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giovedì 31 gennaio 2008

L'uvamaro

La solfa è uguale, anno dopo anno. Non cambia perché la disciplina generale è immutata da anni. Però, quando il legislatore ci comunica che i trasferimenti dell’erario per l’anno in corso sono determinati in base alla Finanziaria 2007 (che rimanda alla Finanziaria 2006 che rimanda alla Finanziaria 2005, ecc., in un delirio di scatole cinesi) ne sappiamo esattamente quanto prima. Cioè non possiamo stimare con sufficiente e valida approssimazione l’importo da iscrivere a bilancio. Non possiamo semplicemente perché, insieme alle leggi di bilancio statale, ci sono innumerevoli altri interventi normativi che minano il valore già aleatorio dell’anno prima e lasciano senza bussola gli operatori. Non fosse bastata la vicenda dei tagli per l’extragettito ICI previsto dal D.L. 262/2006 (sui quali torniamo subito), ci ritroviamo anche quelli che derivano dalla mannaia sui costi della politica. Tra Comunità montane che spariscono (forse) e beni strumentali che vanno razionalizzati, si dovrebbero risparmiare, secondo calcoli di insondabile precisione, ben 346,4 milioni di euro nel solo 2008 che diventerebbero 379,8 nel 2009. La convinzione è che le disposizioni della L. 244/2007 funzionino come un orologio svizzero e determinino un recupero strutturale di fresca liquidità, utilizzabile per dar sollievo ai piccoli comuni e per coprire il mancato introito derivante dall’abolizione del ticket sanitario sulla diagnostica. Purtroppo, sviluppando una tecnica originale ma pericolosissima, la presunzione di risparmio diventa taglio effettivo e preventivo, con la possibilità di dimostrare solo a posteriori che quei risparmi non si sono verificati. Quando l’ente produrrà finalmente la relativa certificazione avrà già subito la riduzione dei trasferimenti per il 2008 e la programmazione dell’anno sarà già stata approvata (“21. L’effettivo conseguimento delle riduzioni di spesa di cui al comma 17 è accertato, entro il 31 luglio 2008, sulla base delle leggi regionali promulgate e delle relative relazioni tecnico-finanziarie, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, sentite le singole regioni interessate. (...).” e ancora "32. Entro il 30 giugno 2008, sulla base delle certificazioni prodotte dagli enti interessati, il Ministero dell’economia e delle finanze, d’intesa con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, quantifica l’ammontare effettivo delle riduzioni di spesa conseguibili al 31 dicembre 2008. A seguito di tale accertamento, il Ministro dell’economia e delle finanze, in relazione alla differenza riscontrata tra l’ammontare delle economie di spesa e la riduzione dei trasferimenti, adegua con propri decreti la dotazione per l’anno 2008 del fondo ordinario di cui all’articolo 34, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, per i soli enti che hanno dato piena attuazione alle disposizioni previste dai commi da 23 a 32, a valere e nei limiti dell’incremento del fondo ordinario di cui al comma 31." Dunque, come regolarsi? Scommetto che se lo chiedete al Viminale vi risponderebbero così: fate una semplice proporzione tra il totale dei tagli e il totale dei trasferimenti, come è stato già fatto per i tagli di novembre. Difficile scovare un sistema più veloce per determinare l’importo che l’erario ci deve. Eppure, è l’unico che ci è consentito usare. Voglio dire che se nel bilancio 2008 non inserisco alcun taglio perché il mio comune non appartiene a nessuna comunità montana, ha pochi assessori, nessun amministratore ha chiesto aspettative ecc., non ho la certezza che la differenza tra il mio stanziamento e quello calcolato dal Ministero mi verrà restituita in tempo utile per essere correttamente accertata nell’esercizio. Come già avvenuto di recente con il famigerato golpe di ottobre, la riduzione avverrà ex ante. Ma, a differenza di quello, non potrà provocare la registrazione successiva di un accertamento fittizio, poiché qui si tratta di minori spese. La prudenza (nostra) e la sventatezza (del legislatore) consigliano dunque di ridurre i trasferimenti dello scorso esercizio in modo proporzionale, oppure di attendere fino all’ultimo la comunicazione degli importi sul sito del Viminale. Siamo nel regno dell’indeterminatezza più sfacciata, me ne rendo conto. Ma non dimentichiamo che anche la partita sui trasferimenti ridotti per maggiore ICI è tutt’altro che chiusa. Se esiste una promessa formale del Governo fatta nel corso della Conferenza StatoCittà a reperire i fondi per la restituzione di quanto ingiustamente tolto agli enti privi di fabbricati riaccatastati, è anche vero che tale promessa è caduta nel vuoto da dieci giorni. Il prossimo esecutivo sarà in grado di mantenerla? E soprattutto, quanto tempo passerà prima di averne un altro di esecutivo? Nel frattempo, possiamo solo incrociare le dita.

mercoledì 30 gennaio 2008

L'abrogazione

Era iniziato tutto con una norma del Collegato fiscale. A ottobre, il D.L. 159/2007 aveva proposto agli enti locali lo stanziamento di una somma (non molto cospicua, a dire la verità) da distribuire lungo il triennio 2007-2009 per alleviare dagli oneri spesso esosi richiesti dagli istituti di credito (e dalla Cassa DD.PP. Spa, in modo particolare) per estinguere mutui e prestiti. Novanta milioni di euro ancora inservibili, poiché il decreto ministeriale con il quale gli enti dovrebbero certificare i costi sostenuti per l'estinzione delle passività, previsto entro il 30 ottobre 2007, è rimasto nel cassetto del Viminale che ancora non sappiamo se rimarrà chiuso fino a primavera oppure no. Sto pensando maliziosamente anche ai futuri decreti ex Finanziaria 2008, in particolare a quello sulla detrazione statale ICI, e non provo belle sensazioni. In ogni caso, si tratta di un commendevole tentativo di spingere gli enti locali a liberarsi virtuosamente dei propri debiti pluriennali, poiché la concessione dei contributi se la meriteranno solo le amministrazioni che useranno parte dei loro avanzi di amministrazione per chiudere i conti con le rate di ammortamento. Forse, la calma olimpica con la quale al Ministero si sono presi a cuore la pratica deriva dal fatto che il primo anno del triennio interessato si è appena chiuso e dunque non c'è alcuna fretta di trasmettere certificazioni. Ma tenendo in dovuta considerazione la fragilità dell'attuale sistema legislativo, qui si corre il rischio che anche quei fondi finiscano in cavalleria e il sollievo sia stato solo effimero. Ma non è esattamente di questo che si voleva qui parlare. Piuttosto della geniale simmetria tra buone intenzioni e ritardate riparazioni che il legislatore dimostra generosamente. Infatti, più di un osservatore si era premurato di far rilevare che, al momento di pubblicare la norma di ottobre, nessuna disposizione ordinamentale autorizzava in modo esplicito gli enti a utilizzare quote di avanzo di amministrazione per finanziare la restituzione di prestiti. Ora, anche questa tessera del puzzle è stata messa al suo posto. L'Art. 2, c. 13, L. 244/2007 aggiunge, infatti, all'Art. 187, c. 2, lett. b) del TUEL, che già contemplava tra le scelte disponibili la copertura dei debiti fuori bilancio riconoscibili a norma dell'articolo 194, le parole "e per l'estinzione anticipata di prestiti", chiudendo di fatto il cerchio. Tutti soddisfatti, dunque. Si tratta di un'interpretazione certo molto rigida, poiché in un'accezione altrettanto stretta, ma puramente contabile, sia la restituzione delle quote capitale (unica fattispecie presa in considerazione dalla norma aggiornata) sia il pagamento di oneri di estinzione rappresentano spese correnti e, come tali, in sede di assestamento, già ieri gli enti erano legittimamente autorizzati a finanziarle con avanzo non vincolato. Molti, tuttavia, ritengono che quando il legislatore ha utilizzato nella formulazione dell'Art. 187, c. 2, lett. c), la dizione "per le altre spese correnti" ha inteso fare esclusivo riferimento a quelle del titolo I. Non sono così drastico o disfattista da ritenere inutile la precisazione della Finanziaria 2008. Credo però che non ci fossero gli estremi per ritenerla indispensabile, soprattutto attraverso l'irritualità della legge di bilancio dello Stato che contiene troppe disposizioni che non dovrebbero competerle. Mi chiedo poi che senso abbia avuto modificare la lettera b), associando l'estinzione anticipata di prestiti ai debiti fuori bilancio, quando, posto che non la si intendeva come spesa corrente e pensando alla virtuosità del relativo comportamento, meglio sarebbe stato alloggiarla in una lettera a sè. Merita un'ultima osservazione l'entrata in vigore della disposizione che, eccezionalmente e insieme ai nuovi termini per la perenzione dei residui passivi in conto capitale dello Stato, è anticipata al 28 dicembre 2007, data della pubblicazione della L. 244/2007. Mentre in quest'ultimo caso l'anticipazione risulta giustificata dalla necessità di comprendere anche il 2007 tra i tre esercizi successivi "a quello in cui è stato iscritto il relativo stanziamento" per determinare la perenzione dei residui, la stessa cosa non si può dire per la disposizione che ci interessa. Se anche la norma fosse entrata in vigore il 1° gennaio 2008, infatti, l'utilizzo dell'avanzo 2007 per finanziare l'estinzione anticipata dei mutui non sarebbe stato in pericolo mentre per quello del 2006 sarebbe stato comunque troppo tardi. Bizantinismi di mezzo inverno, comunque.

martedì 29 gennaio 2008

La fossa del leone

Esistono forme di pentitismo che nessuno penserebbe di associare alla delinquenza meglio organizzata. Sono quelle che non si manifestano esplicitamente, con la contrizione di parole riparatorie, ma attraverso comportamenti di segno opposto, con l’obiettivo di rimediare ai danni prima procurati. In questo modo, purtroppo, sfugge ai più l’errore originale e pare che il pentito sia sempre stato virtuoso. Ciò che si legge a proposito del Patto di stabilità 2008 rientra in questa categoria dello spirito e, per giudicarne serenamente gli esiti, andrebbe almeno collocato nella sua corretta dimensione temporale. Se, da quest’anno, gli enti soggetti al vincolo di Maastricht sono tenuti a fare i conti con la competenza mista (o ibrida secondo un’altra, non indispensabile versione) nel calcolo del saldo rilevante, devono ringraziare innanzitutto chi, con forza evidentemente convincente, per prima la propose come soluzione: l’ANCI. Nella Conferenza Stato-Città che diede il via libera all’ormai noto meccanismo, infatti, fu proprio la potente associazione a perorare la causa di un nuovo sistema per determinare gli obiettivi finanziari degli enti soggetti al Patto. L’iniziativa, come ognuno può immaginare senza che altri lo imbecchi, aveva lo scopo evidente di portare acqua al mulino di alcuni selezionatissimi enti per i quali il vecchio metodo dei saldi separati produceva situazioni men che ottimali. Dunque un cambio di rotta quasi ‘ad personam’, del quale nessuno si è accorto finché non sono apparse le prime simulazioni di calcolo con il nuovo sistema. Quest’ultimo, che contempla la determinazione di un unico saldo come somma algebrica di entrate e spese distinte secondo che siano di competenza (parte corrente) e di cassa (parte investimenti), mette alle strette una percentuale di enti che si ritrovano dall’esercizio precedente un ammontare rilevantissimo di residui passivi di parte investimenti. Questi ultimi (se in difetto rispetto al Patto 2007), con il nuovo sistema, finirebbero per non poter comunque rispettare l’obiettivo migliorativo del 2008, perché il pagamento dei residui del titolo II si mangerebbe tutto il margine accumulabile in competenza 2008. E qui interviene il pentimento compassionevole del colpevole. Senza in alcun modo menzionare il ruolo protagonista recitato nella commedia della competenza mista, l’ANCI ha ottenuto che nella versione definitiva della Finanziaria 2008 (Art. 1, c. 379) fosse inserita una vera e propria clausola di salvaguardia, che permettesse agli enti di scegliere se continuare a calcolare il saldo con il vecchio metodo oppure approfittare della novità di stagione. Che però, purtroppo, è limitato agli enti virtuosi, quelli cioè che presentano un saldo 2003-2005 calcolato con la competenza mista positivo e maggiore del saldo di cassa. La clausola, poi, è valida esclusivamente per il 2008, come se la bontà del conteggio di competenza mista fosse a prescindere il non plus ultra e l’eccezione confermasse la regola. Già coloro che presentano un saldo di cassa nel 2003-2005 positivo non devono concorrere alla manovra 2008 e possono dunque stare serenamente a guardare gli altri che si dovranno invece industriare nel migliorare il proprio saldo negativo, pur dovendo mantenere per l’intero esercizio la virtuosità pregressa. La parola d’ordine sembrerebbe dunque essere: “Se hai i conti in ordine, ti vincolo di meno”. Non è detto che sia così, perché, ad esempio, sul monitoraggio ministeriale si introduce una tassatività mai vista prima. Basta saltare la trasmissione del prospetto dimostrativo dell’obiettivo 2008 e automaticamente il patto si considera non rispettato. La storia delle sanzioni è ricca, tuttavia, di comiche smentite (ricordate la loro scomparsa per decreto nel 2006?). Anche quella appena introdotta, che pecca sicuramente di eccessivo formalismo, potrebbe svanire come la nebbia. La riscrittura continua delle regole sul Patto si stratifica e gli enti non sanno come traghettare da un sistema all’altro. Perché allora non abbandonare del tutto i saldi di cassa e affidarsi, d’ora in avanti, solo alla competenza (che, come si sa, in cassa si trasforma, prima o poi)?

lunedì 28 gennaio 2008

Nata libera

Gli spiriti animali potranno liberare tutta la loro intensità, d’ora in poi, anche nel settore della riscossione delle entrate degli enti locali. Riscritto dalla Finanziaria 2008 (Art. 1, cc. 224-225), l’art. 52, D.Lgs. n. 446/1997, sembrerebbe bloccare qualsiasi affidamento in house providing delle attività di accertamento tributario ed extratributario, introducendo un ampio criterio di libera concorrenza tra i soggetti interessati. La norma utilizza una formulazione particolare, che è bene approfondire prima di fare scelte avventate. Dice, infatti, il nuovo testo dell’Art. 52, comma 5, lett. b), che le attività in questione sono affidate a una di quattro tipologie di operatori (vedremo tra poco quali), “nel rispetto della normativa dell’Unione europea e delle procedure vigenti in materia di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali”, messi tutti sullo stesso piano, dunque. E poi elenca in successione i destinatari della disciplina. Innanzitutto, le società iscritte all’albo dei concessionari costituito ai sensi dell’Art. 53, c. 1 dello stesso decreto. Per esse non può valere la procedura dell’affidamento diretto, trattandosi comunque di “soggetti privati”, come specificato nel testo dell’articolo. Dunque sarà sempre necessario esperire una gara d’appalto con le procedure a evidenza pubblica. La riscossione può essere affidata anche a società non italiane, benché limitatamente all’ambito dell’Unione europea e relativamente a società che presentino equivalenti requisiti rispetto a quelli richiesti ai soggetti di diritto italiano. Per queste società si ripropone l’identico sistema di affidamento (gara ad evidenza pubblica). Il terzo soggetto è rappresentato dalle società a capitale interamente pubblico sulle quali, ai sensi del TUEL (art. 113, c. 5, lett. c)), “l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino (...) un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano.” Questo inciso era, fino ad oggi, utilizzato per procedere senza alcuna gara all’assegnazione della concessione di servizio, proprio in ragione del ‘controllo analogo’ che avrebbe, in sintesi, questo significato: l’ente controlla la società in modo così diretto che essa non è altro che una diramazione dell’ente stesso, come si trattasse di un ufficio comunale qualsiasi. Attraverso questa interpretazione, avallata anche da autorevole giurisprudenza europea, si può saltare qualsiasi ostacolo che la normativa in materia di appalti possa frapporre tra l’ente e la libertà di gestire attraverso terzi le proprie entrate (le più significative, almeno). Ciò che ambiguamente la Finanziaria 2008 ripropone, con una formulazione simile ma passibile di differente qualificazione: resta, cioè, il concetto di ‘controllo analogo’ per verificare il legame strettissimo tra concedente e concessionario della riscossione (concetto addirittura esteso, poiché è richiesto che la società svolga la propria attività esclusivamente “nell’ambito territoriale di pertinenza dell’ente che la controlla”), ma non si menziona mai l’affidamento diretto. Si vuole lasciare intendere con ciò che le società a capitale interamente pubblico debbano comunque, anche in presenza di controllo analogo, soggiacere alle regole generali degli appalti di servizi pubblici? In realtà, l’affidamento più o meno diretto non dovrebbe scomparire, poiché la norma stabilisce che a questi soggetti possa essere affidato il servizio, mediante apposita ‘convenzione’. Su quest’ultimo atto amministrativo si dovrebbe aprire un separato tavolo di discussione, per comprenderne bene limiti e opportunità. Il quarto soggetto è un ibrido dei primi tre, essendo rappresentato dalle società miste pubblico-privato, nelle quali peraltro il socio privato deve essere stato scelto con procedure ad evidenza pubblica ed esclusivamente per effettuare l’attività di accertamento e riscossione. Se il nuovo testo ha una ragione d’essere, essa affonda nel parere della Commissione europea rilasciato lo scorso giugno, nel quale si paventava una procedura di infrazione per l’Italia se non si fosse messo mano alla legislazione in materia di accertamento e la riscossione dei tributi locali. Ciò che si contesta in quel parere, è il fatto che la legge consenta l’affidamento del servizio a soggetti iscritti in un albo speciale, iscrizione che conterrebbe, secondo la Commissione, elementi di discriminazione nei confronti di altri soggetti. Il D.M. n. 289/2000 che ha individuato le condizioni per l’iscrizione all’albo dei concessionari contiene limiti soggettivi ma anche finanziari all’iscrizione, dunque i rilievi europei sono particolarmente ampi rispetto a una normativa che, fino alla precedente formulazione, consentiva senza dubbio e a certe condizioni l’affidamento in house. E ora? Nel riscrivere quella norma, l’obiettivo era evitare la prosecuzione della procedura di infrazione. Allo stesso tempo, però, non si è chiarito definitivamente quale siano i limiti della libertà di affidamento. Alcuni autorevoli commentatori non si sono posti il dubbio e leggono il nuovo testo con serena limpidezza. Ma è proprio così pacifico?

venerdì 25 gennaio 2008

Spazio 1999

In previsione di un rapido scioglimento delle Camere, ancora non sappiamo quanti dei decreti ministeriali da emanare ex Finanziaria 2008 sono davvero a rischio di scomparire nell'oblio dei provvedimenti senza futuro. Ho la vaga impressione, però, che tra questi finiranno quelli richiesti dall'Art. 1, cc. 212-213 per mettere in cantiere una delle operazioni più ambiziose che si ricordino: la completa digitalizzazione dei rapporti di fatturazione verso la P.A. Possiamo per qualche riga far finta che non sia così, e che nessun intoppo bloccherà l'iniziativa. L'obiettivo, quindi, è decisamente alto: si prevede che, da un certo momento in poi (determinato, appunto, dal secondo dei decreti ora pendenti), "l’emissione, la trasmissione, la conservazione e l’archiviazione delle fatture emesse nei rapporti con le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e con gli enti pubblici nazionali, anche sotto forma di nota, conto, parcella e simili, deve essere effettuata esclusivamente in forma elettronica". Si noti immediatamente l'assenza delle autonomie locali dal raggio d'azione della norma. La cosa, da un lato, non dispiace: considerando la quantità di adempimenti da assolvere nei prossimi mesi, non vorremmo davvero dover affrontare anche lo scoglio della fatturazione digitale. E però, dall'altro lato, non si riesce a scacciare la fastidiosa sensazione che questa assenza sia temporanea. Che, cioè, sia solo questione di qualche anno (forse) prima che quest'obbligo sia riversato sulle generose e solide spalle degli enti locali. Ho usato gli ultimi due aggettivi in senso tutt'altro che ironico, considerando quanto duttili siano le amministrazioni locali rispetto ai repentini cambi di rotta di un legislatore che, su molti argomenti, non sostiene mai la stessa posizione per più di una legge Finanziaria. Se ne ricaverebbe dunque l'impressione che non manchi moltissimo all'estensione della fatturazione elettronica fuori dai confini dell'Amministrazione dello Stato. Fatta salva la sospensione di tutto il meccanismo che potrebbe impedirne lo sviluppo futuro. Se, però, tutto ciò che i decreti preconizzano accadesse domani mattina anche per gli enti locali, mi chiedo quanti sarebbero pronti, a stretto giro di posta, a emettere e ricevere fatture in una forma che non sia quella cartacea. E il dubbio nasce soprattutto per i piccoli e piccolissimi fornitori che ci trasmettono fatture ancora battute con la macchina per scrivere. Nel comma 213, è vero, si dice che nel decreto saranno individuate le situazioni per le quali è prevista una deroga alle tecno-fatture, ma esse sono limitate ad alcune tipologie di approvvigionamenti. Dunque non in relazione alle dimensioni dell'impresa. Per le Amministrazioni dello Stato il problema, con ogni probabilità, non si pone, data la potenza di fuoco espressa dagli appalti di fornitura che coprono le esigenze di decine di migliaia di lavoratori. In tutta evidenza, però, un sistema interamente informatizzato non può fondarsi sulle deroghe, pena il clima da barzelletta che ne deriverebbe per i protagonisti. Ecco profilarsi all'orizzonte un futuro non lontanissimo in cui anche per la nostra contabilità IVA ricorreremo solo ai bit: ce lo suggerisce anche il comma 214, il quale attribuisce alle disposizioni che lo precedono valore di principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, per le Regioni. Si tratta della tappa intermedia verso l'introduzione generalizzata del sistema. Ora però gli intoppi istituzionali rischiano di tarparne le ali prima ancora del decollo.

giovedì 24 gennaio 2008

Castello di carte

Era davvero improbabile che le prime interpretazioni ufficiali dell’Art. 3, c. 76, L. 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008) potessero sovvertire il senso letterale di un testo stringato ma limpido. In quella norma si introduce una modifica salatissima all’Art. 7, D.Lgs. n. 165/2001, attribuendo agli enti la facoltà di avvalersi di prestazioni professionali di alta specializzazione solo quando il candidato è in possesso di una “comprovata specializzazione universitaria”. Si tratta, non c’è dubbio, di una delle novità più limitanti di una manovra che, sul personale, agli enti locali ha concesso quasi niente. La ratio della norma, la necessità di ricorrere a soggetti esterni per lo svolgimento di funzioni istituzionali solo quando sia strettamente necessario, ha un ovvio fondamento logico. Peraltro, più la leggiamo e più non comprendiamo la testardaggine di chi ha deciso di introdurla. Si tratta di un ritornello che, senza volerlo, fischiettiamo da settimane: il legislatore, per pigrizia o per convinzione (entrambe ingiustificabili) non propone alcuna distinzione fra comuni di 500 abitanti e città di milioni. Proprio su una materia che, al contrario, avrebbe bisogno come l’aria di distinguo. Come paragonare, infatti, la situazione dei micro-enti i quali, ad esempio, non hanno risorse per assumere in via definitiva un tecnico comunale e si affidano a un geometra esterno che sbriga le pratiche necessarie alla metà (o meno) del costo di un C1, a quella di macro-enti con piante organiche ampie e articolate nelle quali è più che probabile si annidino professionalità adeguate a ricoprire ruoli anche di alta specializzazione e che dunque se devono comunque avvalersi temporaneamente di cervelloni possono ben rivolgersi a chi possiede lauree o master. Si tratta di una banale constatazione, ma l’ordinaria indifferenza di chi scrive i testi normativi ai problemi operativi di coloro che stanno quotidianamente nelle trincee amministrative è lì a dimostrare che all’ovvio non si accompagna necessariamente il buon senso. E così anche la prima vera voce ministeriale a commento del comma 76 non può che accodarsi al modello base e, purtroppo, confermare l’inevitabile conclusione. C’è, a contorno della vicenda, anche un lato ironico, quasi una beffa, se volete. A sottoporre il quesito, infatti, è niente meno che Italia Lavoro Spa, cioè l’agenzia del Ministero del Lavoro che ha come missione istituzionale la promozione di iniziative per favorire l’occupazione e l’inclusione sociale, anche in collaborazione con le autonomie locali. Insomma, l’inquilino del piano di sopra vorrebbe tanto installare un’antenna parabolica sul balcone, ma l’amministratore del condominio non lo autorizza. L’UPPA risponde così all’agenzia che aveva mestamente chiesto lumi, sperando ovviamente in qualche timido spiraglio attraverso il quale far filtrare un po’ di personale. Il risultato, tra l’altro, è addirittura più pessimistico del previsto. La mannaia della Funzione pubblica, infatti, cala presto a mozzare le residue speranze che, almeno, ci si possa avvalere della competenza di chi ha acquisito una laurea breve. Per l’Ufficio di Verbaro, utilizzare quell’espressione significa infatti per il legislatore che il "requisito minimo necessario" per aspirare a un incarico ex art. 7 è il possesso della “laurea magistrale o del titolo equivalente”. Certo, l’UPPA interpreta e dunque non può innalzare il proprio pensiero oltre la soglia dell’opinione, benché autorevole. Ma l’opinione si fa ancor più incisiva immediatamente dopo. In realtà, anche il laureato cum laude fresco di Bocconi non potrà accedere a succosi contratti di consulenza, poiché, si dice nel parere, l’analisi dei requisiti previsti dalla legge (competenze particolari, procedure comparative per attuare la scelta, ecc.) portano ad una sola conclusione: “la necessità di reperire collaboratori che operano da tempo nel settore di interesse.” Addio, dunque, sogni di gloria, per la legione di ex studenti a caccia di un prestigioso posto al sole. Sarebbe, comunque, il male minore, se l’impedimento fosse demograficamente graduato. A niente, infine, vale affermare come fa l’UPPA che la stretta sul lavoro flessibile non riguarda gli incarichi di lavoro autonomo. Lapalissiano come sempre, il Ministero finge di non accorgersi che, con un limite così stringente in ingresso, l’importanza di non essere soggetti a un vincolo temporale in uscita tende inesorabilmente a zero.

mercoledì 23 gennaio 2008

Fuori dal recinto

A carte scoperte, non c'è più spazio per barare. E neppure per tappare falle improvvise nella sempre traballante macchina amministrativa. Dopo la completa riscrittura dell'Art. 36, D.Lgs. n. 165/2001 operata dalla Finanziaria 2008, riesce difficile ipotizzare un tranquillo 2008 per gli enti di ogni dimensione. Le fondamenta del lavoro nella pubblica amministrazione, secondo la nuova e ben poco rivoluzionaria formulazione, sono i rapporti subordinati a tempo indeterminato. Grazie tante. Dopo anni di spinta al precariato in ogni suo possibile manifestarsi, questa semplice ma fino ad oggi scandalosa verità torna con prepotenza in prima fila, scalzando tutte le altre forme di accesso all'impiego dal podio più alto. C'è ben poco da ridere purtroppo, perché il fondamentale assunto non corrisponde in alcun modo a un allentamento dei vincoli capestro che hanno fino ad oggi impedito a quasi tutti gli enti di assumere (e poco male per quelli che hanno personale in grande esubero). Infatti, l'unica concessione al lavoro senza termine sono le ben note stabilizzazioni, riproposte quest'anno in salsa co.co.co. ma ben lontane dal rappresentare la vera medicina per curare la malattia cronica di cui soffrono gli enti locali: la sindrome da concorso asimmetrico. Da un lato, una moltitudine di enti sotto organico e con buone risorse finanziarie, impediti persino di sostituire il turn over. Dall'altro, una discreta quantità di altri enti, decisamente sopra organico, i quali sopravvivono benissimo anche senza rimpiazzare il personale che per qualche motivo se ne va. L'applicazione ovunque della stessa regola, cioè, ottiene il perverso effetto di favorire i meno virtuosi, soffocando chi si deve comunque arrangiare con i mezzi che ha. Riscriviamo dunque una buona volta queste norme sul personale, perché non si può accettare di sacrificare sull'altare del Patto di stabilità (inviolabile solo quando fa davvero comodo) la qualità del lavoro in amministrazioni perennemente alla canna del gas. Se esiste un obiettivo di saldi cumulativo, consolidato, è impensabile non differenziare gli obiettivi. Mai una volta che in una Finanziaria si sia preso in considerazione il parametro popolazione/personale dipendente per andare a vedere il bluff delle amministrazioni obese di personale. Lo si è fatto quest'anno per la prima volta (se non erro), ma non certo per costruire un vero percorso distintivo, ma solo come eventuale motivo per offrire una flebile deroga alle assunzioni, sempre però all'interno di un percorso che chiede a tutti, indistintamente, di ridurre tendenzialmente la spesa di personale. Senza invocare l'illimitato via libera alle assunzioni, vorremmo almeno percepire un indizio di rotte nuove, di nuovi modi di concepire il rapporto tra risorse disponibili e servizi da offrire alla popolazione. Di certo, tutto ciò è impossibile da qualche anno, poiché, indipendentemente dai colori predominanti, c'è sempre qualche norma in Finanziaria che ripropone schemi fissi e penalizzanti. La nuova disciplina del lavoro flessibile, ad esempio, consente l'assunzione di personale per non più di tre mesi o per esigenze stagionali, a meno che non si tratti di sostituire una maternità. Il richiamo al concetto di stagionalità, è vero, potrebbe rappresentare una scorciatoia per proporre assunzioni di più lunga durata. Ma anche presumendo un utilizzo moderato, quasi meteorologico, del concetto di 'stagione', resta il fatto che il legislatore non ritiene costo per l'amministrazione locale addestrare più persone per coprire un identica figura professionale. Dietro tutto ciò c'è il molto logico concetto che un'esigenza temporanea che si ripete per mesi e mesi, è tutto fuor che temporanea. Mancando tuttavia le mezze misure e soprattutto una regolamentazione meno rigida delle assunzioni a tempo indeterminato, ci si accorge subito che siamo nel campo delle nozze con i fichi secchi, cioè ci si deve arrangiare con quel che la legge permette. Che non è molto, purtroppo.

martedì 22 gennaio 2008

All'incrocio dei pali

E' più di un avvertimento. Si tratta di una reale messa in mora da parte, nientemeno, della Corte costituzionale. Che apprezziamo per la sua chiarezza, nonostante in questa occasione non ci faccia un favore. La recente ordinanza 5 novembre 2007, n. 377 afferma un principio sul quale, d'ora in poi, gli uffici tributi non potranno fare orecchie da mercante. Poiché la cartella esattoriale è l'ultimo tassello di un procedimento amministrativo, perché essa sia ben formata ed efficace vi deve comparire il nome del responsabile di quell'iter, proprio ai sensi della classica L. 241/1990. Questa sintetica ma esplicita e non equivocabile conclusione va presa sul serio, da subito. Potete, infatti, già immaginare le moltitudini di contribuenti pronte a far partire altrettanti ricorsi a fronte di cartelle notificate senza il fatidico nominativo. Di fronte a una pronuncia così limpida, possiamo solamente approntare le adeguate misure organizzative. Pertanto, senza che il panico prenda il sopravvento, i prossimi ruoli dovranno riportare in calce l'indicazione del soggetto designato, accordandoci con il concessionario perché provveda a riportarlo su ciascuna cartella. A questo punto, tanto vale indicare il nome del responsabile anche sugli avvisi bonari che, ormai, precedono il titolo esecutivo di qualche mese con lo scopo di indurlo al saldo del debito tributario senza intimazioni brutali (e facendogli incidentalmente risparmiare il costo della notifica) benché essi non abbiano autonoma impugnabilità, ma quel nominativo resta in ogni caso valido per la successiva fase esecutiva. Dicevamo della condivisibilità della decisione. Nella massima, il concetto al quale i giudici si sono ispirati emerge con nettezza: "l'obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione sanciti dall'art. 97, primo comma, Cost." Si produce, così, l'effetto originario voluto dallo Statuto del contribuente che, per altri versi, rimane un provvedimento inattuato. Basti pensare alla vituperata (dal legislatore) limpidezza del dettato normativo, rimasta ormai una pia illusione, quando invece su di essa dovrebbe fondarsi il rapporto fiduciario tra pubblica amministrazione e cittadino. In queste ore si sta moltiplicando un tam tam ossessivo che ha l'unico scopo di creare una fenomenale onda d'urto di ricorsi contro cartelle già notificate. Di fronte, infatti, ad una pronuncia come quella qui commentata, anche commissioni tributarie poco temerarie potrebbero trovare difficile rispedire al mittente l'istanza del cittadino e creare le premesse per un ingorgo amministrativo senza precedenti. Ha un senso tutto ciò? Razionalmente, leggo la scelta della Corte Costituzionale come un deciso stop all'abitudine di vedere i ruoli esattoriali come inappellabili e intoccabili sentenze, immuni da coerenti e motivate contestazioni. Dunque, se devono subire eguale trattamento, il titolare dell'ufficio dovrà esporsi e prendersi le sue doverose responsabilità, nominalmente. Questa constatazione, però, non può giustificare un incondizionato rifiuto di pagare le cartelle emesse, come se l'assenza finora del nominativo del responsabile ne impedisse da sola la corretta impugnazione del documento. E', purtroppo, il solito sistema spiccio per non pagare anche quando si dovrebbe. 'Cartella pazza' è un fenomeno reale e non giustificabile, ma 'Cartella furba' non è proprio da meno.

lunedì 21 gennaio 2008

Vetri affumicati

Salti di qualità a ripetizione si preannunciano, proseguendo nella lettura della Finanziaria 2008, per tutte le amministrazioni ben intenzionate a percorrere i virtuosi sentieri battuti finora solo dai meno furbi. Scavando nel sottotesto di centinaia di commi oscuri, si giunge al blocco dell'art. 2, cc. 594-600 e si apprende che gli organi collegiali comunali (e provinciali) saranno chiamati a un supplemento di impegni prima che le rondini facciano primavera. Oltre alla programmazione degli incarichi per studio, ricerca e consulenza, infatti, si chiede a ciascun ente di elaborare un documento (a schema libero, peraltro) nel quale siano individuate apposite misure per razionalizzare le spese di funzionamento. Notoriamente, sono proprio quelle che farebbero lievitare i bilanci per nulla floridi di migliaia di comuni e, in qualche modo, ci si deve dare un taglio, letteralmente. La norma non lesina specifici indirizzi da seguire: si parla infatti di dotazioni strumentali, anche informatiche, autovetture di servizio e beni immobili ad uso abitativo o di servizio. Le prime fanno pensare alla Fata Morgana: il miraggio di un'informatizzazione a macchia di leopardo non ha prodotto enti locali iper-tecnologici. Se girando per uffici comunali notate quantità industriali di personal computer e stampanti, non vi stupite: vi trovate di fronte alla stratificazione di anni di macchine rimpiazzate ma non smaltite, che fanno polvere sulle scrivanie. In ogni caso, oggi, il costo realmente esoso sta altrove. Fate rapidamente un calcolo di quanto avete stanziato (e impegnato, non c'è dubbio) per l'assistenza software (non sempre all'altezza delle esigenze gestionali) e potrete dimostrare con altrettanta facilità che per razionalizzare efficacemente in questo settore sarebbe più utile impedire il proliferare di corsari informatici che approfittano dell'anarchia istituzionalizzata per piazzare i loro prodotti che, purtroppo, dialogano molto poco fra loro e con le centrali dati dei Ministeri. Poco male, un bel foglio di Excel (probabilmente senza licenza) e si risolvono mille problemi. Nel programma triennale, è comunque opportuno che sia previsto un adeguato turn over delle macchine obsolete: almeno quelle.... Lesinare sui mezzi di trasporto è un ritornello non recente e il rimedio proposto in Finanziaria possiede il suo fascino arcaico: ricorrere a mezzi alternativi, anche cumulativi: il car-pooling tra Polizia locale e Servizi sociali è dunque la nuova frontiera del servizio pubblico. Mentre la prima insegue il delinquente di turno, i secondi pensano già a come assistere i suoi parenti prossimi. A parte gli scherzi, questo punto è forse quello dove si possono realizzare i risparmi più sostanziosi. Non però nelle amministrazioni più ridotte, che di auto blu non ne posseggono neppure mezza e dove gli uffici si prestano le automobili a fatica. I beni immobili sono stati lasciati buoni ultimi, ma ciò non significa sottovalutarne la portata. Soprattutto perché qui si tratta di appartamenti oppure di strutture comunque non infrastrutturali. Bisogna, tra l'altro, andare ancora più a fondo per questi cespiti, poiché quando il Ministero avrà preparato il previsto decreto attuativo tutti gli enti dovranno censire i propri beni immobili ad uso abitativo o di servizio, sui quali vantino diritti reali o che abbiano in disponibilità, indicando anche quanto se ne ricava (in termini di locazioni attive) e quanto onerosi risultano (in termini di locazioni passive). Fatto la prima volta, il lavoro dovrebbe poi essere solo tenuto aggiornato negli esercizi successivi. Tuttavia, dietro questi adempimenti c'è una sollecitazione continua a programmare di tutto e di più. Non che si sia contrari, anzi. Pare però più un riflesso condizionato di chi, non essendo in grado di programmare la propria attività, ne scarica l'onere sui gerarchicamente sottoposti. Obiettare, infine, che la norma parla di razionalizzazione e non di riduzione, e dunque che si può continuare a spendere all'identico ritmo di ieri a patto di dimostrare che ciò è esattamente funzionale all'erogazione dei servizi essenziali, non è necessariamente una forzatura. Piuttosto rileverei che il comma 597 prevede la trasmissione annuale di una relazione consuntiva sul rispetto della programmazione: da inviare al controllo interno e, soprattutto, alle sezioni di controllo della Corte dei conti. E' sempre meglio non svegliare il can che dorme.

venerdì 18 gennaio 2008

Uno sparo nel buio

Anche le migliori intenzioni possono affondare nell'acqua stagnante dell'irrazionalità. A leggere i commi da 55 a 57 del terzo maxi-articolo della Finanziaria 2008 si finisce per credere che il legislatore abbia trovato nell'affidamento di incarichi di studio e consulenza degli enti locali terreno fertile per la propria politica di bastone e carota. E' difficile, in questo caso, sostenere che non vi sia spazio per una riflessione profonda sulla faciloneria con la quale si è speso senza controllo nell'assegnare a Tizio o Caio consulenze su tutti i temi disponibili, indipendentemente dalla stretta competenza, ma solo per evitare un confronto con le risorse interne, teoricamente altrettanto preparate, almeno fino a prova contraria. Come d'uso, però, si sceglie di guardare il problema da un'unica prospettiva dimenticando che realtà affatto diverse hanno bisogno di discipline giuridiche altrettanto diverse. Risulta, infatti, indimostrabile l'assunto secondo il quale gli enti più piccoli hanno sperperato in proporzione quanto città capoluogo o amministrazioni provinciali. Ed è persino offensivo che si prosegua nell'utilizzare l'idrante quando servirebbe, in tutta evidenza, l'innaffiatoio. In tre commi si costruisce, perciò, una procedura macchinosa che, associata all'altra norma capestro che richiede la specializzazione universitaria per incarichi extra-dotazione organica, mette qualche paletto attorno alla prateria di chi finora ha fatto quel che voleva, ma blocca senza rimedio per un mesetto o due l'attività di tutti gli altri. Dapprima, è necessaria una pronuncia dell'organo consiliare, che deve programmare l'attività di un anno. E deve prevedere tutto, perché se nella definizione di studio e ricerca è possibile far rientrare solo specifiche situazioni, quando parliamo di consulenze allarghiamo lo spettro delle possibilità quasi all'infinito. Bisogna porre particolare attenzione a questo primo mattone, perché di fatto impedisce l'affidamento di qualsiasi incarico che non rientri in quel programma. In soldoni, qualora emergesse la necessità di avvalersi di una consulenza urgente e imprevista in corso d'anno, quel programma dovrebbe essere aggiornato prima di affidare ufficialmente l'incarico. Fino a qui, tuttavia, il processo decisionale è razionale e lineare: l'organo preposto alle decisioni strategiche si assume la responsabilità di programmare l'utilizzo di risorse esterne all'ente per lo svolgimento della propria attività. Ma il legislatore non si accontenta. E obbliga l'organo esecutivo, successivamente alla deliberazione consiliare, va da sè, a entrare nel dettaglio di quel programma (che, lo ricordiamo, di fatto già dovrebbe bastare al responsabile del servizio per sapere quando può affidare incarichi esterni) e fissare "i limiti, i criteri e le modalità per l’affidamento di incarichi (...). Con il medesimo regolamento è fissato il limite massimo della spesa annua per gli incarichi e consulenze." E non attraverso una ordinaria deliberazione, ma modificando il regolamento per l'ordinamento degli uffici e dei servizi. Se ci trovassimo ancora nel caso prima ricordato, dopo il passaggio consiliare potrebbe essere necessaria una revisione regolamentare, se la spesa per l'incarico d'emergenza facesse sforare il limite già fissato. Qui la cura e l'attenzione della struttura amministrativa deve essere ancora più vigile poiché l'affidamento di incarichi in violazione delle disposizioni regolamentari produce responsabilità contabile a carico del funzionario che ha assegnato la consulenza. Non che spetti al legislatore tipizzare il danno erariale, ma sarebbe comunque un segnale forte alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti. Le quali sarebbero informate della questione dalle sezioni cugine del controllo, alle quali gli enti sono tenuti a inviare l'estratto del nuovo regolamento. Qual è, dunque, la ratio di un tale groviglio? Non la trovo, purtroppo. L'obiettivo (condivisibile) è quello di costringere l'ente ad abbandonare l'improvvisazione come metodo di lavoro. Per quale ragione, però, si deve raddoppiare un iter comunque già articolato e confinato con la sola deliberazione del Consiglio. Quanti consulenti, a S. Silvestro, si sono visti rinnovare l'incarico per il 2008....

giovedì 17 gennaio 2008

Aspetta e spera

Come un illusionista di lunga esperienza, l’Agenzia del Territorio vuol farci credere che la dichiarazione ICI, dal 18 dicembre, non è più. In quella data, infatti, uno specifico provvedimento ha accertato che il sistema di fruizione delle banche dati catastali a favore dei comuni è ‘effettivamente operativo’. Due paroline magiche richieste dal primo Decreto Bersani per dimostrare agli enti che la carta non serve più e non è neppure necessario quindi che il contribuente si debba preoccupare di comunicare alcunché quando, ad esempio, acquista o vende un immobile. Ma si tratta di una mezza verità. Lo stesso D.L. n. 223/2006, infatti, si era già premurato di precisare che la dichiarazione cessava di esistere, sì, ma non quando gli elementi della variazione non possono essere dichiarati per via telematica, con il cosiddetto MUI. Resta così un dubbio: se in primavera arriverà il consueto decreto che approva il modello di dichiarazione. E perché non dovrebbe? Quali sono infatti gli elementi rilevanti ai fini dell'imposta che dipendono “da atti per i quali non sono applicabili le procedure telematiche previste dall'articolo 3-bis del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 463, concernente la disciplina del modello unico informatico”? Tutti quelli che non riguardano: la registrazione di atti relativi a diritti sugli immobili, la trascrizione, l'iscrizione e l'annotazione nei registri immobiliari e la voltura catastale. Dunque, non sono poche le fattispecie per le quali resta operativo l’obbligo di presentare la dichiarazione. All’appello mancano ad esempio: la richiesta per ottenere il beneficio derivante da norme agevolative o esentive; la costituzione di diritti sugli immobili diversi da quelli indicati nel D.Lgs. n. 463/1997 come il leasing o la concessione di aree demaniali; le variazioni relative agli immobili di cat. D per tutto il periodo nel quale l’imposta si calcola sul valore contabile e quindi fino alla data di attribuzione della rendita catastale; la cessazione o l’inizio dell’utilizzo di unità immobiliari come abitazioni principali; la realizzazione e la conclusione di interventi di ristrutturazione; la variazione del valore delle aree fabbricabili; qualsiasi nuovo accatastamento; le variazioni di carattere tecnico (come le variazioni nella classe catastale dell’immobile). E’ impossibile quantificarle con esattezza, ma non c’è dubbio che, complessivamente, raggiungano un considerevole numero. Con sincerità, dico subito che non mi spiace davvero constatare la sopravvivenza di una relazione in forma cartacea tra contribuente e ufficio tributi. Niente, infatti, può dare più sicurezza di un tangibile documento, sottoscritto perdipiù, non soggetto all’aleatorietà informatica di un server magari remoto. E’ proprio del contrario che mi preoccupo. Se davvero la consultazione dei dati è cosa fatta, diverso è sostenere che i dati disponibili siano aggiornati. E’ vero che non dobbiamo fare troppo gli schizzinosi, tenuto conto che la dichiarazione si presenta l’anno successivo a quello nel quale è intervenuta la variazione. Quando, però, la nostra efficienza non dipende dalle nostre elaborazioni, ma dalla solerzia di chi gestisce una banca dati centralizzata, un sottile brivido di inquietudine mi percorre la schiena. L’unica cosa di cui siamo ormai certi è che la comunicazione ICI è ormai oggetto da antiquariato. In giro per gli uffici tributi italiani ne esistono talmente tante varietà che sembra di essere all’epoca dei miniassegni (i non più giovanissimi ricorderanno), diventati in pochi anni oggetti effimeri da collezione, per lo più inutili.

mercoledì 16 gennaio 2008

Stelle e strisce

Non era necessario uno sforzo immane. Neppure ci si doveva produrre in salti mortali dialettici. Bastava certificare la giuridica verità. In quattro righe quattro, la Finanziaria 2008 chiude, così, lo sterile dibattito sulla data da cui far decorrere l’applicazione della modifica apportata all’art. 3, c. 6, L. 488/1999 dalla Finanziaria 2007, riguardante il fondo IVA servizi non commerciali. La manovra dell’anno scorso aveva aggiunto un breve ma velenoso inciso alla norma del 1999, determinando così il seguente testo aggiornato: “3. È istituito presso il Ministero dell'interno un fondo alimentato con le risorse finanziarie costituite dalle entrate erariali derivanti dall'assoggettamento ad IVA di prestazioni di servizi non commerciali, per i quali è previsto il pagamento di una tariffa da parte degli utenti, affidate dagli enti locali territoriali a soggetti esterni all'amministrazione a decorrere dal 1° gennaio 2000. Con regolamento adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro delle finanze, sono dettate le disposizioni per l'attuazione della disposizione di cui al presente comma e per la ripartizione del fondo, finalizzato al contenimento delle tariffe, tra gli enti interessati. Resta fermo quanto stabilito dal decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.” Per come era stata impostata e pubblicata, la variazione del 2006 entrava in vigore con il 1° gennaio 2007, insieme al resto della manovra 2007. Il Ministero dell’interno, al contrario, ha giocato con il fuoco sacro dei principi del diritto e si è intestardito a voler leggere nella modifica della L. 296/2006 una norma interpretativa, dunque retroattiva, addirittura all’origine del primigenio art. 3. Ben due circolari e due comunicati, infatti, hanno ronzato, nel corso del 2007, attorno al concetto secondo il quale, a seguito della modifica appena intervenuta, gli enti dovevano rettificare le certificazioni già presentate negli anni precedenti, paventando una responsabilità contabile dei sottoscrittori che non si fossero adeguati alla ferale disposizione. Con qualche perplessità, ma timorosi di una ritorsione ministeriale, una pletora di enti si è precipitata a correggere e ritrasmettere le certificazioni per i trienni già trascorsi, generando un flusso di dati che il Viminale ha accolto con riluttanza. Il finale d’anno si è poi rivelato grottesco, quando abbiamo letto il comunicato del 6 dicembre: “In relazione alla impossibilità di concludere, prima della fine dell'esercizio, le complesse istruttorie per la definizione delle singole posizioni, alla luce delle circolari FL 15/2007 e FL 18/2007, e per utilizzare entro il corrente esercizio le somme disponibili per il fondo per il contenimento delle tariffe per i servizi non commerciali, è stato disposto il pagamento di un ulteriore acconto nella misura del 40 per cento per l'anno 2006 e del 50 per cento per l'anno 2007, sulla base delle certificazioni trasmesse dagli enti locali. Si fa presente che gli importi non sono inseriti nella relativa voce di spettanza, in quanto i dati sono da considerarsi provvisori. Pertanto, si fa riserva di procedere ai sensi dell'attuale normativa ad eventuali recuperi e/o conguagli.” La smentita del legislatore era ormai dietro la porta, ma agli Interni andavano avanti per la loro strada, incuranti degli avvertimenti disseminati qua e là da soggetti più o meno autorevoli. L’immotivata cocciutaggine poteva far risparmiare tempo e risorse se solo si fosse verificata la presenza, nel fatidico comma 711, dei requisiti per poter considerare una norma come interpretativa: il principio dell’autoqualificazione. La norma che interpreta lo dice chiaramente: “il comma x della legge y si interpreta nel senso che.....”. Basterebbe leggersi l’art. 1, c. 2, della L. n. 212/2000, Statuto del contribuente: “(...) 2. L'adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica.” Così, per risolvere l’inutile dubbio, arriva (ne dubitavate?) una norma interpretativa: l’art. 2, c. 9, L. 244/2007, che invita il Viminale a prendere atto di una clamorosa svista. Vi siete persi? Non vi preoccupate, le certificazioni inviate negli anni scorsi restano valide e i contributi già erogati non dovranno essere rideterminati. Al Ministero, però, dovrebbero garantirci che le certificazioni inviate in questi mesi saranno considerate carta straccia, perché prodotte sotto l’influenza di una valutazione erronea. Ci spettano, infatti, tutte le somme stanziate.

martedì 15 gennaio 2008

Quell’ultimo ponte

“Innanzitutto, salviamo le apparenze”. Avesse uno stemma araldico, questa Finanziaria avrebbe già trovato il motto adeguato da fissarvi sopra, a caldo. Non di meno, se c’è un tema dove, negli ultimi mesi, pare che la sostanza abbia lasciato definitivamente posto alla più evanescente forma è quello della finanza derivata. Così, leggendo con attenzione interessata i quattro commi ad essa dedicati dalla L. 244/2007 (dal 381 al 384), non si può fare a meno di pensare a una spoglia finestra, alla quale mani di buon gusto hanno appeso sontuose tende e appoggiato rigogliosi vasetti di primule e viole. Le buone intenzioni, infatti, traboccano da quel testo. A cominciare dall’incipit, imperioso e solenne: che predica la massima trasparenza nella stipula di contratti (anche) di finanza derivata. Questo principio si offre così in pasto alle decine di istituti di credito pronti a sfidare qualsiasi tribunale pur di sostenere che i propri contratti sono come cristallo. Certo, trasparenza è altro da chiarezza. E possono ben dirlo quei responsabili finanziari di enti locali che hanno, loro malgrado, sottoscritto clausole scritte in modo impeccabile, ma per lo più incomprensibili a chi non abbia almeno un MBA in finance & banking management alla Bocconi. Se tutti i contratti sono trasparenti per definizione, perché ciò che non è indicato espressamente non può essere opposto in giudizio, bisogna fare un passo in avanti, entrando nel merito. Il comma 382, a proposito, integra ciò che due finanziarie fa si obbligava gli enti a fare: comunicare al Ministero dell’Economia e delle Finanze la bozza dei contratti non ancora perfezionati per ottenere una sorta di beneplacito ufficiale. Ora, oltre a ciò, il Ministero dovrà verificare che nel contratto siano riportati tutti gli elementi minimi richiesti. Non sappiamo ancora quali siano, in dettaglio, questi elementi: manca (neppure a farlo apposta) uno specifico decreto. Per il quale si ripete ciò che è già accaduto per i pagamenti supra 10.000 euro: in sua assenza la norma non può essere applicata. Qualche smaliziato operatore ha, in un recente passato, provato ad aggirare l’ostacolo, firmando il contratto lo stesso giorno in cui lo ha inviato al Ministero, pensando così di aver regolarmente assolto ai propri obblighi e rischiando, al contrario, di far cadere addosso all’incauto sottoscrittore la mazza della responsabilità contabile, in caso di rilevate irregolarità. Supponiamo, però, che diligentemente il funzionario abbia atteso il placet ministeriale prima di chiudere l’accordo. Non potrà comunque esimersi, d’ora in poi, dall’attestare esplicitamente di “aver preso piena conoscenza dei rischi e delle caratteristiche” dei contratti stipulati, “evidenziando in apposita nota allegata al bilancio gli oneri e gli impegni finanziari derivanti da tali attività.” Ciò vale senz’altro anche per i contratti rinnovati: i quali, altro non sono che nuovi contratti, dunque ordinariamente soggetti alla nuova disciplina. Questo ulteriore impegno va oltre la diligenza del buon padre di famiglia, poiché per avere ‘piena conoscenza’ dell’alea sottostante un contratto ad esempio di swap può essere indispensabile possedere capacità divinatorie, considerata la volatilità inafferrabile dei tassi d’interesse. Certo, le curve di proiezione statistica in possesso degli istituti di credito sono la base sulla quale questi ultimi valutano la redditività dei loro impieghi in contratti di finanza derivata e dunque sono, in certa misura, già determinate. Ciò non toglie che l’unico modo per togliersi da qualsiasi impiccio sarebbe quello di non stipulare contratti di questa natura. Ma questa soluzione può avere senso solo a patto che il legislatore decida di impedire agli enti di giocare d’azzardo. Finché non lo farà, ci si deve appellare esclusivamente al buon senso. Stipulare, se proprio lo si ritiene opportuno, contratti ‘plain vanilla’, senza somme in up-front, e utilizzando le differenza positive in parte per spese d’investimento, in parte come accantonamento fondo rischi. Come dite? Che se non si guadagna su questi contratti, non c’è motivo di stipularli? Fate un paio di telefonate alla Corte dei conti, chiedendo qualche informazione. Poi, ne riparliamo.

lunedì 14 gennaio 2008

Avanti l’unione....

L’esercito delle interpretazioni di comodo sta già organizzando l’invasione della Finanziaria 2008, via terra, via mare, ma soprattutto via aria. Impossibile, infatti, impedire che le letture, diciamo così, personalizzate di un testo illeggibile si diffondano senza controllo, e con ogni mezzo. La resistenza non si sta organizzando, però. Dai ministeri, infatti, non si stanno levando voci autorevoli a frenare l’assalto di truppe maliziosamente attrezzate. Oppure, novelli carbonari, stanno lavorando in silenzio per zittire tutti in una sola occasione, con una mega-circolare omnicomprensiva. Nel frattempo però tutto è permesso, leggendo casualmente i commi. Ad esempio, l’art. 2, c. 28 (di imprevedibile comicità, a pensarci bene) contiene l’ormai nota selezione innaturale delle forme associative degli enti locali. Ai quali è stato assegnato un termine breve di tre mesi per decidere, in modo del tutto discrezionale, se aderire a consorzi, unioni di comuni oppure gestioni associate di servizi. Scorrendo letteralmente il testo, potrebbe sorgere un dubbio: il legislatore intendeva dire che l’ente può scegliere di aderire a (ad esempio) un consorzio oppure che esso può scegliere di associarsi solo (sempre ad esempio) nella forma del consorzio? A tradire le reali intenzioni del redattore non basta purtroppo la motivazione dichiarata in apertura: “Ai fini della semplificazione della varietà e della diversità delle forme associative comunali e del processo di riorganizzazione sovracomunale dei servizi, delle funzioni e delle strutture (...)”. Tutto si tiene, in questo paragrafo, e per semplificare la diversità potrebbero essere attuate a ragione entrambe le ipotesi. Mancano, inoltre, nel testo pubblicato e ripubblicato in Gazzetta, i lavori parlamentari che potrebbero risolvere qualche dubbio. Se abbiamo rilevato l’involontaria ilarità suscitata dal comma 28, non è per caso. E’ davvero singolare, infatti, che dopo anni nei quali l’ordinamento è stato modellato proprio per stuzzicare negli amministratori la voglia di associarsi, con l’intento economicamente sensato della razionalizzazione della spesa e delle risorse, si produca un voltafaccia così drastico e privo di qualsiasi logica amministrativa. Cosa si spera di ottenere, innanzitutto, dalla riduzione dell’associazionismo locale? Una limitazione di costi, certo. La quale però non si produrrà inevitabilmente. Ciò che l’ente non potrà più fare insieme ad altri suoi pari, dovrà organizzare da solo (presumendo che il servizio interessato sia in ogni caso necessario per la collettività). Come questo possa risultare compatibile con un risparmio di risorse è davvero incomprensibile. Si può invece sorridere irritualmente sulla presunta semplificazione della varietà. Come se frammentare in dieci consorzi le proprie funzioni (o concentrarle in uno solo) fosse un sistema più efficiente a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Mi sembra che, con questa disinvoltura, vada a farsi benedire la pretesa di dare agli enti patenti di legittimità nel modo in cui gestirsi. Come dovrebbero regolarsi gli amministratori di fronte a un’imposizione che, dal 1° aprile (data eminentemente simbolica, a pensarci bene), renderà nulli gli atti amministrativi delle associazioni se una decisione per allora non sarà stata presa? Tutta questa fretta non ha alcuna ragione d’essere. Consorzi, unioni e associazioni non sono state costituiti dal giorno alla notte: per quale motivo, dunque, si dovrebbe procedere al loro scioglimento con questa celerità? Preoccupa, in particolare, la totale assenza di indicazioni sui criteri che dovrebbero informare le scelte degli enti su quali forme mantenere e quali no. Significa che al legislatore non interessa la logica della selezione ma solo l’effetto quantitativo, dal quale si salvano i consorzi nati in base a una legge nazionale o regionale e quelli in materia di organizzazione e gestione del servizio idrico integrato e del servizio di gestione dei rifiuti, esclusi dall’eliminatoria ex lege. Il finale non è ancora stato scritto. In mancanza di proroghe, siamo almeno creditori di una spiegazione: prima del 31 marzo, però.

venerdì 11 gennaio 2008

La canzone resta la stessa

E' curioso il percorso che il legislatore ha fatto fare agli oneri di urbanizzazione (posto che li si possa ancora chiamare così). La norma che li istituì, più di trent'anni fa, prevedeva che i proventi delle concessioni edilizie e delle realtive sanzioni si dovevano versare sull'apposito conto corrente vincolato presso la tesoreria comunale e avevano una destinazione tassativa: realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali di attuazione. Nient'altro. Per anni, dunque, a nessuno venne in mente di utilizzare quelle somme per spese che non fossero d'investimento e addirittura legate a filo doppio all'urbanizzazione del territorio. Nell'estate del 1986, però, questa certezza si incrinò e, per la prima volta, fece capolino la deroga che ancora ci perseguita, nel bene e nel male. L'art. 16-bis, D.L. 1° luglio 1986, n. 318, integrando la norma originaria, attribuì agli enti la facoltà di finanziare le spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale con i proventi delle concessioni edilizie "nel limite massimo del 30 per cento". Non era un'eccezione di poco conto, poiché in quegli anni la spinta all'urbanizzazione si faceva davvero potente e la mucca da mungere garantiva una produttività a lungo termine. La scelta della deroga, tuttavia, ebbe fin dall'inizio il sapore del rimorso. I contributi erariali non aumentavano, l'ICI non esisteva ancora, i mezzi di finanziamento della spesa corrente erano limitati e quest'ultima cominciava a lievitare, conseguenza di una progressiva tendenza alla decentralizzazione che sarebbe poi sfociata di lì a poco nella L. 142/1990. L'erario, dunque, utilizzò la zeppa degli oneri di urbanizzazione per riparare la sua indolenza nel risolvere i primi seri problemi di bilancio degli enti locali. Quel rimedio, purtroppo. si consolidò, tanto è vero che non si trovava un comune che non utilizzasse gli oneri per finanziare la manutenzione ordinaria neppure pagando. A quel punto, dopo dieci anni di deroga parziale, gli argini della spesa si erano lasciati andare e la Finanziaria 1998 provvide a eliminare il sempre più sottile velo di ipocrisia che separava gli enti dall'erario e consentì l'utilizzo di quei proventi "anche" per la manutenzione ordinaria, senza limiti che non fossero dettati da altre norme (l'accantonamento per l'eliminazione di barriere architettoniche, ad esempio, oppure la realizzazione di opere di culto). A questo punto, toccato il punto di non ritorno, c'era una sola cosa da fare: levare a queste entrate l'etichetta di 'straordinarie', assimilandole a un qualsiasi altro provento corrente. Dopo l'entrata in vigore del Testo unico per l'edilizia, anche l'ultimo tabù fu rimosso, abrogando con la L. 10/1977 anche il conto corrente vincolato. Con buona pace di chi, fino a quel momento, aveva sperato in un sussulto di decenza economica per conservare a quelle entrate almeno lo status di non ripetibili. Il conflitto continuò, poiché il Ministero dell'interno, approvando i due certificati obbligatori a preventivo e consuntivo, ha sempre preteso di reintegrare gli oneri nei ranghi delle entrate da titolo IV. Così, le deroghe che si sono succedute fino ad oggi, compresa quella dell'ultima Finanziaria (art. 2, c. 8), perpetuano il dubbio che nessuno abbia ancora le idee chiare. Entrate correnti o entrate in conto capitale? Propendiamo ovviamente per quest'ultima interpretazione, tenendo conto della assoluta aleatorietà dell'introito e dell'impossibilità di programmarne il gettito a medio termine. E' un dilemma però che vive perennemente sospeso tra il pudore del ragioniere che, con la riluttanza di chi ha ancora in testa un briciolo di teorico buon senso economico, utilizza in deroga i proventi delle concessioni e la (quasi) inevitabile necessità di farlo per la cronica deficienza di risorse.

giovedì 10 gennaio 2008

Motori a scoppio

Facendo gli opportuni scongiuri, abbiamo atteso speranzosi che nel supermercato delle proroghe gli avessero riservato un posticino. Invece, nulla. C'è sempre qualche mese di mezzo, è vero. Peraltro, non è opportuno, nel frattempo restare con le mani in mano, dunque tanto vale non pensarci più e rimboccarsi le maniche. L'invio telematico degli elenchi di utenti TARSU e TIA, previsto per i dati 2007 entro il vicinissimo 30 aprile, è stato il colpo di coda dell'Agenzia delle entrate, prima della pausa natalizia. Il provvedimento 11 dicembre 2007 è infatti calato in Gazzetta sotto S. Stefano e ci ha ricordato che non bisogna mai sottovalutare il legislatore, la cui memoria è davvero di ferro, in alcune imprevedibili circostanze. Qui si trattava di chiudere un cerchio aperto dalla Finanziaria 2007 e che, solo in apparenza, coinvolgeva in modo marginale le amministrazioni. In realtà, non vi era ragione per dubitare seriamente della portata globale dell'adempimento, e così, quando avevamo ormai rimosso quei tre vecchi commi della L. 296/2006, ne dobbiamo invece saggiare tutto il pepato sapore. I gestori del servizio di smaltimento rifiuti solidi urbani, infatti, sono certamente le società partecipate alle quali, in molti casi, gli enti passati a tariffa (sempre Ronchi, naturalmente) hanno trasferito oneri e onori del fardello maleodorante. Ricordiamo però che la maggioranza degli enti locali gestisce direttamente (nel senso che la stazione appaltante è il comune) il servizio e ne introita la tariffa o (come accade in una percentuale sorprendentemente elevata) la tassa. Questa distinzione, poi, potrebbe non essere di alcun sollievo per i comuni esternalizzanti, poiché per elaborare la serie di dati richiesti dal provvedimento sarà indispensabile una collaborazione attiva dell'ente d'origine. Se scorriamo il tracciato record predisposto per la procedura troviamo, infatti, tutti gli elementi tipici di una scheda catastale (Codice Comune Catastale, Tipo Unità, Sezione, Foglio, Particella, Estensione particella, Tipo Particella, Subalterno, Via/Piazza/Corso, n. Civico, Interno, Scala). Se per recuperare alcuni di questi basta rielaborare il ruolo ordinario 2007, per altri è comunque necessario un collegamento con, ad esempio, la banca dati per la gestione dell'ICI, non appannaggio del gestore esterno del ciclo rifiuti. A preoccupare, soprattutto, tutti gli enti è il dettaglio nel quale è obbligatorio scendere per poter inviare un elenco completo e ben formato. Oltre agli elementi catastali, ci si deve industriare, tra l'altro, per recuperare il titolo giuridico dell'occupazione dei locali (locazione, usufrutto, diritto di abitazione, proprietà), non sempre disponibile tra quelli previsti in un software gestionale medio per la gestione della TARSU o della TIA. Come rilevavamo qualche settimana fa, il punto cruciale è ancora una volta rappresentato dalla impossibile risposta alla domanda: ma perché non se li recuperano da soli, i dati? Quelli dei ruoli esattoriali, infatti, sono disponibilissimi: li elabora la monopolista Equitalia. Quelli catastali, poi, sono di proprietà dell'Agenzia del Territorio: e negli ultimi anni sono anche stati sottoposti ad uno svecchiamento salutare, benché parzialmente tardivo. Difficile concepire domanda più retorica di questa, però. E allora, la sola via plausibile è quella di fare lavorare sin da ora gli informatici, che sentitamente ringraziano per l'insperato fatturato d'inizio anno, per incrociare e confrontare i database ad oggi manipolabili. Abbiamo, da un lato, i file di testo che servono da starter per far elaborare i ruoli al concessionario e quelli in formato altrettanto leggibile forniti dal catasto anche per i controlli sull'ICI. Purtroppo, il confronto non potrà esaurire le esigenze dell'Agenzia e un lavoro di integrazione (grande o piccolo che sia) si dovrà pur mettere in cantiere. E non ci salva dall'impiccio sapere che, dal prossimo anno, la comunicazione sarà esclusivamente limitata alle variazioni rispetto al 2007: una sintonia fine dei dati recuperati per quest'anno si dovrà affiancare comunque ad un esame di tutti i dati. Nell'attesa (probabilmente ancora lunga) che il Codice dell'Ambiente sia finalmente in pieno vigore.

mercoledì 9 gennaio 2008

Noci di burro

Come la mettiamo con le sanzioni alle violazioni del Codice della strada? Si allunga la fila di coloro che hanno capito fischi per fiaschi e, contemporaneamente, le voci che tentano di riportare la vicenda a una dimensione corretta sono ancora troppo poche. La contesa ruota attorno al criptico comma 153 della recente Finanziaria e, attentamente considerata la sua involuta progressione, non stupisce che lo si sia letto con sufficienza e distrazione. Mi risulta, però, che la legge non ammetta ignoranza. Ciò significa tutto sommato che, almeno, il senso compiuto delle norme debba essere salvaguardato. Invece, a forza di semplificare, si accresce il dubbio che, come sostenuto dai suoi superficiali esegeti, quel comma riduca a due gli anni entro i quali, a pena di prescrizione, gli enti locali devono compilare i ruoli delle relative sanzioni. E’ proprio ‘semplificare’ la parola chiave, qui. Capisco la fretta che, nei primi giorni, può aver travolto ogni intenzione di approfondire, pur di compilare rapidamente lo spazio assegnato dal caporedattore di turno. Ma l’ostinazione a voler far finta di niente è sul serio diabolica. Se, come abbiamo già cercato di spiegare, al centro della norma c’è una specie di sanatoria di ruoli emessi molto tardi rispetto alla consegna del tracciato da parte dei comuni, all’epoca delle acquisizioni societarie operate da Equitalia nei confronti dei vecchi concessionari, perché diavolo si perseveri in un fragoroso silenzio, davvero non si comprende. Tanto più che dovrebbe essere proprio nel migliore interesse delle testate economico-finanziarie risolvere le questioni controverse, con il vantaggio di poterne poi rivendicare la primogenitura. Certo, in questo caso è possibile che una goccia di pudore abbia trattenuto i responsabili delle specifiche pagine a proporsi come rammendatori del buco. Ma è una favoletta che dura pochi secondi, il tempo necessario a rammentare che pochi lettori sono di così corta memoria come quelli italiani, e dunque la castroneria scritta ieri può ben essere cancellata dalla successiva delucidazione, senza neppure l’ombra di un velato mea culpa. E poi, che cosa può importarci del pentimento e della contrizione del giornalista. Si sbaglia tutti, dunque ben vengano le correzioni in rotta. E’ quando non arrivano che comincio a preoccuparmi. Ci vuol davvero tanto a riprendere quelle (poche) righe e fare uno sforzo di lettura supplementare? Non vorranno farci credere che sono ancora convinti di aver visto giusto? Se non vogliono che il panico serpeggi a lungo, propongo una lettera circolare da diffondere entro 48 ore per chiudere la questione una volta per tutte. “A tutti gli uffici interessati. Si comunica che la lettura finora proposta dell’art. 1, c. 153, L. 24 dicembre 2007, n. 244 deve considerarsi revocata. Nessuno è autorizzato a considerare prescritte le sanzioni per violazione delle norme del Codice della strada di cui al D.Lgs. n. 285/1992 se messe a ruolo entro due anni dall’elevazione. Continua a restare in vigore, infatti, la prescrizione di cinque anni stabilita dall’art. 28, L. 689/1991. La portata della norma contenuta nella Finanziaria 2008 deve ritenersi circoscritta all’eventualità che: 1) l’ente locale abbia trasmesso il ruolo per la riscossione delle sanzioni in argomento nei tempi previsti dalla L. 689/1981, ma 2) il concessionario per la riscossione non abbia, al momento dell’acquisizione da parte di Equitalia Spa, ancora notificato le corrispondenti cartelle esattoriali, pur essendovi tenuto, lasciando che a ciò provvedesse successivamente la stessa Equitalia. Infine che 3) da quando il comune ha trasmesso il ruolo, al momento dell’acquisizione di cui al punto 2, siano trascorsi almeno due anni. Solo in presenza di tutte le tre condizioni appena elencate, l’agente della riscossione, ormai alle dipendenze di Equitalia Spa, dal 1° gennaio deve sospendere qualsiasi attività di recupero di quelle somme, benché iscritte a ruolo. Solo questo dice il comma 153, ogni altra interpretazione non sarà avallata. Dipartimento dell'interpretazione letterale

martedì 8 gennaio 2008

Centro di gravità permanente

Se dovessimo catalogare l’ultima Finanziaria sulla base degli argomenti più trattati, avremmo già pronta l’etichetta con sopra una bella P. P come Personale. A differenza di quella dello scorso anno, intrisa di novità per gli uffici tributi, quella per il 2008 non risparmia alcuna freccia all’arco delle risorse umane. Che si tratti di lavoratori dipendenti oppure di incarichi professionali, di stabilizzazioni o di assunzioni, di collaborazioni coordinate o sostituzioni di maternità, ce n’è davvero per tutti i gusti. Quasi tutti, a dir la verità, senza zucchero. Il bello, tuttavia, sta in ciò che non c’è, o meglio che era previsto un anno fa, ma che era rimasto nel dimenticatoio, a causa di un’entrata in vigore non immediata. Puntualmente, quest’ultima è ora maturata (l’ora X scatterà il prossimo 1° marzo) e la Funzione pubblica si dilunga in una nota fresca di giornata a spiegarne le conseguenze. Si tratta della comunicazione obbligatoria a carico del datore di lavoro da presentare entro 48 ore al Centro per l’impiego competente, riguardante una serie non breve di eventi e situazioni, elencate nella circolare e dei quali sarà il caso di prendere buona nota, poiché, a parte qualche sporadica eccezione, ci coinvolgono in modo diretto. L’obiettivo della norma originaria (Art. 1, cc. 1180-1185, L. 296/2006) è chiaro: in un mondo del lavoro viziato da perenne indolenza sul rispetto della disciplina previdenziale e assistenziale, è indispensabile attivare un sistema di controlli che renda responsabili tutti i datori di lavoro pubblici e privati, obbligandoli a monitorare per conto delle autorità centrali ciascun movimento di personale. Nessuna eccezione, quindi, tra enti pubblici o privati e non pare proprio il caso di eccepire alcunché sul punto. Dal punto di vista procedurale, tuttavia, vien da chiedersi se il moltiplicarsi all’infinito delle comunicazioni non rappresenti un movimento all’indietro nel tormentato percorso verso lo snellimento amministrativo. Lo dico senza ironia, consapevole che le buone intenzioni del legislatore si propongono esplicitamente di introdurre un onere supplementare a carico del datore di lavoro. Innanzitutto, i contratti da monitorare sono sia quelli di lavoro dipendente (a tempo determinato o indeterminato, occasionali o di formazione e lavoro), sia quelli di collaborazione. Tutte forme giuridiche ben note e utilizzate dagli enti locali. Sfogliando, poi, la lista degli eventi riferiti a quei contratti che, nei due giorni da loro verificarsi, sono suscettibili di comunicazione troviamo di tutto: la trasformazione da tempo determinato a tempo indeterminato; la trasformazione da tempo parziale a tempo pieno; la trasformazione da contratto di apprendistato a contratto a tempo indeterminato; la trasformazione da contratto di formazione e lavoro a contratto a tempo indeterminato; il trasferimento del lavoratore; il distacco del lavoratore; la modifica della ragione sociale del datore di lavoro; il trasferimento d'azienda o di ramo di essa. Alcune di queste, obiettivamente, teoricamente possibili, hanno una ridottissima probabilità di realizzarsi (vedasi una nuova ragione sociale dell’ente), altre non sono proprio possibili giuridicamente, e la stessa Funzione pubblica lo ricorda: le assunzioni a tempo indeterminato non possono mai avvenire attraverso la trasformazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato, restando inevitabile l’espletamento di una procedura concorsuale. Il nucleo centrale delle informazioni da trasferire al Centro per l’impiego resta comunque sostanzioso e l’unico sollievo è rappresentato dall’indicazione che, con questa comunicazione, si assolvono gli obblighi analoghi nei confronti dell’INPS, dell’INAIL, della Prefettura e delle Direzione provinciali del Lavoro. Ormai abolito il metodo cartaceo, resta l’esclusivo sistema telematico, che dovrebbe assicurare celerità e, soprattutto, sicurezza nel passaggio di dati più che sensibili. Non ci dispiacerebbe che, per una volta, se ne facesse un uso razionale e, una volta acquisiti, non fossero blindati e resi inaccessibili ad altre diramazioni ministeriali per elaborazioni di altro tipo. E’ chiedere troppo?

lunedì 7 gennaio 2008

Convenzione democratica

Un colpo al cerchio e uno alla botte. Si potrebbe riassumere, talvolta, con una trita frase fatta, l'atteggiamento dell'Agenzia delle entrate di fronte ai quesiti di enti pubblici e privati. Nel senso che messa in condizione di applicare una norma particolare a una specifica fattispecie, spesso si rifugia in un comodo cantuccio, e si trova d'accordo con l'interpretazione fornita dal richiedente, ma anche (scusate il veltronismo) in disaccordo. Certo, non l'aiutano gli interpellanti, quando sottopongono all'Agenzia situazione mal definite o, peggio, genericamente delineate, di modo che una risposta precisa e inequivocabile diventa impresa improba anche per il funzionario meglio intenzionato. Una delle ultime risoluzioni del 2007, la 28 dicembre 2007, n. 394/E, affronta un vecchio tema, caro a tutti gli uffici ragioneria: quello delle delegazioni comunali e della loro definizione compiuta. Il punto di osservazione, in questo caso, è quello di chi deve applicare l'imposta sul valore aggiunto. Un comune intende realizzare una nuova sede della Polizia municipale e chiede all'Agenzia se sia possibile applicare l'aliquota agevolata del 10%, ritenendo plausibile configurare la sede in questione come 'delegazione comunale'. Il comune, in realtà, si è già portato avanti, avendo nel frattempo provveduto a deliberare il progetto dell'opera con un quadro economico nel quale è prevista l'aliquota ridotta, trattandola come "di urbanizzazione secondaria in quanto trattasi di delegazioni comunali". Sarebbe tutto semplice se non fosse che, come accade non di rado, il legislatore si è preoccupato di dire (attraverso una prassi consolidata) che cosa non è 'delegazione', piuttosto che darne una definizione in positivo. In questo modo, l'Agenzia ha buon gioco nel sostenere la tesi (restrittiva) secondo la quale può definirsi a buon titolo delegazione comunale esclusivamente quelle sedi "dirette ad agevolare, attraverso il decentramento dei servizi, gli utenti che possono in tal modo utilizzare gli uffici del territorio anziché quelli della sede centrale." Se non ci si può discostare da questa posizione, una sede di Polizia municipale non vi potrà rientrare, poiché si tratterebbe "semplicemente e meramente di un edificio riferibile all’ente pubblico, nel quale trova sede uno degli organismi comunali e, quindi, alla realizzazione dello stesso si renderebbe applicabile l’IVA nella misura ordinaria." Eppure. L'Agenzia pare non avere troppa voglia di crearsi nemici indesirati. O piuttosto non vuole che l'istituto dell'interpello sia visto come lo spauracchio del contribuente medio. E così, accanto a una porta che si chiude inesorabilmente, se ne apre un'altra con l'allettante controproposta: se la delegazione non va alla Polizia, che la Polizia vada alla delegazione. Ciò che un attimo prima era impossibile, "attesa la tassatività dell’elenco di cui al citato articolo 4 della legge n. 847 del 1964", si può ancora realizzare. Basta che "il costruendo immobile costituisca sede decentrata degli uffici di polizia e di vigilanza urbana al servizio diretto della collettività, nell’accezione innanzi data di delegazione comunale". Si corre il rischio, qui, di concludere che l'interpretazione restrittiva può essere facilmente smentita dalla realtà. E consentire un utilizzo estensivo della norma, potendosi ben verificare che la nuova sede sia edificata lontano dal municipio, perché così ritenuto economicamente efficiente dall'amministrazione. Così, se anche questa fosse l'unica struttura dove la P.M. esercita la propria attività, chi potrà mai contestare che non si tratta di sede decentrata e, soprattutto, che non sia al servizio diretto della collettività? Peccato che la richiesta del comune fosse molto chiara: costruiranno la sede della Polizia, non un distaccamento. Speriamo, almeno, che le somme a disposizione siano sufficienti.

venerdì 4 gennaio 2008

Concessioni governative

Non dovendo gestire direttamente l’IRAP, gli enti comunali non hanno mai prestato particolare attenzione ai suoi aspetti più viscerali, optando per una normale e attenta verifica degli adempimenti a loro carico (versamenti mensili, dichiarazione annuale, eventuale opzione per il metodo commerciale). Tuttavia, il tributo in questione rappresenta una sorta di avanguardia fiscale poiché le Regioni ne hanno sempre sbandierato l’uso per finalità di carattere sociale, soprattutto dopo che l’Unione europea l’aveva etichettata come anticostituzionale, almeno per giustificarne il peso sulle attività produttive colpite. Trattandosi di introiti gentilmente concessi dall’Erario, però, non era consentito concepire varianti all’imposta per sopperire a nuove necessità di spesa. Ora, la Finanziaria approva una operazione che si delinea immediatamente come di pura cosmesi, nonostante sia presentata come un passaggio di consegne da una gestione centralizzata ad una su base locale. L’art. 1, commi 43-44-45, L. n. 244/2007, infatti, proclama che dal 1° gennaio 2009 l’IRAP si configura come tributo istituito dalle singole Regioni. La motivazione del provvedimento discende dalla prossima adozione del disegno di legge sul federalismo fiscale che, in qualche modo, dovrebbe assegnare a ciascun livello di amministrazione locale il grado di autonomia utile a programmare le proprie entrate. Appena ci si addentra nel testo, però, si scopre in rapida successione quanto segue: 1. le Regioni non possono modificare la base imponibile; 2. le Regioni hanno la facoltà di introdurre e modificare l’aliquota, le detrazioni e le eventuali agevolazioni d’imposta, purché entro i limiti fissati dalla legge dello Stato. Intanto, qualche comma più in là, si decide che nel 2008 l’aliquota si riduce al 3,9% per coloro che applicano il metodo commerciale, oltre a mettere ordine nella determinazione della base imponibile. Non mi è mai risultato particolarmente chiaro il percorso logico del legislatore quando si tratta di delega di imposizioni tributarie. Perché invece di tracciare una linea retta tra tributi esclusivamente statali e tributi esclusivamente locali, ha sempre preferito rimanere sul filo sottile dell’ambiguità, dicendo alle autonomie locali in relazione al singolo tributo: questo lo faccio io, questo lo fai tu. Il modus operandi appena descritto vale per quasi tutte le fattispecie impositive (gli esempi macroscopici di IRPEF e ICI lo testimoniano in modo illuminante). Questa fondamentale ipocrisia era già sostanzialmente illegittima prima delle modifiche all’assetto costituzionale, poiché un tributo può, a buon titolo, definirsi, ad esempio, comunale se l’ente lo può gestire sul serio, non solamente se beneficia del relativo gettito. Così, oggi, l’autonomia fiscale locale rappresenta comunque un concetto parziale, perché ci sarà sempre un vincolo di una qualche specie all’origine, per frenarne l’autonoma variabilità. Si perpetua, in questo modo, la cattiva abitudine di considerare gli enti locali poco virtuosi a prescindere, quindi incapaci di tenere a freno l’istinto di aumentare indistintamente le aliquote, a danno dell’unico obiettivo condiviso: il rispetto dei vincoli del patto di stabilità. Ma questo pregiudizio, invece di essere risolto in modo netto, impedendo (al limite) agli enti di intervenire su qualsiasi tassa o imposta, viene continuamente barattato con piccole dosi di autonomia fiscale, facendo credere che i livelli amministrativi siano assolutamente distinti. Esso si scontra, infatti, con l’autonomia di fatto garantita ex Costituzione. Per conciliare le due opposte ragioni, in maniera finalmente non contraddittoria, serve ben più che una ripulitura linguistica. E considerando la centralità della carta fondamentale nell’ordinamento giuridico, chi dovrebbe fare almeno un passo indietro è proprio il legislatore. Poi, si va a vedere l’art. 1, c. 52, scoprendo che, dal periodo d’imposta 2008, la dichiarazione ai fini IRAP non deve essere più presentata in forma unificata. Ci mancherebbe, l’imposta diventa regionale, che motivo c’è di comunicarne i dati all’Agenzia delle Entrate? Della duplicazione degli adempimenti, dunque, poco importa al legislatore (la dichiarazione IVA, infatti, dovremo pur sempre presentarla e non è detto che le scadenze risulteranno uniformate). I governatori, nel frattempo, ringraziano. Noi, un po’ meno.