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venerdì 28 settembre 2007

Naturalmente, quindi

Mettete attorno a un tavolo un pugno di magistrati della Corte dei conti, aggiungete alla torta la candelina del suo Presidente in carica e un membro della magistratura contabile europea. Fateli parlare per un'intera giornata, a tutto campo, di controlli sull’attività delle autonomie locali.
Quale esito vi attendereste? Probabilmente una noiosa interminabile giornata, ricca di dissertazioni in legalese stretto e di sbadigli (in aula). Sbagliato. Non so se il merito principale va ascritto ai colori e profumi autunnali trentini oppure a quella fresca brezza che fin dal mattino ha costretto tutti ad armarsi di soprabito, fatto sta che le due sessioni di lavori del venerdì hanno regalato più di un brivido istituzionale ai partecipanti e la scoperta, nell’intervento di chiusura, di un insospettato talento attoriale. In ogni caso, poco fumo e un arrosto dal sapore deciso.
Non foss’altro per la generosa attitudine di tutti i relatori (nessuno escluso) a mettersi per una volta dalla parte dei giudicati e ammettere che il lavoro dell’amministratore locale (si legga, per favore, anche ‘funzionario’) è spesso opera improba. Dai miei appunti sparsi riporto affermazioni del tipo: “Anche la funzione giurisdizionale è a tutela delle amministrazioni.”; “Più richieste di pareri riceviamo, più siamo contenti.”; “L’estensione dei controlli preventivi ha lo scopo di correggere per tempo l’azione amministrativa non conforme.” Parrebbero semplicemente petizioni di principio, pronunciate per adulare un uditorio che (come ha sagacemente osservato un sindaco locale) della Corte vede solo il versante ‘capestro’ per l’amministratore locale. Invece sono state sinceramente corroborate da almeno due considerazioni forti.
La prima, a cura del presidente della sezione di controllo lombarda Nicola Mastropasqua, ha messo in evidenza la fenomenale contraddizione che talvolta emerge fra l’esigenza di rispetto delle norme e l’obbligatoria repressione del danno erariale, citando due esempi attuali e pertinenti. Il caso degli enti soggetti al Patto di stabilità, i quali, per evitare le sanzioni applicate in caso di violazione di quest’ultimo, bloccano i pagamenti a residui in conto capitale, incorrendo però in questo modo nella fattispecie di danno erariale causata dagli interessi di mora addebitati inevitabilmente dai fornitori. Ma pure il caso, altrettanto paradossale, del Comune con quattro dipendenti, obbligato come gli altri a riportare la spesa per il personale sostanzialmente ai livelli del 2004, nonostante nel 2005 abbia assunto un quinto elemento. Si chiede Mastropasqua, cosa dovrebbe fare l’ente? Licenziare un dipendente? Il magistrato non ha (né avrebbe realisticamente potuto) fornito la soluzione dell’enigma. Tuttavia, è sceso dal piedistallo e ha implicitamente riconosciuto che la cattiva scrittura delle norme di legge produce, infine, mostri giuridici ai quali è arduo porre rimedio.
La seconda considerazione è venuta dall’oratore più giovane e più brillante, chiamato a dissertare di conti giudiziali e agenti contabili. Posto che la sproporzione fra conti da verificare e risorse a disposizione è enorme (2.000 a 3), il magistrato ha messo sul piatto una proposta assolutamente concreta. Invece di obbligare le sezioni a verificare tutti i conti degli agenti contabili (e a rispedire al mittente quelli che, e sono la maggior parte, è impossibile esaminare e che dunque si estinguono), fate in modo che se ne debba controllare solo una quota a campione. Si otterrebbero migliori analisi e i 60.000 euro di raccomandate risparmiate potrebbero essere utilizzati per assumere un paio di magistrati in più. E’ una proposta così sensata che, temo, non verrà mai presa in considerazione.
Un simposio senza difetti, allora? Non proprio. La deformazione professionale inevitabilmente si è riverberata nel simpatico duetto messo in scena a metà pomeriggio da un magistrato del controllo e uno del giudizio. Quest’ultimo ha invocato la clausola di salvaguardia: se voi del controllo date pareri a raffica, poi si rischia che gli enti li utilizzino per precostituirsi un alibi in successivi ed eventuali giudizi per danno. Bella la funzione consultoria, basta che non pesti i piedi a quella requirente, insomma.
Però, quando abbiamo scoperto che i magistrati delle varie sezioni hanno aperto sulla loro rete intranet un forum (a quanto pare usatissimo) per scambiarsi opinioni e pareri sulle decisioni da prendere, un verde lampo di speranza si è acceso nella sala: la P.A. informatica esiste.

giovedì 27 settembre 2007

Chimera

Ci avviciniamo al decimo compleanno del Patto di stabilità interno e ancora nessuno gli sta organizzando la festa. A dire il vero, dopo quasi due lustri, ha subito tanti e tali aggiustamenti che la creatura del 1999 ha poche similitudini con quella del 2007. L’unica caratteristica che mette generalmente tutti d’accordo è la sua impopolarità. Inevitabile, data la natura punitiva del Patto. Checché se ne dica, infatti, i cordoni della borsa si sono progressivamente stretti, obbligando gli enti interessati a frequentare un corso accelerato di acrobazia contabile per giungere alla meta ancora tutti interi. C’è ovviamente, come in ogni buon testo teatrale, il lato comico-surreale, rappresentato in questo caso dalla scomparsa improvvisa delle sanzioni a carico degli inadempienti del Patto per il 2006, unico vero deterrente alla violazione delle norme. Ma, essendo tale eliminazione avvenuta ad esercizio praticamente terminato, a quell’ora i buoi erano già scappati e con essi la possibilità di fare rettifiche in corsa. La vicenda estiva dello sblocco limitatissimo degli avanzi di amministrazione ha posto le basi per le nuove regole, attualmente allo studio dei valorosi tecnici ministeriali, valevoli per il 2008. Il concetto che sarà più spesso ripetuto nelle prossime settimane (e che già riecheggia da giorni sulla stampa specializzata) è quello della ‘competenza ibrida’, fusione poco elegante di poste appartenenti al bilancio di competenza di parte corrente con elementi in conto capitale valutati per cassa. L’obiettivo (legittimo e opportuno) che il legislatore vorrebbe perseguire è quello di raggiungere un onorevole compromesso tra le esigenze dell’erario (a contenere il più possibile i livelli di spesa) e quelle di Province e Comuni oggettivamente virtuosi (a spendere, sia pur con giudizio, quanto accumulato). Si tratta, come si può ben intuire, di un espediente mirato a giungere con la migliore precisione possibile a un obiettivo predeterminato, senza porsi il problema se non vi siano degli ostacoli tecnico-contabili che vi si frappongono impedendone la realizzazione. Funzionerebbe concretamente così: per determinare il saldo programmatico 2008, soglia oltre la quale il Patto risulterebbe violato e (salvo sberleffo conclusivo) sanzionato, è necessario calcolare una somma algebrica. Da un lato tutte le entrate correnti di competenza più le entrate del titolo IV di cassa; dall’altro le spese correnti di competenza più le spese del titolo II di cassa. A differenza dello scorso anno, insomma, sarebbe introdotto un correttivo che, mettendo in evidenza le movimentazioni di tesoreria in entrata (con l'importante eccezione dei mutui) e in uscita in conto capitale, tiene fuori gli impegni per investimenti finanziati con avanzo di amministrazione. Si determina in tal modo la possibilità di applicare tali avanzi senza i vincoli che finora avevano pesato sulle scelte dei singoli enti. Sul lato dell’indebitamento a lungo termine, il discorso si fa appena più complicato. Con le regole applicate nel 2007, la contrazione di nuovi mutui era praticamente vietata agli enti, obbligati a tenere il saldo programmatico di competenza entro limitate soglie di incremento. Le disposizioni che, presumibilmente dal 2008, saranno adottate faranno in modo che gli enti debbano sopportare ancora un contenimento nelle assunzioni di nuovi mutui, ma possano almeno parzialmente ricorrere a nuovo indebitamento, nel caso in cui negli anni precedenti se ne siano quasi totalmente astenuti. Questa limitata generosità produce, peraltro, a lungo andare un probabile svantaggio per gli stessi enti mutuo-virtuosi. Infatti, per poter garantire il miglioramento dei saldi ibridi (calcolati sulla media del triennio 2003-2005), sarà comunque necessario limitare i pagamenti (in conto competenza e in conto residui), perché i mutui non sono entrate rilevanti ai fini del Patto. Così, per ovviare a questo esito praticamente sicuro, da più parti si invoca la revisione dei parametri sui quali calcolare i saldi, per premiare sul serio i meritevoli. Certo, l’eliminazione della penale per poter estinguere anticipatamente i mutui contratti con Cassa DD.PP. non guasterebbe affatto. I saldi migliorerebbero immediatamente e l’obiettivo che fin dall’origine è cardinale per la stabilità (l’abbattimento del debito pubblico consolidato) sarebbe raggiunto. Peccato che la richiesta, rinnovata di stagione in stagione, sia regolarmente ignorata dai vertici di via Goito, che proseguono ad incamerarla, indisturbati.

mercoledì 26 settembre 2007

I picconatori

La stagione venatoria di ANCI (almeno della sezione lombarda) prosegue con la caccia a una nuova preda: il contributo a parziale ristoro dell’IVA sui servizi esternalizzati. Da quando è stato introdotto, con la Finanziaria per il 2000, il fondo alimentato dall’IVA incamerata dall’erario sui servizi non commerciali esternalizzati dagli enti locali ha rappresentato un corretto strumento di riequilibrio di una patente iniquità.
Infatti, per i comuni, l’IVA esposta nelle fatture passive per le prestazioni dei servizi in questione rappresenta un costo vivo e l’unica possibilità concessa agli enti di recuperare il maggior onere è inevitabilmente rappresentata da un inasprimento delle tariffe dei servizi stessi. Come ricordato da ANCI, è lo stesso art. 6, c. 3, L. 488/1999 che assegna al fondo il compito di contenere le tariffe. Dal punto di vista strettamente operativo, per i comuni è sempre stato piuttosto semplice ottenere una fetta della torta, inviando una certificazione annuale riepilogativa di imponibili e IVA versata sul complesso dei servizi esternalizzati. All’erario non è, fino ad oggi, servito altro per ripartire le somme a disposizione. Un rapporto fiduciario in senso stretto tra enti certificanti e Stato erogante, insomma.
Poi, però, al Ministero si devono essere resi conto che, per una volta, la procedura instaurata era troppo lineare e, nell’ultima Finanziaria (art. 1, c. 711, L. 296/2006) è stata introdotta una modifica (solo apparentemente di poco conto) alla disciplina originaria, tanto che, nel testo vigente, i servizi non commerciali oggi sono solamente quelli “per i quali è previsto il pagamento di una tariffa da parte degli utenti.” Benché il servizio di gran lunga più rilevante tra quelli interessati sia certamente quello di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani (per il quale dunque è stabilita una tariffa, qualsiasi sia il sistema di gestione e che dunque non è interessato al provvedimento), è realistico ipotizzare che, per effetto di questa svolazzante aggiunta, non possano più essere certificati servizi come: illuminazione pubblica, gestione parchi e giardini, servizi scolastici non per mense e trasporti, ad esempio. Tutti servizi che, presi singolarmente, possono pure rappresentare una frazione marginale del totale, ma in blocco pesano in misura più che sensibile.
Ora, la questione non è solo quella di capire quale motivazione è sottesa a questa improvvisa esclusione che mantiene inalterato il gettito IVA dell’erario, penalizzando contemporaneamente i comuni (che in questo caso non hanno neppure l’arma delle tariffe specifiche per reagire). Sarebbe facile paventare (ciò che fa in modo non del tutto condivisibile ANCI) che la pressione fiscale del singolo ente subirà conseguentemente e obbligatoriamente un inasprimento. E’ sempre indispensabile dare un’occhiata al lato spesa, per verificare la capacità di sostenere risparmi sulla spesa corrente prima di lanciarsi in incrementi d’aliquota azzardati. In punto di diritto, tuttavia, ANCI ha perfettamente ragione.
Se tutto l’impianto legislativo nasce per normalizzare una situazione di vantaggio finora esclusivo dello Stato, riconosciuta come ingiusta da quest’ultimo, l’introduzione di eccezioni alla regola non trovano alcuna giustificazione perché si tratta in ogni caso di servizi esternalizzati e la cui imposta pagata dai comuni affluisce alle casse dello Stato. Che per alcuni di questi servizi l’ente locale non abbia previsto alcuna tariffa a carico degli utenti non rileva, perché l’effetto calmierante auspicato dalla legge funziona sia che ci si riferisca a tariffe specifiche sia che si parli di pressione fiscale in senso ampio. Purtroppo, una circolare del Viminale nello scorso luglio ha complicato ulteriormente la valutazione dell’impatto della novità normativa, attribuendo a quest’ultima un’incomprensibile valenza retroattiva, incidendo sulle richieste presentate sì nel 2007, ma riferite al triennio che si chiude con il 2006.
Tra l’altro, chi interpreta incorre in un ulteriore errore perché dichiarando la retroattività della norma non può limitarne l’efficacia all’ultima dichiarazione, ma a tutte quelle che, dal 2001, l’hanno preceduta. Attribuendo il corretto valore alle circolari (ultimamente i dicasteri tendono a stravolgere la gerarchia delle fonti con una frequenza inquietante), sostengo la tesi di ANCI e dunque la modifica introdotta dalla Finanziaria 2007, essendo efficace dal 1° gennaio 2007 e non prima, inciderà sulle certificazioni per il triennio 2005-2007, da presentare entro il prossimo marzo 2008. Se poi, le pressioni trasversali dovessero ottenere un’abrogazione dell’inciso contestato, tant mieux.

martedì 25 settembre 2007

Tutto sotto controllo

Non sempre è opportuno tornare sugli stessi argomenti. Ci sono però circostanze che rendono inevitabile ribattere su vecchi chiodi perché qualcuno, nottetempo, ha provato a estirparli. Sulla questione dei pagamenti oltre i (per ora) diecimila euro, il caos determinato dall'assenza del decreto ministeriale (unico strumento che porrebbe fine a un ridicolo balletto) è ormai tale che nessuno ha più intenzione, negli uffici ragioneria, di emettere mandati prima di avere un certo riscontro della solvibilità del creditore e, soprattutto, prima di capire che procedimento amministrativo ha in mente il legislatore, dopo aver diradato il fumo denso che, per ora, ristagna attorno alla norma. Come se non bastasse, la troppo lunga attesa è determinata, com'è noto, dalla sosta del decreto presso il Consiglio di Stato, causa delicate vicende di riservatezza dei dati. Quindi, il Ministero si è già ufficialmente pronunciato, mentre in attesa che tutto si sblocchi, ogni attore recita la sua parte in commedia. E il copione se lo scrivono da sè. Giunti a un punto morto, dopo due circolari pro-Equitalia e la stessa protervia di quest'ultima, che non intende in alcun modo fornire collaborazione agli enti se non obbligata a farlo dal decreto ministeriale, ci avviciniamo a grandi passi all'apice della presa per i fondelli. Il Lenzuolo rosa di oggi, infatti, riporta la notizia secondo la quale alla Ragioneria generale dello Stato avrebbero pensato che diecimila euro sono troppo pochi e che, dunque, la soglia oltre la quale effettuare i controlli dell'art. 48-bis debba essere innalzata fino almeno a cinquantamila. La motivazione sarebbe che portando più in alto l'asticella rimarrebbero escluse numerose fattispecie di pagamenti smorzando in questo modo la canea degli enti preoccupati di dover adottare una serie di comportamenti diversi secondo la tipologia del credito. Sembra di stare in una casa d'aste, con il battitore che agita la mazzetta in attesa della prossima migliore offerta. Eppure è chiaro che la fittissima nebbia che avvolge il provvedimento di legge è stata creata non dall'importo dei pagamenti ma dalla intempestiva produzione di interpretazioni che hanno fatto scattare in tutti i soggetti interessati la molla del nervosismo. Persino un agente imparziale come la Corte dei conti ha assunto decisione ondivaghe, prima accogliendo decisamente la tesi che la norma è immediatamente cogente e che dunque il decreto attuativo è del tutto secondario (sezione della Basilicata), poi (è notizia dello scorso venerdì, ma il parere è antecedente a entrambe le circolari) dichiarando che, probabilmente, è meglio riflettere un momento sulle conseguenze del provvedimento, anche perché "Non sfuggono, ovviamente, all'attenzione della Corte dei conti le possibili numerose conseguenze pregiudiziali per il caso di ritardati pagamenti, che potrebbero determinarsi per effetto – per esempio – di vane iniziative di ricerca sulla esatta qualificazione del proprio creditore quale eventuale debitore del fisco" (sezione della Sardegna). Gli unici che, al momento, non intendono deflettere dalla propria posizione sono gli uomini dell'ANCI. Prima in Emilia-Romagna, poi, a catena, in tutto il resto d'Italia. Un fax arrivato sul mio tavolo stamane a firma del presidente della sezione lombarda dell'associazione ribadisce due punti essenziali: 1. Le due circolari ministeriali "creano gravi problemi ed incertezze ai Comuni". In particolare, si fa rilevare che la "potenziale contrapposizione tra un credito incerto della P.A. (la somma iscritta a ruolo cui è seguita la cartella di pagamento) e un credito certo del fornitore (somma liquidata per regolare esecuzione della prestazione o fornitura) è troppo evidente perché il legislatore non intervenga radicalmente" sulla disposizione di legge. 2. Dunque, i comuni non devono considerare ancora vigente la normativa introdotta con l'art. 48-bis e attendere pazientemente che dal Consiglio di Stato giunga il via libera tanto atteso. La partita che si giocherà dopo è tutta da studiare, certo. Se non altro, tuttavia, una proposta che congela la situazione pare davvero la più sensata, anche per evitare il frenetico botta e risposta tra organi e uffici diversi che produce esclusivamente polvere, non avendo alcuno la potestà per dirimere, da solo, la controversia.

lunedì 24 settembre 2007

L'amico del giaguaro

Se non ti possono licenziare, dev’essere la Pubblica amministrazione. Il gelatinoso sillogismo, ormai troppo diffuso per risultare davvero scandaloso, è emerso nuovamente a seguito di una sentenza del tribunale di Napoli, riportata con salace commento dal Lenzuolo rosa di oggi. Nella sua disarmante semplicità, la vicenda assume il valore esemplare del paradigma. Ricapitoliamo rapidamente: un dipendente dell’Agenzia delle entrate si sente in grado (funzionalmente e giuridicamente) di effettuare una transazione con un contribuente in relazione all’attribuzione di una rendita. Poiché la conciliazione ha determinato un minor introito per l’Amministrazione finanziaria, è scattato immediatamente il procedimento disciplinare a carico del carneade che, di fronte allo sconcerto e alla furia del proprio dirigente, si è trovato con le armi spuntate e, in un primo tempo, licenziato in tronco. L’inevitabile ricorso del funzionario ha determinato prima il reintegro da parte del giudice del lavoro e, da ultimo, la conferma dell’illegittimità del licenziamento da parte dei magistrati partenopei. Il quotidiano si lascia andare, con spirito giacobino, alla litania un poco frusta della pubblica amministrazione come isola felice dove gli inefficienti (in questo caso, gli insubordinati) prosperano. Non che la situazione specifica non dia adito ad amare osservazioni sullo stato dell’arte della P.A., anche perché l’ultima sentenza preferisce smorzare ogni tentativo di responsabilizzare i dipendenti e, motivando l’annullamento del licenziamento, afferma che “le oggettive manchevolezze” contestate al dipendente “non sono sue personali, ma dell’intero sistema.” Il recente e già inflazionato neologismo ‘benaltrismo’ si adatta meravigliosamente alle circostanze della controversia e alle giustificazioni addotte. Certo, con sentenze motivate così può andare a farsi benedire qualsiasi sforzo di costruire un procedimento amministrativo davvero trasparente, perché ci sarà sempre qualcuno pronto a ribadire la propria estraneità all’esito di una qualsiasi istanza, scaricandone l’onere su un’indefinibile entità superiore. Però, a volte, sembra di sparare sulla Croce Rossa. Ciò che, infatti, risulta chiaro nel caso preso in esame è che il funzionario ha ecceduto nell’esercizio dei poteri che gli erano conferiti. Si è infatti arrogato il diritto di transare laddove era indispensabile lasciare il delicato compito al superiore. La censurabilità del comportamento è evidente e qualsiasi interpretazione riduttiva non farebbe che accentuarne la grossolanità. Anche perché il funzionario aveva un mandato opposto, quello di conformare la propria azione ai valori accertati dall’ufficio in precedenza, senza alcuna discrezionalità per difetto sulla determinazione della rendita. La scelta di accordarsi per un valore vantaggioso per il contribuente, dunque, è frutto di una scelta personale più che discutibile. Ma il procedimento disciplinare che ne è sorto è fondato sull’eccesso di discrezionalità oppure sul danno procurato all’erario? E’ un dubbio assolutamente realistico, perché il punto qui discusso non è (o almeno non in via principale) la mancata entrata a seguito della conciliazione, quanto piuttosto il venir meno di un rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. Nei panni dell’ultra-zelante funzionario avremmo dedotto in giudizio un’argomentazione appena diversa: “Mi rendo conto dell’azzardo al quale ho esposto l’Agenzia, ma ho agito assumendo personalmente la responsabilità dell’esito finale. Ero consapevole che l’indirizzo superiore era differente da quello che ha ispirato la transazione, ma ho scelto la strada dell’accordo per ridurre i tempi della riscossione. Inoltre, non ne ho ricavato alcun beneficio personale, dunque in nessun caso potrei essere accusato di dolo. Mi chiedo, inoltre, cosa sarebbe successo se avessi preso una decisione simile (contraria alle direttive dirigenziali) ma ricavandone un risultato positivo per l’amministrazione (un gettito superiore). Con ogni probabilità sarei stato punito con severità in termini strettamente disciplinari, ma non avrei subito il licenziamento.” L’esito finale non sarebbe, con ogni probabilità, mutato di una virgola. Ma la requisitoria del pubblico ministero avrebbe avuto un punto di forza in meno e i denigratori a cottimo della P.A. non avrebbero potuto alzar troppo la voce.

venerdì 21 settembre 2007

Pazienza proverbiale

Ai segretari comunali, talvolta, giungono notizie di una acidità tale che mi chiedo quanto a lungo questa categoria possa continuare a svolgere il proprio ruolo con le modalità di oggi. Mi riferisco, stavolta, a una corposa decisione della Corte dei conti veneta in merito a una vicenda leggermente complicata di incarichi, denunce e dimissioni che possiamo riassumere in questo modo: un consigliere (presumo di minoranza) propone un esposto alla magistratura contabile per un debito fuori bilancio riconosciuto dall’Amministrazione. Quest’ultima, per ribattere colpo su colpo, incarica un giurista esterno alla dotazione organica con il compito di fornire adeguata consulenza. Ne sorge un giudizio amministrativo parallelo (di cui riferiamo dopo) che si chiude con la sconfitta del Sindaco e della maggioranza. Entra la Corte (dei conti) e rileva il danno erariale per le spese legali sostenute in merito a quest’ultima controversia. Ma soprattutto contesta all’amministrazione di aver voluto a tutti i costi affidare la difesa delle proprie ragioni di fronte all’esposto a un professionista esterno. Non risparmia giudizi pesanti la magistratura veneta, tacciando il Sindaco (unico soggetto ritenuto responsabile dell’affidamento, poiché firmatario dei relativi decreti) di aver agito “senza il minimo rispetto delle norme sugli incarichi esterni e in assenza dei presupposti di legge”. L’impianto della sentenza si fonda sulla considerazione che, prima bisogna dare un’occhiata alle professionalità presenti all’interno dell’ente e solo dopo aver attentamente valutato che queste non esistono si può attivare una procedure per reperirle al di fuori di esso. Cosa che qui non è neppure passata per l’anticamera del cervello al capo dell’Amministrazione, il quale ha automaticamente messo la freccia a destra, superando in velocità i funzionari e, in particolare, il segretario comunale. Quest’ultimo, poi, non ha lasciato intendere di ritenersi offeso per questa inopinata estromissione. Così, delle due l’una: o ha preferito (forte della certezza che il castello di carte del Sindaco sarebbe crollato di fronte ai diversi gradi di giudizio) attendere cinesemente sulla riva del fiume il passaggio del cadavere nemico; oppure, e all’opposto, ha deciso scientemente fin dal principio di non proporsi come autorevole consigliere per gli affari legali dell’amministrazione, lasciando il tubero bollente nelle mani del legale di turno. Quale che sia la verità, di fronte alla Corte questa resa senza combattere non è piaciuta e dalla sentenza esce una difesa d’ufficio della categoria che quasi commuove per intensità. Insomma, il Comune è provvisto di Segretario e di Vicesegretario. Vuole farci credere il Sindaco che nessuno di loro era in grado di predisporre adeguate controdeduzioni all’esposto del consigliere? Mortificante o stimolante che sia, la sentenza ribadisce (al di là della puntualizzazione formale ma pienamente legittima sulla facoltà di dare incarichi esterni solo in casi straordinari) che il ruolo cardine assegnato oggi al segretario dell’ente è proprio quello dell’assistenza giuridica agli organi di governo e di programmazione. Soprattutto quando le competenze richieste non devono integrare le astuzie di un principe del foro ma, più modestamente, l’ordinaria consapevolezza di un dirigente amministrativo. Se la precoce ritirata del segretario dalla tenzone sia stata o no volontaria, l’effetto che produce è quello di punzonare nuovamente tutta una categoria, oggi contrattualmente sul piede di guerra per ragioni più che comprensibili, ancora legata a una concezione premoderna del proprio ruolo, svuotata dalla Bassanini-bis e mai più riempita se non dai facili denari di immeritate direzioni generali. Avranno mai la forza di fare un esercizio di autocritica per impedire che scelte come quella del Sindaco si ripetano? La liceità del dubbio è rafforzata dall’esito del giudizio parallelo di cui si diceva all’inizio. Dopo che il legale esterno era stato incaricato, infatti, l’Amministrazione aveva addirittura dichiarato decaduto dalla carica il consigliere pignolo poiché sussisteva un’insanabile incompatibilità: carica elettiva e parte in causa in un giudizio contro l’amministrazione. Da cui derivava una vicenda conclusa in Corte d’appello, sempre con la sconfitta dell’amministrazione. Quindi spese legali, quindi danno erariale, quindi reprimenda della Corte dei conti. Suona tutto maledettamente inutile, se si pensa che la procedura di decadenza era sorta a seguito di un esposto alla Corte dei conti, non certo per una causa civile o penale. Eppure il segretario aveva ritenuto che il Consiglio comunale avesse correttamente seguito il protocollo per togliere di mezzo il membro indesiderato. I danni che anche a lui la Corte ha addebitato in quanto “garante della legalità e correttezza amministrativa dell'azione dell'ente locale” suonano come un ceffone al volto di una categoria alla vana ricerca di una nuova identità.

giovedì 20 settembre 2007

Zona retrocessione

Il duro lavoro delle società di rating, questi fulminanti agenti del controspionaggio finanziario che decidono della qualità del debito di enti pubblici e privati per conto del sistema bancario internazionale, si fa ancora più arduo oggi, per colpa dell'ICI. Senza la minima preoccupazione che ciò possa rappresentare uno scherzo da Ognissanti con un mese abbondante di anticipo, le tre principali aziende del settore hanno fatto sapere che la valutazione dell'affidabilità degli enti locali sotto il profilo finanziario potrà subire più di uno scossone, quando il Governo avrà finalmente scelto che fare degli sgravi promessi da mesi e perennemente sospesi in un limbo fiscale senza redenzione. Le opzioni per la suddivisione della torta sono tuttora numerose: l’originaria proposta di sostituire con agile mano il minor gettito d’imposta con un maggior trasferimento di risorse erariali è stata affiancata nelle ultime settimane dalla iniziativa ANCI (ma ce n’eravamo fatti promotori prima noi, su queste pagine, in tempi non sospetti) di dedurre dall’IRPEF l’ICI versata sull’abitazione principale. Poiché quest’ultima strada è stata considerata tecnicamente troppo complessa dai funzionari del Ministero, mentre la prima ha subito un’ondata di impopolarità a tutti i livelli e a tutte le latitudini, il menù si arricchisce di una proposta ‘nouvelle cuisine’ che contempla un miscuglio di maggiori trasferimenti, compartecipazione modulare all’IRPEF e maggiore detrazione sulla casa di abitazione. Di tutta questa discussione i soloni di Standards & Poor, Moody’s e Fitch non sanno che farsene. “Resta da vedere se la riduzione di questa imposta comunale sarà accompagnata da trasferimenti diretti dello Stato o da altre forme di compensazione”, tuonano da lassù, bocciando senza appello qualsiasi movimento sismico provenga dal tavolo delle trattative. I signori della tripla A, insomma, fanno intendere che le grandi manovre per alleggerire il peso dell’imposta sull’abitazione principale non possono che essere un gioco a somma (perlomeno) zero per i comuni, se questi ultimi aspirano a mantenere immacolata la propria pagella. Sembrerebbe uno spot a favore di Domenici & C., che certo non sono disposti a regalare quote di disponibilità finanziarie già cronicamente scarse. Invece è un vero e proprio monito a non giocare con il fuoco sacro dell’indebitamento. Meno risorse oggi, significano meno affidabilità dei bilanci domani e la pioggia di contante che cade sui municipi potrebbe lasciare spazio all’arido deserto del default. E’ una preoccupazione che, in linea generale, può anche avere effetti benefici su certe teste calde di amministratori inclini a cedere alle tentazioni di spesa più bizzarre. A patto che sia gestita in modo meno isterico. Perché le società che oggi agitano il ditino ammonitore di fronte a uno scenario ancora in via di definizione sono le stesse che non alzano la voce (neppure a posteriori) di fronte all’esplosione del fenomeno dei derivati. I quali rappresentano un fattore di rischio molto più realistico dell’esposizione prodotta da un prestito obbligazionario. Resta da capire cosa ci sarebbe oggi di diverso nella distribuzione degli sgravi tributari locali rispetto a ogni altro movimento sui trasferimenti operato in tutte le sante finanziarie approvate negli ultimi anni. Quando il legislatore propone (anzì, impone) una limata (ad esempio) alla base di calcolo del Fondo ordinario (calcolato con metodi così complessi che nessuno si azzarda a metterli in discussione: li si prende per buoni a capo chino e nessuna protesta) non c'è censore che abbia mai paventato una A in meno da attribuire a questa o quella emissione di bond comunali. Eppure, in questo caso, che rappresenta lo standard annuale proprio da quando è stata introdotta l’ICI (quattordici lunghe primavere fa), le risorse nette a favore dei Comuni diminuiscono senza possibilità di contropartite dirette da parte dell’Erario. Cos’è, allora, che fa scattare la molla del declassamento? Parrebbe più una questione umorale che sostanziale. Anche perché non si vede per quale scriteriato motivo gli sgravi ICI (in qualsiasi forma saranno approvati) dovrebbero essere a carico degli enti locali. Rischiamo, così, di trovarci tra capo e collo un nuovo livello di controllo di bilancio che ha l’unico scopo di rassicurare un sistema bancario altrimenti occupato a tappare le falle della propria scarsa oculatezza. Anche su questo punto dovrebbero insistere tutte le associazioni di categoria. Perché una cosa è collaborare con la Corte dei conti per chiarire possibili situazioni critiche in ordine alla finanza pubblica, un’altra è subire le bocciature a capocchia di chi, probabilmente, non ha cura altro che dei cordoni della propria borsa.

mercoledì 19 settembre 2007

Ratatouille

Quando il gatto non c’è, i topi delle entrate ballano. E’ sufficiente che un decreto attuativo non sia emesso in tempo, e immediatamente si scatena il tango argentino delle circolari (ministeriali ma non solo) che tentano di surrogarne i contenuti, ben sapendo di non poter rivaleggiare in efficacia giuridica. E questa consapevolezza non affievolisce l’impeto decisionista a destra e a manca. Sulla disciplina dei pagamenti delle amministrazioni sopra i diecimila euro, il Ministero dell'Economia e delle Finanze (per il tramite del dipartimento del Tesoro) si è prodotto in un doppio salto mortale, con due circolari in un solo mese per dimostrare che, da quelle parti, non si sta con le mani in mano. Tuttavia, gli operatori si chiedono se a tanta solerzia corrisponda la certezza che quelle istruzioni confluiranno pari pari nel decreto ministeriale (che pare già esista, interamente formato, benché sospeso di fronte al Consiglio di Stato per questioni di gestione dei dati sensibili). Su questo punto non ci sono santi che tengano: nessuna circolare potrà mai promettere che il regolamento attuativo sarà conforme a quanto da essa precisato, intanto perché di solito, sono i decreti a essere pubblicati per primi, e poi (non che sia un particolare trascurabile) perché le circolari sono, appunto, interpretazioni, dunque senza alcun valore cogente per gli interessati. Sarà un caso, ma il Ministero si guarda benissimo dal sopravanzare se stesso e postilla che il decreto (quando arriverà) potrà ben essere diverso. Gettando nella carta straccia le precedenti circolari. Oppure ne sarà la copia conforme e dunque potremo chiederci perché mai farlo precedere da ben due circolari a meno che (senza malizia) i termini della questione non fossero completamente limpidi per i tecnici del Tesoro. In questo vuoto così pieno di significato si è inserito, nel frattempo, un intero squadrone di soggetti lieti di far conoscere al mondo la propria opinione sull’argomento e, anzi, pretendendo di far assumere a quest’ultima valore definitivo. Ha cominciato la Corte dei conti della Basilicata, solleticata da un comune che voleva saggiare la sua prontezza di riflessi, la quale ha, senza tentennamenti, attribuito al nuovo art. 48-bis efficacia immediata: il decreto non serve. Poi, tra una circolare e l’altra, ha elaborato il tutto l’ANCI Emilia-Romagna (già citata prima di tutti, anche del Lenzuolo e dello Struzzo, da Giuseppe Debenedetto, a commento di un nostro precedente post) che ha ricordato un vecchio ma sensato parere del Consiglio di Stato che attribuiva al solo decreto attuativo la funzione di rendere pienamente efficace la norma di legge. Ciò che nessuno poteva pronosticare, invece, è stato il gioco a gamba tesa di Equitalia S.p.a. Quest’ultima, soggetto direttamente interessato agli aspetti operativi della vicenda, non ha voluto restare al proprio posto ma, con due interventi apparentemente a esclusivo uso interno, ha scelto di dettare essa stessa le regole alle quali gli enti dovrebbero uniformarsi. Il primo editto esattoriale si è addirittura imposto al Ministero, obbligandolo a realizzare in fretta e furia la seconda circolare nella quale si smentiva il precedente approccio che pretendeva la collaborazione di Equitalia. Con la seconda uscita quest’ultima si è sentita autorizzata a stabilire in che modo far attestare al creditore che non ha partite pendenti con l’erario quando si tratta di contratti periodici (utenze telefoniche, elettriche, ecc.). Al di là di ogni commento sulla prontezza di riflessi del concessionario che non ha atteso un secondo per scaricare su altri un compito che dovrebbe essere, per definizione, suo, mi preme far rilevare la noticina in calce all’autocertificazione: “N.B. Allegare alla dichiarazione la fotocopia di un documento d’identità del sottoscrittore.” Ricalca quella prevista dal Tesoro nella circolare n. 28/2007, ma qui pare la si debba proprio pretendere. La chiediamo anche all’Amministratore delegato dell’ENEL, oppure al presidente della Cassa DD.PP.? La nota di Equitalia non sembra voler fare eccezioni, quindi, occhio, perché d’ora in poi, se qualcuno non produrrà l'ambita copia fotostatica, potrebbe incorrere nelle rimostranze di Equitalia, la quale sembra non attendere altro che un'ulteriore scusa per non fare quel che è stata costituita per fare.

martedì 18 settembre 2007

Oci ciornie

I brividi corrono lungo la schiena ogni volta che, da utenti, ci rivolgiamo a uno sportello pubblico e sentiamo ripetere le frasi che mal sopportiamo ma che, ammettiamolo, abbiamo pronunciato anche noi (e non c’entrano la malafede o l’indolenza). Quel girare a vuoto da un ufficio all’altro, senza capire dov’è il bandolo della matassa. E quando accade, sentiamo che è venuto il momento per cambiare, nel nostro piccolo, le cose e, cristianamente, non dire agli altri quello che non vorremmo fosse ripetuto a noi. Così, l’idea di un sindaco siberiano, al quale il freddo non ha affatto congelato i neuroni, riporta tutto a zero. Pare che (lo riporta in un succoso pezzo Leonardo Coen su Repubblica oggi) il Sig. Aleksandr Kuzmin, giovane primo cittadino in quel di Megion, avamposto dell’estrazione petrolifera, avendo superato il limite di sopportazione, abbia compilato una lista di termini e locuzioni che, d’ora in poi, nessun funzionario comunale dovrà più pronunciare, pena la minaccia di licenziamento. Si va dal classico e sempreverde “Non lo so”, al più articolato “Non c’ero in quel momento”, passando per capolavori di sintesi burocratica come “Avevo detto al segretario che...” oppure “Quando è successo non ero ancora stato assunto”. Tutto sommato, questi sotterfugi da romanzo ottocentesco sono, per il cittadino russo, un repertorio suonato in tutte le epoche negli uffici pubblici zaristi come in quelli sovietici e dunque perché meravigliarsi che l’era post-comunista non sia ancora riuscita ad eliminarli. Eppure, di una piccola rivoluzione si tratta, perché il lusso di ottenere una risposta chiara, anche se negativa, se lo possono permettere in pochi, e non solo in Russia. Questa strategia di attacco contro la pigrizia da scartoffia avrà successo se alle minacce sindacali seguiranno sanzioni effettive contro i trasgressori. E’ sempre questo il punto dolente, perché se in Siberia un sindaco ha poteri così estesi da decidere del futuro lavorativo dei propri impiegati, la stessa impalcatura non ha alcuna probabilità di essere esportata in lande straniere. E neppure ce l’auguriamo. L’obiettivo di farla finita con le risposte vaghe e inconcludenti è più che condivisibile. Non altrettanto l’impeto punitivo che propone una sanzione così abnorme. Tuttavia, con minor furore, la lezione di Kuzmin e della sua Lista delle Locuzioni parassiti può essere facilmente tradotta anche in italiano, senza creare agitazioni a catena o maldipancia cronici tra le mura dei nostri comuni. Nel senso che, con uno sforzo di auto-controllo generalizzato, ciascuno può decidere, di fronte all’utente di turno, che gli risponderà con il massimo della precisione consentita in quel momento, se non altro escludendo l’odioso ricorso al sotterfugio dei “non è di mia competenza”, purtroppo ancora diffuso. Se l’autocoscienza non bastasse, perché non pensare allora a un progetto finalizzato con in palio non una quota in più di compenso incentivante ma la promessa di non ridurlo, da applicare a cura del responsabile del servizio ogni volta che l’espressione (in qualche modo codificata a priori) faccia capolino dietro le richieste del cittadino. Certo, posso facilmente immaginare come verrebbe accolta in uno qualsiasi dei municipi italiani un’iniziativa che scuote l’albero dell’abitudine e prova a far cadere qualche foglia morta. Vuoi mettere, però, la soddisfazione di non ricevere mai più in cambio, dall’altra parte del vetro, gli sguardi taglienti di chi si sente un poco preso per i fondelli? Questo obiettivo, moltiplicato per ottomila, già produrrebbe effetti che neppure Bassanini potrebbe immaginare. Figuriamoci se fosse proiettato all’esterno e andasse a toccare, come facevamo intendere all’inizio, i veri campioni della frase sibillina, che si trovano all’INAIL, all’INPS, all’ufficio IVA e via dicendo. Troppo partigiano? Può darsi. Ma i centralini che squillano a vuoto non se li è inventati il sottoscritto, così come le file organizzate ma inutili per sentirsi dire che lo sportello era un altro.

lunedì 17 settembre 2007

Un anno sull'altopiano

Il lungo inverno della contabilità ambientale è appena iniziato. Decorrono da poco più di una settimana i dodici mesi necessari al Governo per imbastire, assecondando i criteri generali del disegno di legge delega approvato in Consiglio dei ministri, il decreto legislativo che attuerà, anche per gli enti locali, i verdissimi principi dell’impatto ecologico dell’amministrazione pubblica. E’ ben scarno il ddl, solo tre articoli, dei quali è il secondo a costituirne l’ossatura centrale, quello che dice come dovranno essere i futuri bilanci (anche) comunali. E visto che dobbiamo partire da qui, pur restando scettici di fronte a un sistema che mette decisamente il carro davanti ai buoi, val proprio la pena di entrarci a capofitto per veder subito cosa ci toccherà in sorte. Partiamo, comunque, dall’incipit. La motivazione di questo moto di insurrezione contabile (contenuta nell’articolo 1) sarebbe quello “di assicurare conoscenza, trasparenza e responsabilità all'azione di governo rispetto ai principi dello sviluppo sostenibile, nell'integrazione delle sue dimensioni economica, sociale ed ecologica, e di assicurare, altresì, il diritto all'informazione ambientale.” Non ci stupiamo, naturalmente, del suono ridondante e altero di questa petizione governativa. Siamo abituati ad aberrazioni linguistiche ben peggiori. Ne mettiamo in risalto, però, l’intima contraddizione o, se preferite, sovrabbondanza, perché è inevitabile parlare di ricadute sociali quando si affrontano questi temi dal coté ambientale. E dunque, avremo un bilancio ambientale obbligatorio accanto a un bilancio sociale facoltativo. I sofisti rileveranno immediatamente che quest’ultimo ha una finalità affatto speciale, rivolto com’è alla platea di ‘portatori di interesse’ che non possono essere ridotti a un unico aggregato da mettere sotto la bandiera dell’ecologia. Ragionamento apparentemente inattaccabile, che però non impedisce di sottolineare che, in qualche modo, i due documenti si pestano i piedi e dunque, poiché il primo, a differenza del secondo, sarà cogente, sono pronto a scommettere che i comuni meno attrezzati abbandoneranno l’ipotesi di approvare un rendiconto sociale per adeguarsi all’adempimento di legge. A meno che, con una necessaria dose di scaltrezza, non si scelga un sistema misto che faccia confluire nel bilancio ambientale dati e argomentazioni pertinenti a quello sociale. A cosa fa riferimento, infatti, il testo già citato quando parla di “trasparenza e responsabilità all’azione di governo” se non al concetto di accountability ormai caro agli studiosi? Questo duello all’arma bianca che indurrà i più a una drastica scelta pragmatica si sarebbe potuto evitare con un accorpamento delle istanze ambientali e sociali in un unico sistema di programmazione. Presumo, però, che un’ipotesi di lavoro che obblighi ministeri diversi a comunicare fra loro per giungere a un obiettivo condiviso resti fuori discussione, nell’Italia odierna. Le cose, tuttavia, si complicano maledettamente quando il ddl entra nel merito della proposta e spiega cosa si deve intendere per bilancio ambientale. Se avevate pensato a un documento articolato ma leggero, completo ma non irrigidito su posizioni stantie, vi devo deludere. Qui dentro c’è talmente tanta ciccia che non basterà l'ordinaria procedura annuale per l’approvazione del bilancio (o del rendiconto). Infatti, le componenti fondamentali del BA dovranno essere: 1) un bilancio di previsione ambientale, "che espone le scelte effettuate dall'amministrazione per l'esercizio successivo ai fini della sostenibilità ambientale delle proprie politiche"; 2) un rendiconto ambientale, "che evidenzia i risultati delle politiche ambientali perseguite dall'amministrazione nell'esercizio precedente, ponendoli a raffronto con i dati del bilancio ambientale di previsione"; 3) una serie di conti ambientali, "elaborati ai fini della predisposizione del bilancio ambientale, ovvero l'insieme di conti e indicatori fisici e monetari, costituiti e organizzati in modo tale da favorire la rilevazione e la valutazione integrata dei fenomeni ambientali e dei fenomeni economici e sociali correlati". Vista così, pare pure semplice. Con un pizzico di analisi in più, cominciamo a vedere che: il punto 1 comporta non tanto la spiegazione dei programmi amministrativi in chiave ambientale, quanto la costruzione di un secondo bilancio, accanto a quello tradizionale, che legga tutto il documento di programmazione in chiave verde; il punto 2 è il vero doppione rispetto al rendiconto sociale, con le conseguenze che ho paventato poc'anzi; il punto 3 altro non è che la declinazione "ecologica" della Relazione previsionale e programmatica e del Bilancio pluriennale. Quindi, purtroppo, si dovrà lavorare davvero il doppio per completare in tempo questa prova erculea. Siccome nel prosieguo si dice anche che sarà indispensabile prevedere "carattere sistematico e obbligatorio delle procedure, nonché periodicità, articolazioni e contenuti del sistema di contabilità ambientale tali da garantire integrazione, collegamento, confrontabilità e contestualità con gli atti ed i documenti di programmazione economico finanziaria e di bilancio degli enti interessati, assicurando il carattere di informazione complementare del bilancio ambientale rispetto alle determinazioni del bilancio economico finanziario", il senso di vertigine aumenta, insieme alla consapevolezza che davvero si vogliono raddoppiare le rilevazioni contabili. Ma le risorse dell'impavido legislatore sono infinite e, consapevole della salva di fischi che riceverebbe in caso di introduzione subitanea di un tale sistema, nella sua benevola saggezza ha previsto una scappatoia e una scorciatoia. La prima è rappresentata dal rinvio di due anni dell'entrata in vigore (il famigerato 'periodo transitorio'), a ennesima riprova che la tendenza riformista prevede di tirare il sasso nascondendo immediatamente dopo la mano. La seconda è la possibilità per i comuni con meno di 50.000 abitanti (diciamo il 90% abbondante del totale degli enti) di "adempiere alle prescrizioni di cui alla presente legge anche in forma associata, purché siano chiaramente evidenti gli impegni programmatici ed i risultati raggiunti da ogni singolo comune." Non abbandonate la lettura proprio ora, però. Perché le ultime righe ci regalano l'aureo principio al quale dovremo uniformarci. Nessun nuovo onere dovrà derivare dalla nuova impalcatura vegetale alla finanza pubblica (intesa, ben si sa, come quella dell'Erario). "Bambole, non c'è una lira": da operetta, insomma.

venerdì 14 settembre 2007

Il paese dei cachi

Per fortuna non siamo anglosassoni. Nel senso del sistema giuridico, intendo. La regola della Common Law mal si coniugherebbe, infatti, con il ping-pong quasi quotidiano giocato dalle magistrature tributarie di ogni grado. E’ ovviamente l’ICI il grande terreno dove si disputa l’infinito torneo tra CTP, CTR e Cassazione. La straordinaria volubilità delle decisioni non aiuta a costruire un’impalcatura solida, purtroppo. E per gli uffici tributi (mi spiace, ma in questo caso non posso proprio spogliarmi degli abiti professionali) le complicazioni sono come il pane sulla tavola: immancabili. Prendiamo ad esempio un paio di pronunce citate tra lunedì e oggi sui nostri quotidiani preferiti. Dallo Struzzo giallo apprendiamo che la Corte di cassazione ha dato ragione a un ente locale chiamato in giudizio dal proprietario di un’area il quale ne contestava l’edificabilità poiché vincolata a standard urbanistici, dunque destinata prima o poi all’esproprio. Le motivazioni del giudice supremo riprendono la lapidaria sentenza della stessa Cassazione di qualche tempo fa (30 novembre 2006, n. 25506) che, massimata, sosteneva: “In tema di imposta comunale sugli immobili, l’art. 2, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 504 del 1992 va interpretato nel senso che, ai fini dell’applicazione dell’I.C.I., un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo. Pertanto, con riferimento ad una siffatta area, l’I.C.I. deve essere dichiarata e liquidata sulla base del valore venale in comune commercio, tenendo peraltro conto anche di quanto sia effettiva e prossima la utilizzabilità a scopo edificatorio del suolo, e di quanto possano incidere gli ulteriori eventuali oneri di urbanizzazione. Tale interpretazione – che risolve un contrasto insorto nella giurisprudenza della Sezione Tributaria della Cassazione tra l’indirizzo “sostanzialistico”, accolto dalle Sezioni unite, e quello “formale-legalistico” secondo il quale la qualifica di area edificabile presupporrebbe, anche ai fini fiscali, che le procedure per l’approvazione degli strumenti urbanistici siano perfezionate – trova conferma nel del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248 – intervenuto dopo che le stesse Sezioni Unite erano state investite del riferito contrasto - , che, all’art. 36, comma 2, fornisce una chiave interpretativa da utilizzare, per espressa volontà del legislatore, nell’applicazione delle disposizioni relative, oltre che all’I.C.I., anche all’I.V.A., al T.U.I.R. ed all’imposta di registro.” A partire da questo punto, nel caso in discussione, la Corte ha attribuito all’ente (smentendo la CTR della Lombardia che aveva, invece, dato ragione al proprietario) il diritto di pretendere il pagamento dell’imposta anche su un’area con quelle caratteristiche. Da questo punto di vista, il principio che la Cassazione ribadisce sempre più spesso (dopo avere per anni sostenuto l’esatto contrario) è che l’area inserita in un PRG adottato non può essere considerata priva di valore solo perché mancano gli strumenti attuativi. Sarà piuttosto cura del Comune approfittare della facoltà concessa dalla legge e attribuire direttamente un valore a quell’area con l’apposita deliberazione annuale, prima del bilancio di previsione. In questo modo, l’area ancora vincolata sarà valutata con un metro forse contestabile (e non potrebbe essere altrimenti, data la mancanza di parametri oggettivi predeterminati), ma almeno ufficializzati da un atto amministrativo collegiale. Quest’ultima soluzione, tuttavia, non piacerebbe ai giudici milanesi della Commissione regionale che, nell’altra sentenza citata stavolta dal Lenzuolo rosa, pongono un chiaro altolà alle istanze del Comune che, nel motivare un avviso di accertamento per area fabbricabile, ha riportato un valore calcolato basandosi su omologhe decisioni di comuni limitrofi. In sostanza, non solo la vocazione edificatoria di un’area non è elemento bastante a pretenderne l’imposta, ma quand’anche essa sia dimostrata, per poterla valutare correttamente bisogna andare molto più a fondo. Fino a, dicono i giudici meneghini, tener conto dello “stato del procedimento urbanistico al momento in cui la stima è stata effettuata”, per verificarne la coerenza con i valori desunti dalle transazioni commerciali e con i valori medi di mercato di terreni le cui procedure urbanistiche fossero a un identico stato di realizzazione. Se così non fosse, ne risulterebbe pregiudicato il diritto alla difesa del contribuente, sostiene la CTR. E però come si concilia questa posizione di chiara intransigenza con la lettera della legge? Infatti, non si concilia. La recente disposizione del D.L. n. 223/2006, poi assunta dalla Cassazione come principio-guida, non lascia spazi per ulteriori manovre interpretative. Indubbiamente, il Comune può (deve) attribuire un valore alle aree collocate in zone diverse, utilizzando tutti i dati a propria disposizione (e quindi anche, perché no, i valori attribuiti da enti limitrofi ad aree omogenee). E se l’attuazione del PRG è di là da venire, ciò non rende le aree esenti da imposta.

giovedì 13 settembre 2007

Tris di primi

1. Domenici ha trovato la quadratura del cerchio. Che da mesi ripetevamo su queste pagine. L'unico modo per salvare la capra della riduzione dell'ICI insieme ai cavoli del tesoretto da destinare è attribuire a ciascun proprietario immobiliare il diritto di detrarre l'imposta comunale dal proprio debito IRPEF. Non si trattava di una soluzione leonardesca (nel senso di Da Vinci), bastava il buon senso di razionalizzare l'uso di strumenti già efficaci su altri fronti (le spese mediche, innanzitutto). Eppure oggi la chiave del rebus è presentata sulla stampa come il classico coniglio dal cilindro, il trucco alla Sim Sala Bim che fa alzare tutti in piedi ad applaudire. I veri illusionisti, però, sono i funzionari al ministero, che ancora tentennano e rinviano sine die la risposta. Avranno forse timore di sbilanciarsi? Suvvia, è un gioco a somma zero per l'Erario. A meno che la litania sulle maggiori entrate fiscali non sia stata effimera come un successo dei Jalisse. Farebbero meglio a sbrigarsi, perché i toni si stanno rapidamente scaldando: "Chiederemo la restituzione del malloppo che ci è stato rapinato." ha sibilato uno dei numerosi vicepresidenti dell'associazione. L'ANCI prova comunque ad alzare la posta e propone di introdurre un principio di progressività anche per l'ICI. Troppo complicato, ragazzi. Al Parlamento, figuriamoci, stanno già pensando alla Flat Tax. 2. Sono improvvisamente aumentati i Comuni che si sono fatti ammaliare dalla fatina dell'imposta di scopo. Erano sette, ricordate, secondo l'ultima indagine ormai datata primavera scorsa. Che siano quasi triplicati (diciotto è il numero risultante a oggi) non è certo il segnale che può prolungare l'agonia di un tributo la cui sorte era già segnata alla nascita: troppe difficoltà nell'applicarla (entrata corrente per finanziare una spesa d'investimento), troppi rischi di doverla rendere (con gli interessi, letteralmente) ai contribuenti (nell'ipotesi ad elevata probabilità di ritardi nell'avvio dei lavori), troppo alto per i Sindaci, infine, il rischio di barricarsi in municipio, assediati da contribuenti inferociti per l'improvviso rigonfiamento del bollettino ICI (perché l'imposta funziona come addizionale a quest'ultima, già impopolare di suo). Il semplice dato statistico, invece, fa venire in mente (maliziosamente) un'altra cosa: ma quanti erano i Comuni che ad aprile non avevano ancora approvato il bilancio di previsione 2007? 3. Addio alle armi per un esercito di amministratori esautorati dalle ultime disposizioni sui CdA delle società partecipate. Con un tempismo da centometrista, il ministro Linda Lanzillotta ha rammentato agli interessati che il 7 novembre è dietro l'angolo e oltre quella data, se il capitale sociale regolarmente versato non supera i due milioni di euro, i consigli con più di tre membri sono fuorilegge. Così come quelli con più di cinque membri, se il capitale è superiore a quella soglia. E' un richiamo per tempo, quello del dicastero, per sollecitare a una revisione degli statuti con la massima celerità. Cosa accadrà ai CdA che (dolosamente o no) non seguiranno gli spassionati consigli ministeriali? La circolare di luglio ha fornito solo alcuni indizi per orientarsi. Si aprono, di fatto, a carico di tutti i birichini profili di responsabilità ampi e seri, anche se più legati al codice civile che a quello penale. La responsabilità degli amministratori, infatti, opera: a) verso la società, per danni causati al patrimonio della stessa; b) verso i creditori qualora il patrimonio sociale sia incapiente; c) verso singoli soci o terzi per fatto illecito compiuto nei loro confronti. Nei primi due casi il regime di responsabilità è quello contrattuale, quindi regolato dal codice civile, nell'ultimo sostanzialmente penale (benché si tratti di una tesi contestata). L'ipotesi della lettera b) qui non rileva. Si rientra, piuttosto, nella situazione a), anche se deve chiarirsi cosa accadrebbe concretamente se i CdA rimanessero invariati. Anche perché il Ministero ha già messo le mani avanti: non ha proprio idea di quante siano le società coinvolte: 1.000, 2.000, 3.000, non si sa. Proviamo a chiedere a Equitalia, ora che è stata sollevata dai doveri dell'art. 48-bis...

mercoledì 12 settembre 2007

Quel che cova sotto la cenere

Non si può neppure dire che sia colpa del caldo: a estate ormai esaurita, le temperature rinfrescano anche le menti più termo-sensibili. Dunque bisognerà trovare una spiegazione più logica all’estemporanea frase pronunciata nientemeno che dal vicepresidente ANCI, Fabio Sturani. A proposito del nuovo round di abboccamenti con il governo, ritorna il leit-motif della riduzione dell’ICI che fa davvero la parte dell’araba fenice in questa interminabile commedia teatrale. Il lungo giochetto senza soluzione (almeno per ora) continua, tra prove tecniche di riappacificazione e rassicurazioni in alto loco (di cui attualmente beneficiano esclusivamente i proprietari di immobili, almeno stando ai proclami di, addirittura, entrambi i vice-presidenti del Consiglio). In questo dialogo fra sordi si inserisce Sturani che, perorando caldamente la causa di una sotto-Finanziaria 2008 a esclusivo interesse degli enti locali, si infervora e, facendosi portavoce dell’intera associazione, chiude: “Non c'è nessuna preclusione di sorta, se dipendesse da noi elimineremmo l'Ici non solo sulla prima casa, ma anche sulla seconda e sulla terza. L'importante è che ci si sieda attorno a un tavolo per discutere con i comuni su come recuperare le somme a cui devono rinunciare. La compartecipazione dinamica all'Irpef può essere una soluzione, ma va quantificata. E in ogni caso vogliamo confrontarci con una proposta ufficiale del governo.” E tutte le invocazioni al legislatore perché si decida ad ampliare la benedetta autonomia impositiva degli enti? Alla malora, of course. In questo modo, alle ortiche ci andrebbe pure il progetto (già in fase di discussione piuttosto avanzata) per il federalismo fiscale che dovrà generare un nuovo rapporto tra centro e autonomie (il fulcro, com’è noto, essendo rappresentato dalle Regioni). L’addio così preconizzato a un’imposta la cui articolazione ha rappresentato sino ad oggi l’unico esperimento riuscito nel laboratorio della fiscalità comunale è un vero e proprio calar le braghe di fronte al miraggio degli euro versati nelle casse locali sic et simpliciter. Capisco bene le preoccupazioni dei sindaci, che vedono certo più di buon occhio un importo da incassare senza perdere il sonno al momento di accertarne la congruità, rispetto alla complessità che l’ICI porta con sè, soprattutto nella fase del controllo di versamenti e dichiarazioni. Ma allora perché sprecare fiato sulla destinazione del tesoretto (posto che sia mai veramente esistito). Con questi sistemi è sufficiente, dopo aver determinato il peso della torta, fare una bella proporzione fra tutti gli enti creditori, distribuire a pioggia il risultato e finirla lì. Purché poi non si faccia nuovamente marcia indietro. Perché il ritorno a un passato di soli trasferimenti non può essere evocato a giorni alterni, secondo le paturnie del momento. Servirebbe, con ogni probabilità, un chiaro pronunciamento non tanto dell’ANCI che, per quanto rappresentativa, è un interlocutore politico che necessariamente media tra posizioni tremendamente differenti, quanto dei comuni raggruppati per fascia demografica (e senza considerare che le province si sono già offese per essere state escluse da questo tavolo settembrino). Assemblee coattive da tenersi periodicamente con in agenda gli argomenti caldi per sintetizzare istanze concrete, senza affidarsi ai bipolarismi di Sturani che poco prima aveva tranquillamente dichiarato: “È un fatto importante, (la ripresa del dialogo Governo-Comuni NdR) in ballo ci sono tanti temi fondamentali per la vita del paese, dal federalismo fiscale al codice delle autonomie, dalla Finanziaria 2008 agli avanzi di amministrazione. Non si può pensare di affrontarli senza ascoltare la voce dei comuni.” Pare un referendum per abrogare il buon senso. In questo calderone dove si mischiano indistintamente slanci autonomisti e rigurgiti di assistenzialismo, è quasi impossibile distinguere le proposte serie dalle parole in libertà. Diradate il fumo, una buona volta. Perché quando arriva il momento di decidere, i Comuni prendono ciò che viene, indipendentemente dal ruolo giocato da ANCI.

martedì 11 settembre 2007

Non si butta via niente

Recupero un intervento di fine agosto a cura di Piergiorgio Liberati apparso su LiberoMercato, il neo-quotidiano economico diretto dall'eccentrico Oscar Giannino, sulla entrata in vigore della nuova tariffa per la gestione dei rifiuti. E non capisco. O meglio, comprendo la qualità della polemica e mi viene da ridere. La sostanza attorno all'osso sarebbe la seguente: c'era una volta il Codice dell'Ambiente, ultimo atto macroscopico del precedente governo, la cui rivoluzionaria portata sarebbe stata stoppata dalla Finanziaria 2007. Ora, dopo mesi di incertezza, il Codice sarebbe entrato completamente in vigore e per le province si profilerebbe una perdita secca di gettito di circa 180 milioni di euro, causa la scomparsa dell’addizionale provinciale sulla TARSU o TIA (Ronchi). La lettura distratta del pezzo farebbe insomma presagire un tracollo finanziario al quale non si sarebbe posto rimedio per tempo. E’ un vero peccato che si perdano tempo e neuroni per imbastire duelli dialettici fondati sulla fuffa, invece di aiutare gli enti a capire bene quando e con quali modalità entrerà in vigore sul serio il nuovo sistema tariffario. Infatti, la stratificazione delle forme di tassazione non si è ancora esaurita, nel senso che (lo scrivevamo qualche giorno fa) per ora convivono allegramente TARSU e TIA, variamente distribuite sul territorio nazionale, in attesa di avere in giro per casa anche la Tariffa ambientale che le dovrebbe seppellire entrambe. La sospensione prevista dalla legge n. 296/2006 aveva solamente il sapore dolciastro dell’intervallo: poiché per il Codice dell’Ambiente non si era completato l’iter attuativo (e la nuova tariffa era ancora solo sulla carta), la Finanziaria aveva semplicemente (e discutibilmente) impedito ai comuni di cambiare in corsa gestione da TARSU a TIA. Non c’è, dunque, alcun collegamento diretto tra la scomparsa del tributo provinciale e il comma sospensivo della Finanziaria 2007. La faccenda invece viene raccontata così: “Mina da 180 milioni di euro sulle Province italiane. Nelle casse degli enti locali, infatti, potrebbero non confluire gli introiti relativi al tributo provinciale per l'ambiente (Tia). La questione ruota attorno ad un dubbio interpretativo tra il Codice ambientale del governo Berlusconi - il dlgs 152 del 2006 - che ha soppresso questo tributo e il comma 184 della Finanziaria, che «mantiene invariato nel 2007 il regime di prelievo relativo al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti adottato in ciascun Comune per l'anno 2006». Un dubbio che potrebbe trasformarsi in una pioggia di ricorsi, visto che, in attesa che venga sciolto, i Comuni stanno inviando le bollette per il pagamento della tariffa sui rifiuti, comprensiva del tributo "incriminato." E per quale ragione i comuni dovrebbero sospendere l’invio delle cartelle TARSU o delle fatture TIA relative al 2007? Perché, dice Liberati, il Codice dell’Ambiente è già entrato in vigore, abrogando d’un colpo le altre forme di prelievo. Il 1° agosto scorso sarebbe stata la data fatidica, separazione tra vecchio e nuovo modus operandi. In discussione è la Parte Quarta del D.Lgs. n. 152/2006, denominata appunto “Norme in materia di gestione dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati” e l’articolo specifico è il 238, Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani. Si dà il caso che il testo (per ora non emendato) del relativo comma 6 sia piuttosto chiaro, a proposito: “6. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro delle attività produttive, sentiti la Conferenza Stato regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, le rappresentanze qualificate degli interessi economici e sociali presenti nel Consiglio economico e sociale per le politiche ambientali (CESPA) e i soggetti interessati, disciplina, con apposito regolamento da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della parte quarta del presente decreto e nel rispetto delle disposizioni di cui al presente articolo, i criteri generali sulla base dei quali vengono definite le componenti dei costi e viene determinata la tariffa, anche con riferimento alle agevolazioni di cui al comma 7, garantendo comunque l'assenza di oneri per le autorità interessate.” L’entrata in vigore del decreto, cioè, è solo la base di partenza per l’operazione-rifiuti. Se scendiamo fino al comma 11, infatti, troviamo la precisazione: “11. Sino alla emanazione del regolamento di cui al comma 6 e fino al compimento degli adempimenti per l'applicazione della tariffa continuano ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti.” Basta, dunque, leggere il testo, per una volta non oscuro, della norma per fugare i dubbi. Anche se, ci scommetto, all’autore poco importava di informarsi con un briciolo di attenzione in più.

lunedì 10 settembre 2007

La valle dell'eden

I dati in possesso del Lenzuolo rosa sono, ad un tempo, sconfortanti e risaputi. Se solo il 14% dei comuni d’Italia ha introdotto la rendicontazione sociale, possiamo provare la delusione degli sprovveduti, poiché la costruzione di un documento di tale portata non è riconducibile ad alcun modello precostituito (né dalla prassi, né, tantomeno, dal legislatore) e finisce perciò con l’essere il prodotto di gruppi di lavoro autoctoni ben formati oppure di service esterni in grado di dedicare opportune risorse umane al progetto. Le recenti linee guida che l’Osservatorio per la contabilità e la finanza degli enti locali ha predisposto per i più volonterosi e i principi pubblicati dal Dipartimento della Funzione pubblica nel febbraio 2006 sono, più che manuali operativi nel senso proprio del termine, una sorta di check-list per coloro i quali costruiscono già bilanci sociali e possono in tutta sicurezza verificare che la documentazione messa a disposizione dei portatori di interesse sia stata elaborata a regola d'arte. D’altra parte, per quale motivo dovremmo utilizzare criteri di valutazione uguali per enti piccoli, medi e grandi, quando è così lapalissiano che la complessità del documento lascia poco spazio (per non dire alcuno) all’approssimazione. Difatti il pressapochismo qui non ha residenza. Non può averne neppure il rendiconto ordinario, direte. In linea generale, non c'è dubbio. Peccato che, a differenza di quest’ultimo, qualsiasi sofware non può riprendere in maniera automatica i dati del bilancio e avrà necessariamente bisogno di un lavoro (meticoloso) di riclassificazione che, non essendo codificato in leggi o regolamenti, dovrà forzosamente essere fondato su principi ad hoc, validi per quella comunità amministrata e non altre. Non dimentichiamo, infatti, che stiamo discutendo di un bilancio ancora facoltativo, che si somma a quello ufficiale e che, verosimilmente, deve essere presentato in tempi omogenei al rendiconto che scade a fine giugno. L'impegno richiesto è, dunque, di quelli che occupano gli uffici (tutti, in questo caso, a un identico livello di analisi) per mesi. I bilanci sociali oggi giustamente elevati a esempio positivo di esperienze comunali sono realizzati, non a caso, da enti ampi e non privi di risorse. Così, al di là di un'evidente (addirittura ovvia) necessità di allargare il più possibile la diffusione di una pratica che rompe il muro di diffidenza tra bilanci pubblici e cittadini amministrati, quale soluzione per gli enti piccoli? Purtroppo in questo caso non è possibile invocare la ciambella di salvataggio dell'associazione tra comuni, vantaggiosissima quando si tratta di razionalizzare l'uso delle risorse a disposizione, semplicemente inutile quando gli stakeholder sono legati alla comunità municipio non al consorzio o all'unione di comuni. Ne risulta un sostanziale impasse che si può sbloccare solo con più risorse (soprattutto umane). Certo non è questo il tempo di allargare i cordoni della borsa per investire di più sul personale. L'impressione è che, realisticamente, l'unico modo per auspicare la diffusione del bilancio sociale ovunque sia quello di affidarne la redazione a soggetti esterni all'amministrazione. Pare cioé che tutto si debba per forza risolvere in una contraddizione indissolubile, poiché i risultati di mandato sono esaminati e giudicati da chi entra in gioco solo a cose fatte, senza avere la percezione quotidiana della società governata.

venerdì 7 settembre 2007

Romanzo popolare

Ci eravamo distratti. Avevamo concentrato ogni attenzione sugli enti ecclesiastici e sui loro beni immobili. La saturnina normativa e la ferma giurisprudenza giocavano a rimpiattino per decidere infine le sorti di qualche centinaia di milioni di euro in più o in meno nelle casse comunali di tutt'Italia. Nel frattempo, mentre l’esenzione ICI per questi enti andava e veniva, anche sulla spinta insistente dell’Unione europea cavaliere della libera concorrenza, si attribuivano quasi in sordina inaspettati vantaggi a un'altra vecchia conoscenza degli uffici tributi: gli istituti regionali di gestione delle case popolari. Gli ormai ex IACP sono da sempre una spina nel fianco delle commissioni tributarie e della Corte di cassazione, a causa dell’instancabile volontà di ottenere una volta per tutte la tanto desiderata (e pretesa) esenzione dall’ICI. La CTP di Bari, con sentenza dello scorso febbraio, si è infine stancata di negare agli istituti il ristoro per la loro benefica attività e ha stabilito che, sì, non devono proprio pagarla quest'ICI. Lo riporta oggi lo Struzzo giallo insieme a un caustico commento di un membro del gruppo Focus-Anutel sulla giustizia tributaria. La motivazione giuridica dell’esenzione avrebbe origine dalla pacifica natura pubblicistica degli IACP (li chiamiamo ancora così per comodità) i quali, per giunta, eserciterebbero ordinariamente un’attività non commerciale, perseguendo finalità di natura assistenziale nella gestione del patrimonio immobiliare a loro affidato. Pertanto, sarebbe possibile farli ricadere nella fattispecie agevolativa prevista dall’art. 7, c. 1, lett. i) del D.Lgs. n. 504/1992 che individua come esenti gli immobili utilizzati da enti pubblici e privati, diversi dalle società, residenti nel territorio, che non abbiano per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali. La CTP non si accontenta, com’è ovvio, della lettera della norma principale, ma argomenta la sua tesi utilizzando a suo favore quanto previsto dall’articolo 7, comma 2-bis, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248 (sostituito dal decreto Bersani del luglio 2006), che stabilisce l’applicabilità dell’esenzione alle attività che non abbiano esclusivamente natura commerciale. E’ l’argomentazione su cui, da sempre, gli istituti fondano i ricorsi contro gli avvisi di accertamento comunali. E’ anche l’argomentazione che non è mai riuscita a convincere la Corte di cassazione, spesso investita della questione, e persino la Corte costituzionale, che già undici anni fa aveva respinto l’eccezione di incostituzionalità rispetto all’esclusione degli IACP dall’esenzione ICI (sent. n. 113 del 28 marzo/12 aprile 1996). Sullo stesso sentiero si era poi incamminato il Ministero delle Finanze che, con circolare n. 185/E del 14 settembre 1999, aveva consigliato i Comuni di rigettare le istanze di rimborso motivate su tale presunta incostituzionalità. D’altronde, perché complicare inutilmente le cose? Il pensiero frastagliato della commissione pugliese può essere coerentemente ricostruito e utilizzato per dimostrare che l’esenzione proprio non può stare in piedi. Infatti, l’art. 7, citato dai baresi, è esplicito: gli immobili devono essere “utilizzati” dall’ente che chiede l’agevolazione. Non risulta, nemmeno in via eccezionale, che gli IACP soddisfino questa condizione sine qua non. Chi “utilizza”, infatti, sono gli inquilini. Una volta sistemato il requisito oggettivo (e già questo sarebbe sufficiente per chiudere la partita), resta quello soggettivo. Come definiamo gli istituti che oggi sono denominati Ater (Aziende territoriali per l’edilizia territoriale)? Si tratta, certo, di enti pubblici economici, il cui campo di attività si estende però ben oltre quello, invero piuttosto circoscritto, dei vecchi IACP. Infatti, le loro competenze riguardano anche: realizzazione di programmi integrati per il recupero dell'edilizia abitativa, esecuzione di opere di urbanizzazione per conto di enti pubblici, erogazione di attività di consulenza e di assistenza tecnica a favore di operatori pubblici e privati, fino a giungere alla costruzione e alla vendita di immobili a prezzi economici. Vogliamo definirla attività imprenditoriale? E definiamola. Salta, dunque, anche il secondo cardine della porticina che dà sull’esenzione. Per concludere, vorremmo citare una sentenza della C.T.P. di Rovigo 18 marzo 1998, n. 65 che, rammentando il percorso legislativo dell’imposta comunale sugli immobili, ricostruisce il ruolo degli IACP e l’impresentabilità della loro pretesa: “Il ricorrente ricorda alla Commissione che il D.L. n. 333/1992, convertito con modifiche dalla legge n. 350/1992, relativa all'imposta straordinaria sugli immobili (Isi) prevedeva specificatamente, a differenza dell'Ici, come soggetti esenti anche gli "Istituti autonomi case popolari". Vale quindi il principio ubi lex voluit dixit: se l'art. 7 del precitato D.Lgs. n. 504, a differenza della norma citata non ha inserito tra i soggetti esenti gli Iacp, vuol dire che, per una insindacabile scelta di politica legislativa, si è ritenuto di escludere, appunto, l'Ente predetto dal beneficio. E' stato, peraltro, operato un intervento legislativo per "compensare" questa scelta, per consentire la copertura delle spese amministrative e degli oneri fiscali. Si è quindi legislativamente tenuto conto degli oneri fiscali gravanti sugli allora Iacp a seguito dell'entrata in vigore della nuova imposta Ici e gli stessi, a differenza di quanto avveniva prima dell'Ici, sono andati ad incidere direttamente sull'aumento del canone di locazione degli alloggi, per cui è impensabile che gli Iacp (ora Ater) abbiano avuto un aumento di canone dai propri inquilini per pagare l'imposta e poi pretendano di non pagarla.

giovedì 6 settembre 2007

Non sparate sul pianista

Siamo usi a non sorprenderci più di fronte ai massicci dietro-front ministeriali sulle più disparate materie. Ovviamente, ne apprezziamo il lato sovente comico, certamente non volontario ma indubitabile. In un futuro, certi talenti avrebbero una professione assicurata e di redditizio esito, qualora giudicassero insostenibile il noioso compito di scartabellare tra gazzette (ufficiali). Così, l'ilarità sgorga copiosa dopo la lettura della nuova circolare che la Ragioneria generale dello Stato ha appena dedicato alla disciplina dei pagamenti della P.A. superiori a 10.000 euro. Ricordate che poche settimane fa la stessa Ragioneria, anticipando l'atteso decreto ministeriale previsto dall'art. 48-bis introdotto lo scorso ottobre al D.P.R. n. 602/1973, aveva diramato una personalissima interpretazione della norma, con il poco velato intento di sostituirsi a un provvedimento che tardava a sbocciare e colmando un silenzio preoccupante su un tema delicato anziché no. A base della circolare n. 28 era posto il principio che la norma così com'è è immediatamente cogente e che le istruzioni della circolare erano una sorta di supplemento per funzionari poco svegli, utile ma non indispensabile. Inoltre, era dichiarato a nettissime lettere che la principale conseguenza del nuovo provvedimento era la richiesta a Equitalia Spa di verificare la posizione esattoriale del creditore (eventualmente anche per via telematica) e che solo per evitare lungaggini nell'attendere gli esiti di tale analisi sarebbe stata utile l'autocertificazione il cui schema era stato prontamente allegato. Nella sede di Equitalia, però, non hanno apprezzato queste attenzioni. Piuttosto, hanno alzato la cornetta e chiesto una decisa frenata alle intenzioni informatiche del Ministero. Così, a distanza di pochi giorni (e di molte conversazioni accese, immagino), la RGS mette in pausa il concessionario della riscossione con il quale, finalmente, ha parlato per metterlo al corrente della novità e, quasi chiedendogli scusa per aver osato disturbarlo, conclude: "Si soggiunge che, in un'ottica di semplificazione e collaborazione amministrativa (chissà perché, inevitabilmente a senso unico) , sulle presenti istruzioni si è acquisita la condivisione della società Equitalia S.p.A., (...)". Già posso immaginare i funzionari della riscossione pregare il Ministero di attribuire a Equitalia il grosso delle verifiche. E dunque, sono ancora una volta i singoli enti a doversi preoccupare di raccogliere le informazioni scottanti sulla solvibilità dei creditori (sic). Non che il compito degli enti sia straordinariamente gravoso: si tratta di fare sottoscrivere ai creditori l'apposita dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà. In discussione resta come sempre il metodo con cui gli adempimenti sono imposti. Prima, vagheggiando di improbabili collaborazioni del riscuotitore per eccellenza (e per concessione dello Stato). Poi, una volta preparata la frittata e incassato il gran rifiuto, incaricando coloro che dovrebbero ricevere le informazioni di andarsele a prendere direttamente alla fonte, perché il concessionario, ahimé, non ne ha il tempo: "(...) si ritiene più rispondente alle esigenze di efficacia dell'azione amministrativa che le Amministrazioni interessate procedano in prima istanza a richiedere ai beneficiari il rilascio della indicata dichiarazione sostitutiva (...)". Ci sono un paio di contentini, alla fine. Ci forniscono un indirizzo e-mail e un numero di fax (due in verità) ai quali trasmettere le richieste di controllo; ma badate bene, solo nel caso che il creditore si rifiuti di sottoscrivere la dichiarazione. Ci dicono, infine, come gestire il caso delle forniture periodiche (che una lettrice aveva già sollevato a commento del post precedente dedicato all'argomento). Per evitare il continuo tira e molla tra ente e creditore ad ogni emissione di fattura, basta indicare nella prima dichiarazione che "provvederà a comunicare tempestivamente e senza indugio alcuno qualsiasi variazione alla situazione sopra rappresentata." Nel balletto tra carota e bastone, quale sarà il ruolo del decreto attuativo (posto che arrivati a questo punto sia mai pubblicato)?

mercoledì 5 settembre 2007

La sopravvivenza del più adatto

Quando la Cassazione decide che è venuto il momento di seminare un po’ il panico negli uffici tributi comunali, non c’è alcuna possibilità di sfuggirle. E’ di stamane (si veda l’utile sunto apparso sullo Struzzo giallo) la notizia che, con sentenza del 20 marzo, benché depositata solo lo scorso 24 luglio, la Corte ha attribuito all’avviso di pagamento inviato dall’ente locale a titolo bonario per tassa smaltimento rifiuti autonoma impugnabilità davanti al giudice tributario, assimilandolo all’avviso di liquidazione del tributo e facendolo dunque rientrare in una delle fattispecie previste dalla legge. L’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, ricordate, elenca tassativamente gli atti oggetto di ricorso tributario e, tra questi, non appare l’avviso bonario, il quale ha, tra l’altro, lo scopo di ridurre gli oneri a carico del contribuente facendogli risparmiare i diritti di notifica della cartella esattoriale. La mancata indicazione sull’avviso della possibilità di adire il giudice tributario non è certo l’esito di una scientifica valutazione comunale. Piuttosto, rientra nella buona pratica di ottenere quanto comunque dovuto senza esercitare la tanto temuta coercizione tributaria. La Corte sostiene che la definizione apposta dal comune al documento non può rilevare ai fini della sua impugnabilità, poiché questo potere è esclusivo del giudice di primo grado (la commissione tributaria provinciale), il quale solo può accertare che gli elementi contenuti nel documento integrano comunque una delle fattispecie previste dal fatidico art. 19. Eppure questo è uno dei casi in cui l’attività del comune si pone concretamente a favore del contribuente, al quale è recapitato un avviso con lo scopo essenziale di non intimidirlo. E’ una pratica che, negli ultimi anni, ha ottenuto un buon riscontro in termini di incassi. Ciascun ente può testimoniare che l’introduzione dell’avviso bonario ha comportato regolarità di versamenti alle scadenze e un ricorso limitato al contenzioso. Proprio perché ritenuti in via ordinaria come inviti a pagare, i contribuenti eventualmente recalcitranti si presentano con meno foga allo sportello per chiedere delucidazioni e trovano spesso risposta ai propri dubbi. Riconosco che non si tratta di un documento perfetto. Una miglioria che ragionevolmente potrebbe essere apportata a tali avvisi è una maggiore chiarezza nell’esposizione della superficie imponibile e della tariffazione a metro quadrato. D’altra parte, purtroppo, la formazione dei ruoli esattoriali segue una struttura del data-base i cui record sono costituiti da campi già definiti e dunque un lavoro di integrazione extra-ruolo non sarebbe, per quanto auspicabile, sforzo minore per l’ufficio comunale e per il concessionario. Il quotidiano, commentando la pronuncia, si mette nei panni del contribuente e ne paventa la maggiore confusione tributaria. Il bersaglio mi sembra fuori centro, stavolta. Con tutta la buona volontà che merita l’ammorbidimento dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, questo è un caso nel quale le conseguenze peggiori le subisce quest’ultima. Se l’avviso contenga o meno l’indicazione della possibilità di presentare ricorso, è circostanza della quale al contribuente, lasciatemelo dire, importa poco o nulla. Quali dunque le conseguenze pratiche di questa pronuncia. Quale concreto vantaggio si otterrebbe da una pratica a questo punto esclusivamente dilatoria. Se anche l’avviso è impugnabile in via autonoma, perché emetterlo in luogo della cartella esattoriale? Per l’amministrazione rappresenta in ogni caso un aggravio oneroso (il concessionario sostiene costi vivi di redazione e spedizione ineludibili). Non è prevista come obbligatoria da alcuna norma. L’ente è comunque titolato ad emettere immediatamente le cartelle. Vorrei sbagliarmi, ma se il principio ricavabile dalla sentenza dovesse ottenere la diffusione che certo merita, data l’autorevolezza del giudice, il futuro degli avvisi bonari è virtualmente segnato.

martedì 4 settembre 2007

Bassa acidità

Sotto il grande cielo della pubblica amministrazione niente è più incerto del diritto ad accedere ad atti e documenti, per definizione, disponibili a chiunque ne abbia interesse. L'incertezza deriva quasi sempre da una doppia concomitanza: l’inanità di alcuni funzionari, scarsamente inclini a predisporre percorsi limpidi per la pubblicizzazione dell’attività propria e del proprio ufficio; l’antico timore reverenziale che ancor oggi incute nel cittadino medio l’idea stessa di ufficio pubblico, che gli impedisce l’esercizio di un interesse legittimo o, addirittura, di un diritto soggettivo solo perché non ne conosce limiti e confini. E’ pur vero che quando allo sportello (qualsiasi sportello) pubblico si presentano energumeni disposti a ogni colluttazione pur di ottenere con le cattive quello che con le buone non avrebbero titolo a pretendere, l’istinto di conservazione tipico del dipendente pubblico produce un ragionamento automatico che suona pressapoco così: se con i maleducati devo comunque comportarmi come a un pranzo di gala, posso ottenere qualche piccola rivincita facendo penare a chicchessia l’ottenimento del regolamento x piuttosto che della deliberazione y. Di questo passo, tuttavia, sappiamo bene dove si giunge: nel vicolo cieco dell’irrisolutezza, dove i privati avranno sempre buon gioco a criticare l’indifferenza del settore pubblico e gli alfieri di quest’ultimo si sentiranno perennemente sotto tiro, costretti a giustificare anche i comportamenti più inqualificabili. Così, quando il Consiglio di Stato impone ad un comune che aveva opposto un fiero rifiuto di produrre a favore di un’impresa di servizi copia della documentazione di bilancio, perché quest’ultima possa verificare la sussistenza o meno dello stanziamento a suo favore, a tutela di crediti in maturazione, risulta chiaro chi è il vincitore del tedioso tiro alla fune e ammetterlo solleva l’animo, non c’è che dire. E’ il merito della pronuncia che però attira l’attenzione. Siamo, con questa sentenza, in un terreno molto più fertile di quello normalmente associato a questo tipo di richieste. La tutela degli interessi legittimi è costantemente affermata da qualsiasi giurisdizione adita, e persino l’amministrazione coinvolta non oppone resistenze decisive all’esercizio di una posizione giuridica così radicata e giustificata. Tutto un altro paio di maniche quando il tasto sfiorato è quello dei diritti soggettivi. Basta evocare lo spettro della giurisdizione civilistica e anche il più mite degli amministratori si sente investito dell’oneroso compito di tutelare la propria incolumità, talvolta omertosamente. Eppure, qui, si può solo intuire quale possa essere stata la vera motivazione dell’originario niet. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci s’azzecca, sosteneva, non senza ragione, un navigatissimo uomo politico. Dunque, è probabile che quello stanziamento nel bilancio comunale non ci fosse e che il credito dell’impresa fosse dunque più traballante del previsto (la grana dei debiti fuori bilancio allunga i tempi e rovina irrimediabilmente i rapporti di buon vicinato). Ne vien fuori un assioma di una semplicità disarmante: il bilancio di un ente locale è, appunto, pubblico, cioè: “che tutti possono utilizzare, in quanto di proprietà della collettività”. Parrebbe lapalissiano, non fosse che il Comune intendeva ‘pubblico’ in un’accezione appena differente, cioè: “dello stato, relativo alle sue competenze istituzionali”. Si finisce per sorridere di un atteggiamento così fuori dal tempo, che colloca le amministrazioni in uno spazio orwelliano e fa arretrare di qualche passo la linea del fronte della modernità amministrativa. Resta da vedere se, quando il privato riceve, pur forzosamente, quanto richiesto, sia in grado di interpretare ciò che le carte dicono senza aver bisogno di affidarsi a consulenti ed esperti di provata fama. Povero privato, anche il successo in tribunale equivale a una vittoria di Pirro.