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martedì 16 ottobre 2007

Arte contemporanea

Quindici minuti di notorietà non si negano a nessuno. Specie se passano attraverso uno schermo televisivo. Se poi il diretto interessato ne ricava solo pubblicità negativa, poco male. Il vecchio adagio, infatti, recitava: “Purché se ne parli”. Oggi, sotto i ‘malevoli’ riflettori del giornalismo d’inchiesta, ultimo baluardo del controllo pubblico sulle prepotenze dei più furbi, sono finiti i prodotti finanziari derivati, nati dalla fantasia dei maghi di Wall Street con l’obiettivo preciso di alimentare l’industria dei prestiti a buon mercato, consentendo agli operatori di incassare prima (la differenza fra i tassi) e pagare, forse, il più tardi possibile il debito residuo. E insieme ad essi, troviamo sullo stesso banco degli imputati le autonomie locali che vi hanno fatto ricorso negli ultimi anni per rinegoziare un indebitamento troppo alto e troppo caro, sfruttando il temporaneo calo dei tassi di interesse, e spostando sempre più lontano la data di estinzione dei mutui. E’ inutile dire che ad approfittarne in modo massiccio sono state soprattutto le amministrazioni regionali che, causa i deficit giganteschi prodotti in particolare dalla gestione della sanità, si sono trovate per le mani un giocattolino allettante che proponeva il vantaggio collaterale delle somme versate up-front dagli istituti di credito. Il meccanismo dello swap è in teoria piuttosto semplice: gli interessi (quasi sempre a tasso fisso) che si devono versare, ad esempio, alla Cassa DD.PP. se li accolla l’istituto di credito, al quale, come contropartita, si pagheranno interessi sullo stesso capitale ma a un tasso variabile più conveniente. Il giochetto, va da sè, è vantaggioso nel breve periodo e tanto più se l’allungamento della vita media del debito è procrastinato quanto più possibile. Le banche che spingono per stipulare queste tipologie di contratti si coprono a loro volta distribuendo il rischio su altri operatori (e qui si apre il fronte affatto diverso dell’instabilità complessiva di un sistema fondato sull’azzardo). Gli enti locali, forti di un’autorizzazione sancita da norme giuridiche, non dimentichiamolo, ne hanno approfittato sapendo perfettamente che il vantaggio a breve non sarebbe mai stato superiore al costo rappresentato in prospettiva dal prolungamento della durata media dei contratti di mutuo esistenti. Ma cosa sarà mai trasferire alle prossime generazioni il peso di un debito contratto quando non erano neppure nati? Qualche rata in più e lo spettro del default si allontana. Peccato che oltre i libri di testo, c'è una pratica molto più spinosa. Pensiamo, infatti, alla più classica delle leggi economiche: la vita media di un bene non può essere inferiore a quella del debito contratto per acquistarlo. Poiché la rinegoziazione di prestiti è proposta dagli istituti di credito per importi superiori ai due milioni di euro (altrimenti spalmare il nuovo rischio su altri operatori sarebbe improponibile), le probabilità che l'aurea regoletta sia rispettata non sono altissime. Purtroppo però è su questo parametro che bisognerebbe ragionare per giudicare la qualità del debito di un comune, lasciando perdere Finch e i suoi soppravvalutati rating. Un adeguato sondaggio sul rispetto di questo principio da buon padre di famiglia farebbe, credo, emergere un numero importante di situazioni sospette e allora sì, dire peste e corna dei derivati avrebbe una ragione. Nella canea indistinta dell’antipolitica, però, restano inascoltate le istanze di buon senso che la finanza locale, talvolta, sa mettere in campo.

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