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giovedì 12 giugno 2008

Prezzi pazzi

Da quando è entrata in vigore, la norma sul blocco dei pagamenti della P.A. ha creato soprattutto confusione. Inizialmente a causa dell´assenza di qualsiasi disposizione attuativa (che aveva dato modo al Ministero di esercitarsi nella sua più frequente abitudine, quella di legiferare per circolari). Infine, dopo che si era giunti alla definizione di un pacchetto congruo di regole snelle e apparentemente efficaci, per effetto della carente struttura informatica messa a disposizione degli enti per comunicare i nominativi dei soggetti sotto controllo, struttura travolta dall´impetuoso (ma prevedibile) flusso di informazioni provenienti da 8.000 comuni impazienti.
Ciò che non è mai andato giù agli operatori pubblici è il fatto di dover chiedere a Equitalia Spa ciò che Equitalia Spa sa già (o può comunque agevolmente conoscere) ma non vuole fare lo sforzo di recuperare. Per ora, su questo versante, nulla è cambiato, tranne la migliore accessibilità del sito informatico, evidentemente adeguato a un volume di traffico assestato.
Gli operatori privati, invece, hanno costantemente lamentato una discriminazione operata dalla legge nei loro confronti, sempre costretti a rincorrere la P.A. quando si tratta di recuperare i propri crediti e ora pure costretti a far accertare la pulizia della loro fedina fiscale prima di vedere il becco di un quattrino. Per queste doglianze, a quanto pare, in parlamento ci si sta muovendo poiché, a forza di interpellanze, le commissioni competenti stanno vagliando la possibilità di apportare modifiche a una disciplina già travagliata di suo. Attendiamo lumi, anche, eventualmente, per rinfrescare la memoria del monopolista della riscossione.

mercoledì 11 giugno 2008

I ricchi e i poveri

L’inafferabile ministro della Funzione pubblica ha ormai messo le mani dappertutto e si sta muovendo con così poca discrezione che, ormai, la rivoluzione prossima ventura della pubblica amministrazione o sarà epocale o sarà seppellita da una fragorosa risata. Poiché di parole se ne susseguono a fiumi ormai da un decennio (dall’ultima volta, cioè, in cui si verificarono dei fatti: leggasi Bassanini e le sue leggi di semplificazione), attenderei prima di gridare al miracolo. Sempre pronti tuttavia a giudicare con ammirato entusiasmo gli eventuali esiti positivi delle mille attività contemporaneamente messe in cantiere. Quella che ho appena intravisto in un breve pezzo di spalla sullo Struzzo giallo rappresenterebbe (notate l’insistenza del condizionale) un vero e proprio spartiacque nella gestione amministrativa degli enti locali. Mi riferisco alla ventilata abolizione del bilancio di previsione per i “piccoli comuni”.
La questione, messa in questo modo, non è neppure troppo chiara. Da un lato si dice in modo esplicito che gli enti in questione non dovranno più approvare il bilancio, senza tuttavia spiegare cosa accadrà una volta entrata in vigore la norma. Dall’altro il riferimento ai piccoli enti è certamente fuorviante, poiché per consuetudine tutti i comuni sotto i 5.000 abitanti sono considerati ‘piccoli’, ma le parole di Renato Brunetta fanno pensare piuttosto a realtà dalla demografia irrisoria (ci si rivolgerebbe agli enti “spesso con un solo dipendente o addirittura con solo il sindaco”), confinati in zone impervie e montagnose e, in ogni caso, numericamente limitate. Giudicando nel merito la proposta, posto che, nelle parole del ministro, il fatto che questi microscopici enti debbano seguire lo stesso iter di un capoluogo di provincia è “un modello inaccettabile e insopportabile”, verrebbe da dire: era ora che qualcuno si accorgesse della differenza.
Della enorme differenza che passa tra un ente senza risorse a disposizione e uno che dovrebbe averne a sufficienza, quando sono alle prese con gli stessi (per numero e contenuto) adempimenti durante tutto l’anno (fatte salve poche eccezioni). Quante volte ci si è trovati di fronte in questi lustri a leggi finanziarie che certificavano una realtà che non c’è mai stata, introducendo norme dall’applicazione indistinta e, ovviamente, capestro per gli enti meno dotati. Basterebbe rammentare il recente divieto di affidare incarichi professionali a soggetti non laureati, sul quale i comuni senza ragioniere o geometra hanno pianto calde lacrime, non potendo più affidare a un diplomato la reggenza dell’ufficio. Daremmo così il più caloroso dei benvenuti a un provvedimento che introduce una discriminazione positiva nel nostro immobile ordinamento.
Ci viene però un malizioso dubbio. Che ne sarà del bilancio dell’ente, se non sarà più obbligato ad approvarlo? Posto che, in ogni caso, se l’ente mantiene la sua autonomia giuridica e funzionale, non potrà non averne uno. Dalla riscossione dei tributi al pagamento dei fornitori, dall’esazione dei diritti di segreteria all’estinzione dei mutui, l’attività amministrativa dell’ente non può prescindere da un documento contabile. L’alternativa, allora, parrebbe porsi tra l’instaurazione di una procedura semplificata, che elimini allegati superflui e consenta di programmare senza compilare relazioni complesse, e l’esternalizzazione dell’approvazione. A cura, magari della prefettura competente. La praticabilità della prima ipotesi mi pare più aderente a un modello che non può far scomparire le piccole realtà. Sulla seconda non scommetterei un centesimo e sarebbe pure l’antitesi di un federalismo fiscale ancora in fieri. A meno di accorpamenti forzosi tra comuni limitrofi, altrettanto improbabili, tuttavia. La notizia, in questo caso, semina il vento della rivoluzione. Speriamo di non raccogliere presto la relativa tempesta.

martedì 10 giugno 2008

In una botte di ferro

Il buongiorno si vede dal mattino. Di Napoli, per di più. Una volta approvato, il testo del decreto-legge fiscale che cancella in un baleno l’ICI sull’abitazione principale è stato rapidamente secretato, per apparire in forma del tutto ufficiosa su qualche benevolo sito, a registrazione per fortuna gratuita. A disposizione dunque dell’assetato pubblico di operatori comunali, ancora frastornati dalle notizie trapelate negli ultimi giorni sul rimborso del minor gettito, ma non solo. A informare i contribuenti, infatti, ci aveva già pensato la stampa specializzata con schemi, tabelle e tutto il consueto apparato per spiegare in termini comprensibili ciò che vien fuori dalla seduta del CdM. Agli enti locali, malinconicamente, ora che è finalmente stato pubblicato nella raccolta ufficiale, non resta che constatare l’abbandono di qualsiasi velleità di autonomia fiscale. Infatti: a) l’addio all’imposta sulla casa di abitazione non costituisce, nel breve periodo una perdita netta di risorse correnti (l’attribuzione di un contributo a ristoro totale è prevista dal decreto, fatte salve le modalità per l’effettiva erogazione).
Ma scompare del tutto qualsiasi ipotesi di modulazione dell’imposta che tenga conto, ad esempio, di condizioni di reddito o sociali disagiate. Non solo: la cancellazione dell’intera imposta indipendentemente dal valore dell’immobile (tranne i poveri castellani che, si sa, penano a giungere alla terza settimana), significa la scomparsa di quella salutare dose di progressività che, a ben vedere, l’ICI portava con sé. L’utilità marginale del provvedimento, infatti, è massima per i possessori di un’unità classata A2 (abitazioni civili), mentre è quasi irrilevante per quelli di categoria A5 (case ultrapopolari). Non metterei di mezzo l’art. 53 della Costituzione, proponendo un’eccezione di illegittimità per violazione del principio di capacità contributiva. Tuttavia, credo si debba riflettere sulla qualità di un dispositivo che redistribuisce il costo dei servizi comunali più costosi a carico di chi dovrebbe pagarli di meno.
b) Il caveat più pericoloso, tuttavia, sta nel progressivo ridursi del gettito complessivo dei comuni. Quello dell’ICI, infatti, tende a crescere, a parità di aliquota, per effetto dello sviluppo di nuovi insediamenti produttivi e abitativi. D’altro canto, la certificazione presentata per dichiarare il minor gettito non pare destinata a ripetersi annualmente, benché la norma faccia riferimento al rimborso a decorrere dal 2008, stanziato le somme necessarie a integrazione dell’apposito capitolo del bilancio dello Stato. Il che non esclude la possibilità di nuove e più aggiornate certificazioni, ma contemporaneamente non le garantisce, potendosi limitare a fissare l’importo complessivo dello stanziamento, magari ridotto per esigenze di bilancio statale. Se l’impianto normativo ora illustrato dovesse essere confermato, la restituzione agli enti sarà in eterno fondata su un patrimonio immobiliare fermo all’estate del 2008.
Resta, infine, il problema dei tempi della restituzione del minor gettito. La possibilità che della rata in acconto non si veda un euro per la fine del prossimo giugno è, ahimè, altamente probabile. Il decreto fissa, infatti, un termine massimo di (addirittura) sessanta giorni dalla sua entrata in vigore per determinare (con apposito provvedimento del Viminale) le modalità e i tempi del ristoro. Francamente troppo per qualsiasi ente. Se tale termine ha un senso per gli anni 2009, 2010, ecc. ancora a distanza di sicurezza, ciò è manifestamente insufficiente per il 2008. La fretta di consegnare alla folla il cadavere dell’imposta ha prodotto un testo che, in breve, toglie con certezza ma restituisce con dubbi. L’ennesima edizione del nuovo corso dei rapporti tra enti locali ed erario. E le voci di rinvio del termine per il pagamento della prima rata possono rassicurare i contribuenti, poco o nulla gli uffici tributi.