro in salsa ministeriale. Il sistema classico del solve et repete a carico dei comuni si ripresenta come d'abitudine: per evitare di complicare il proprio lavoro (introducendo, come sarebbe stato economicamente più intelligente, la detrazione dell’ICI dall’IRPEF), al Ministero hanno ben pensato di ribaltare sugli enti locali l’onere di subire immediatamente la perdita di gettito (parzialmente coperta da acconti semestrali) per poi attendere primavera per incassare l’eventuale conguaglio.