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martedì 31 luglio 2007

Reazione a catena

L'indagine promossa dall'Università di Napoli Parthenope sull'attività dei nuclei di valutazione in 58 enti capoluoghi di provincia ripropone il tema assai spinoso del giudizio sull'attività dei dirigenti negli enti locali. Parlo di 'dirigenti' nel senso più ampio possibile, indipendentemente dall'effettivo inquadramento contrattuale. Perché quello che è vero in comuni dalla struttura a volte ipertrofica può essere replicato negli enti minori. Con importanti distinzioni. La ricerca del dipartimento di Studi aziendali campano giunge a una conclusione inequivocabile: il livello qualitativo delle prestazioni del 75% dei dirigenti (di fatto e di contratto) in servizio è eccellente, inoltre, per un altro 13% del totale, quel livello è ottimo. Il risultato è frutto dell'esame del lavoro realizzato minuziosamente dai nuclei di valutazione, organismi di controllo esterno (dunque teoricamente più che imparziali) che però giungono ad una straordinaria unanimità di giudizio dal brumoso Piemonte alla barocca Sicilia. Il finto stupore che circonda questo esito (che definirei invece piuttosto scontato) serve più che altro a ricordare che la valutazione dei risultati nella pubblica amministrazione dovrebbe essere una cosa seria ma, al contrario, non ci sono nuclei di valutazione che tengano: abbiamo una dirigenza perennemente al di sopra della media perché non vogliamo giudicarla. Per sapere come stiano esattamente le cose dovremmo in realtà trascorrere mesi a diretto contatto con la struttura burocratica. Scopriremmo, allora, che i nuclei, a causa di una cronica assenza di metodologie valutative, evitano di scontrarsi con i giudicati e assegnano l'indennità di risultato come il 18 politico qualche decennio fa. A parte le scontate filippiche sulla cronica resistenza della P.A. a mettersi in gioco seriamente, varrebbe la pena fare i bagagli e andare, ad esempio, al di là della Manica. L'esperienza ricordata qualche settimana fa casca davvero a fagiolo, in questo frangente. La conclusione è che buone leggi non bastano se chi le deve applicare partecipa della stessa indolenza. Ciò che vale per le città, vale anche per i centri minori? Cosa accade dunque negli enti dove a dirigere vi sono funzionari di categoria massima D3? Non guasterebbe un'analisi 'ad hoc', ma in mancanza, azzardiamo qualche scenario, che ha il triste sapore del vissuto. Ente di 4.000 abitanti, 3 posizioni organizzative (Ragioneria, UTC, Polizia locale), un D3 giuridico, due D1 giuridici. Da cinque anni, la scelta del nucleo è invariata: a tutti e tre l'8% dell'indennità di posizione. Senza specifiche motivazioni, né per spiegare perché allora non il 10%, né per chiarire sulla base di quali elementi le tre prestazioni non meritano alcun distinguo. Nessuno dei tre funzionari si lamenta, tra l'altro, dunque implicitamente avalla e il loop si ripete ad ogni esercizio. Fuori dai denti, qualcuno (si legga il segretario) sostiene che una differenziazione troppo spinta fra le tre indennità non sarebbe positiva per l'armonia di un ente con soli 18 dipendenti. Può darsi che uno (o due o tutti e tre) dei funzionari non gradisca il giudizio (appellabile con juicio) del nucleo. Ma che trasformi l'eventuale malumore per lo scarso esito della valutazione in arma di ricatto per costringere il nucleo a tornare sui suoi passi sembra davvero esagerato. Mi chiedo piuttosto che senso ha far giudicare le prestazioni dei funzionari da soggetti estranei all'amministrazione. In tutti i comuni in cui il segretario è direttore generale dovrebbe essere affidato a lui il compito di assegnare i voti con equanimità. Cosa volete che importi al nucleo di penalizzare uno a scapito di un altro, in mancanza di strumenti oggettivi di giudizio? La complicazione delle procedure è, anche in questo caso, la migliore nemica dell'efficienza.

lunedì 30 luglio 2007

Scende la pioggia

'City manager' è un'espressione parecchio chic, ma come sempre assolutamente ridondante per la lingua italiana, che preferirebbe fosse usato il più corretto 'Direttore generale'. A dirla tutta, però, sono dell'idea che anche la funzione (in qualsiasi lingua) di questa figura un po' misteriosa sia in qualche modo superflua. Certamente non lo è per chi è riuscito a ottenere un lucroso contratto dall'amministrazione meglio offerente. E non sto qui a discutere sui metodi scelti per l'assunzione del candidato più idoneo (perché non è un dipendente e perché, in ogni caso, la legge non prevede una modalità di selezione specifica). La superfluità di cui dicevo prima sta tutta nella consapevolezza del legislatore: 1) che ai Comuni, specie quelli di ragguardevoli dimensioni, serve una guida gestionale di impronta privatistica; 2) che in nessun Comune questo ruolo può essere svolto automaticamente dal dipendente gerarchicamente più elevato, il segretario. Quest'ultima ipotesi diventa certezza nel momento in cui, al cambio di amministrazione, si nota un movimento tellurico altrimenti assente: la versione italiana dello spoil system, molto casereccia e poco seria. Mi sembra emerga qui una patente contraddizione che a nessuno per ora interessa rimuovere. Da un lato, la nuda figura del Segretario, così come è concepita dalla vigente normativa, possiede un'esclusiva valenza di consulenza legale: pagata a tariffe fuori media e senza alcuna assunzione di responsabilità diretta, una volta eliminato il parere di legittimità sugli atti deliberativi. Dall'altro, il Direttore generale svolge compiti di coordinamento e di, appunto, direzione che una volta erano appannaggio proprio dei segretari, con la differenza che questi ultimi non potevano strappare contratti principeschi come alcuni noti D.G. (per un elenco non esaustivo si veda il Lenzuolo rosa di oggi). Se poi aggiungiamo al quadro la figura camaleontica del Segretario-Direttore generale (nei Comuni più vulnerabili), si comprende come l'attuale schizofrenia degli incarichi impedisca di vedere chiaro negli organigrammi comunali. Il 'chi fa cosa', infatti, non discende automaticamente dal ruolo ricoperto. Nei comuni piccoli la legittimità della gestione è garantita dai responsabili di servizio, gli unici che offrono un parere tecnico obbligatorio e vincolante verso l'esterno (comprendendo anche l'attestazione di copertura finanziaria): che senso ha allora affidare la direzione generale al Segretario? Nei comuni sopra i 15.000 abitanti il Direttore generale viene incaricato dal Sindaco e resta in carica al massimo fino alla conclusione del mandato amministrativo, con l'incarico di portare a termine il programma della maggioranza, ma non sottoscrive alcun parere vincolante e risponde (a parte l'eventuale piano penale) solo in via gestionale: se non fa quello che è stato pagato per fare (che non vuol dire necessariamente amministrare bene) va a casa, ma, in punto di legittimità, ha le mani sostanzialmente libere. Per riportare a un grado minimo di comprensibilità l'intera situazione, servirebbe: un ricambio più rapido dei segretari comunali, favorendo l'ingresso di menti fresche e poco burocratizzate (ma molto preparate), coprendo le troppe sedi vacanti e incentivando ulteriormente le convenzioni tra enti molto piccoli; limitare la facoltà di assumere un direttore generale ai comuni al di sopra dei 50.000 abitanti, soglia oltre la quale i dirigenti di settore possono utilmente essere coordinati da un manager probabilmente più esperto, ma assegnandogli corrispondenti responsabilità amministrative; eliminare in questi enti la figura del segretario, in quei casi realmente anacronistica.

venerdì 27 luglio 2007

Limite verticale

Un caso concreto, una risposta autorevole, un dubbio amletico. Il caso concreto. Un comune intende bandire un concorso interamente riservato al personale interno per coprire un posto di Agente di polizia locale. Vorrebbe che a partecipare fossero legittimamente ammessi i dipendenti appartenenti alla categoria immediatamente inferiore (B3) a quella messa a concorso, non in possesso di titolo di studio idoneo e che finora hanno svolto esclusivamente mansioni di messo comunale e accertatore anagrafico. La risposta autorevole. Il quesito è stato sottoposto al Ministero dell'interno, Dipartimento per gli affari territoriali. Il Ministero premette che, dopo l'entrata in vigore del nuovo ordinamento professionale, i c.d. concorsi interni non sono più ammessi. Ora, evidentemente, si può intraprendere la strada della selezione per la progressione verticale del personale interno alla categoria superiore. E' necessario, peraltro, che l'ente si doti di un regolamento che disciplini nel modo più dettagliato possibile le procedure per espletare le selezioni da una categoria all'altra. In ogni caso, precisa il Viminale, poiché la copertura di posti vacanti in dotazione organica deve essere programmata con specifico atto dell'organo esecutivo, in quella deliberazione, a cadenza annuale, dovrà essere indicata la percentuale di copertura con progressioni verticali insieme a quella con concorsi pubblici. La Corte costituzionale ha stabilito già nel 2002 che quest'ultima percentuale non può essere inferiore al 50% dei posti previsti in ciascuna categoria, limitando così in modo chiaro il ricorso alle progressioni, ricordando nel contempo che l'accesso all'impiego nelle amministrazioni pubbliche avviene tipicamente con concorso pubblico. Inoltre, è possibile consentire al personale interno di partecipare a selezioni di questa natura anche quando non è in possesso del titolo di studio previsto per l'accesso dall'esterno, purché abbia maturato nella categoria immediatamente inferiore un certo numero di anni di servizio (stabilito dal regolamento). Fatta questa premessa il Ministero precisa che l'art. 4, c. 2, del CCNL 31 marzo 1999 stabilisce: "2. Gli enti che non versino nelle condizioni strutturalmente deficitarie ai sensi delle vigenti disposizioni procedono alla copertura dei posti vacanti dei profili caratterizzati da una professionalità acquisibile esclusivamente dall’interno degli stessi enti con le medesime procedure previste dal presente articolo." A partire da questa considerazione, la risposta alla richiesta del Comune è negativa perché, si sostiene, "il profilo del vigile urbano si caratterizza per particolari e specifiche funzioni, che richiedono approfondite conoscenza monospecialistiche, la cui base teorica di conoscenza è acquisibile con la scuola superiore e con un grado di esperienza pluriennale in continuo aggiornamento." Quindi, un dipendente che non ha il diploma di scuola media superiore e ha svolto solo funzioni di messo non ha diritto a partecipare a una selezione interna per diventare agente di polizia municipale. Il dubbio amletico. L'argomentazione del Ministero sembra inattaccabile. E però non convince completamente. Sebbene per partecipare a un concorso pubblico per Agente di Polizia locale sia necessario il diploma di maturità, è altrettanto vero che, a differenza, ad esempio, del posto di Geometra oppure di Ragioniere, non è richiesto uno specifico titolo di studio. In linea di principio, non vi sono limitazioni (di legge o contrattuali) che impediscano a chi possiede il diploma di scuola media inferiore e un'anzianità di servizio congrua di partecipare alla selezione interna. Inoltre, se il regolamento è dettagliato (perché non dovrebbe?) e le prove effettuate in modo serio (perché non dovrebbero?), accertare le competenze del personale interno a coprire quel posto è sicuramente possibile. In tutti i regolamenti che mi è capitato di leggere (di piccoli come di grandi enti) non ho mai incontrato una norma che facesse eccezione alla regola generale per la Polizia locale: o il diploma specifico è previsto per legge (e allora non si può partecipare) oppure non lo è (e dunque si può partecipare se c'è l'anzianità di servizio sufficiente). D'altra parte, contrattualmente, nessun Agente oggi è inquadrato in una categoria inferiore alla C. Ciò fa ritenere che, se il Ministero ha ragione, nessun dipendente in categoria B3 potrà mai accedere dall'interno a un posto di Agente di P.L., essendo impossibile acquisire internamente le specifiche competenze. Il drastico 'no' del Viminale mantiene tutta la sua ambiguità e, per me, il dubbio resta.

giovedì 26 luglio 2007

La botte piena

Un recente parere della sezione ligure della Corte dei conti funge da spunto per mettere in evidenza un atteggiamento abbastanza frequente tra gli Amministratori degli enti locali: potremmo definirlo 'sindrome della botte piena'. Il caso trattato è quello di un Comune che, avendo trasferito all'Ambito Territoriale Omogeneo competente la gestione del servizio idrico integrato, con mantenimento della proprietà degli impianti, si chiede come mai le quote interessi e capitale dei mutui contratti con la Cassa DD.PP. per la manutenzione straordinaria della rete, rimborsate secondo la convenzione dalla società che gestisce ora il servizio, debbano essere considerate debito per il Comune, andando così ad incidere sulla percentuale teorica di indebitamento. A parte il fatto che queste richieste di parere devono sempre pervenire dal capo dell'amministrazione per poter essere considerate ammissibili, e che dunque non sappiamo se il dubbio è davvero sorto in capo al Sindaco oppure è lo stesso ufficio finanziario ad averlo manifestato per via indiretta, fatico a credere che proprio la struttura tecnica possa aver proposto un quesito di questa natura, articolato in questo modo, senza intuire che la risposta della Corte non poteva che essere negativa. Dalla sezione regionale, infatti, arriva un chiaro rifiuto dell'ipotesi che il mutuo contratto dall'ente possa essere escluso dalla massa dei debiti a lungo termine per il solo fatto che, a sollievo totale dell'onere di ammortamento, un terzo soggetto gli versi le somme a titolo di contributo. Sul punto, in sintesi, la Corte argomenta sulla base di principi acclarati: i mutui contratti da un ente locale rappresentano comunque nuovo indebitamento; l'ente che si accolla l'onere di coprire le rate di ammortamento, infatti, non ha partecipato al negozio giuridico originario con l'ente mutuante, perciò non è in alcun modo debitore verso quest'ultimo: "Dal punto di vista giuridico, infatti, tale accordo configura un accollo interno, in base al quale il debitore originario conviene con il terzo di assumere, in senso puramente economico, il peso del debito, senza tuttavia attribuire alcun diritto al creditore e senza modificare l’originaria obbligazione, sicché il terzo assolve il proprio obbligo di tenere indenne il debitore o adempiendo direttamente in veste di terzo, o apprestando in anticipo al debitore i mezzi occorrenti, ovvero rimborsando le somme pagate al debitore che ha adempiuto". La Corte però fa anche rilevare che questa considerazione si poteva tranquillamente ricavare dagli atti già in possesso dell'ente, come la convenzione tra Comune e A.T.O. che infatti dispone che "il gestore assume a proprio carico il rimborso delle annualità dei mutui contratti dagli Enti locali per finanziare gli investimenti dei beni strumentali al servizio, fino ad integrale estinzione degli stessi". Insomma, afferma indirettamente la Corte, la richiesta è del tutto ridondante anche perché "i concessionari non effettuano i pagamenti nei confronti della Cassa DD.PP., bensì in favore dell’Ente locale." Vien da pensare allora che chiedere alla Corte di avallare posizioni così traballanti rientra nell'atavica diffidenza dell'amministratore locale medio verso quelle regole che, poiché sono chiare e non interpretabili, assumono la veste di impacci alle decisioni più strambe. Diffidenza che si esprime dapprima con un rifiuto dell'evidenza ("Impossibile!"), al quale segue di solito l'intimazione al funzionario di porre immediatamente la questione alle autorità competenti, che senz'altro smentiranno i tecnici del Comune. E invece....

mercoledì 25 luglio 2007

Sotto il vulcano

C'è sempre da imparare. Al collegio dei revisori del Comune di Napoli servono ben 157 pagine per completare la relazione sul rendiconto 2006. Si tratta di un vero e proprio tomo che immagino in pochissimi abbiano letto da cima a fondo. In verità, sembra che a leggerlo a tratti sia stato anche l'assessore al bilancio. Dalla lunga dissertazione emergerebbe, tra l'altro, che non è stato attivato un efficace controllo di gestione, che le spese per il personale siano in poco tempo esplose, mettendo a rischio gli equilibri di bilancio, che l'indebitamento pro-capite del Comune sia raddoppiato nel giro di appena tre anni. Queste osservazioni, in sé, potrebbero non bastare a dare parere negativo sulla proposta di rendiconto: perché il controllo di gestione non è obbligatorio neppure negli enti di maggiori dimensioni, perché la spesa sostenuta in più per il personale può, eventualmente, far scattare sanzioni per il mancato rispetto del Patto di stabilità, perché, infine, se l'indice di indebitamento teorico, pur raddoppiando, è rimasto nel limite percentuale stabilito dalla legge, anche i parametri di deficitarietà restano intatti. Restano, però, osservazioni pesanti, che dovrebbero quantomeno preoccupare gli amministratori interessati. Al contrario, risulta all'assessore che la relazione sia assolutamente positiva. E a corollario di questa tesi porta a sostegno le considerazioni sulla riduzione della spesa corrente, sul riordino delle società partecipate, sull'aumento delle entrate proprie. Sembra di assistere a quei dopo-elezioni nei quali nessun partito a perso, anzi, hanno vinto tutti. E' pur vero che in tante pagine ognuno può trovare argomenti per non sentirsi messo in discussione: basta, in effetti, uno slancio di buona volontà e, a meno che la relazione non si concluda con un esplicito rifiuto di certificare i conti, tutto si tiene. Trattandosi di finanza pubblica, però, sarebbe più coerente lasciare queste discussioni alle sedute consiliari, dove notoriamente maggioranza e minoranza non sono d'accordo neppure sul colore del cielo. E infatti, il balletto delle accuse e delle repliche continua da giorni. Non ricordo che i verbali dei collegi sindacali nel settore privato siano oggetto di tali contraddittorie osservazioni. Lì non sembrano esserci zone grige: la relazione esprime un parere conclusivo che può essere solo positivo o negativo. E in un caso e nell'altro non ci si avventura in terreni paludosi per cercare di dimostrare il contrario a tutti i costi. Se uno dei più frequenti effetti della politica è quello di snaturare gli eventi per piegarli alle proprie esigenze di propaganda, non significa che i revisori debbano soggiacere a questo gioco non proprio trasparente. Perché non usano gli stessi mezzi di comunicazione per ribadire la propria posizione?

martedì 24 luglio 2007

Gertrude Stein

Dopo che il Ministero per gli Affari regionali ha preso di petto la questione della rinnovata disciplina degli amministratori di società partecipate degli enti locali (post Finanziaria 2007), siamo qui ad arrovellarci sulla utilità o meno della sua circolare esplicativa, resa nota nei giorni scorsi. I commi della L. 296/2006 lasciano, infatti, aperte alcune questioni interpretative importanti. Ad esempio, il comma 734 della norma prevede che: "Non può essere nominato amministratore di ente, istituzione, azienda pubblica, società a totale o parziale capitale pubblico chi, avendo ricoperto nei cinque anni precedenti incarichi analoghi, abbia chiuso in perdita tre esercizi consecutivi." Il concetto di perdita doveva essere chiarito, poiché si ha a che fare con enti a contabilità finanziaria ma anche con enti a contabilità economica. Sembrerebbe, allora, pacifico che, nel primo caso, "perdita" equivalga a "disavanzo di amministrazione" mentre nel secondo il termine non possa che essere riferito alla "perdita d'esercizio". Eppure, per il Ministero, questa via sarebbe troppo semplice. Così, innanzitutto, il dicastero mette addirittura in dubbio la propria capacità interpretativa, poiché introduce l'argomento affermando che: "Con riferimento alla disposizione inserita nel comma 734, va segnalato che l’ambito di applicazione della stessa appare doversi estendere - a differenza di quello del comma 729 - a qualsiasi soggetto pubblico, con esclusione unicamente degli enti territoriali, in ragione della funzione politica degli stessi, attesa l’ampia formulazione della norma." Se persino agli Affari regionali non hanno ancora chiarito la portata della disposizione normativa, quale valore possiamo attribuire alle successive "spiegazioni"? Che, a dirla fuor di metafora, sono talmente contorte che è probabilmente indispensabile un'ulteriore circolare (a patto che la scriva qualcun altro). Infatti, i due concetti di perdita citati non sono sufficienti. E' necessario, per il Ministero, proporre "un’interpretazione del concetto di perdita compatibile con il principio dell’affidamento, a tutela delle legittime aspettative di quegli amministratori che hanno assunto l’incarico quando il quadro giuridico di riferimento non prevedeva per la rinnovazione del mandato il requisito di professionalità ora in questione". In sostanza, se perdita vi è stata, questa deve essere valutata non in quanto perdita, ma in quanto esprima "un risultato di gestione negativo rispetto al concreto e specifico contesto economico-finanziario nel quale si è manifestata." Se ora la questione vi sembra più oscura di prima, non prendetevela con me. Anche perché il Ministero si va a incagliare poco dopo in un ulteriore ragionamento criptico per arrivare a dire che "coerentemente con la ratio della norma (sulla quale qualche riga sopra aveva dichiarato di non saperne valutare la portata) nelle ipotesi in cui la perdita risulti conforme alla programmazione gestoria, deve escludersi la ricorrenza dei presupposti del divieto sancito dalla disposizione in questione." Dunque, se la società è in perdita, ma ciò è dovuto, per esempio, a una fase di avviamento "capital intensive", il divieto di nomina non sussisterebbe. Ma chi dovrebbe giudicare nello specifico queste situazioni? Non viene detto, quindi il punto resta irrisolto. Il capolavoro arriva alla fine, però. Il Ministero ha proposto la circolare, mettendo più dubbi di quanti ne abbia tolti. Niente paura, ragazzi. Il legislatore potrebbe (e visti gli esiti, forse dovrebbe) approvare una norma di interpretazione autentica, tagliando la testa al toro e dicendo forte e chiaro che una perdita è una perdita è una perdita e trasformare in carta straccia la circolare oggi fresca di stampa: "Ovviamente, siffatta definizione è destinata a perdere di valore nel momento in cui una legge successiva dovesse interpretare diversamente il concetto di perdita di cui al comma 734, nel senso di attribuire rilevanza solo a quei risultati economico-finanziari che evidenzino un saldo negativo rispetto alle previsioni indicate nei documenti di pianificazione delle attività gestionali." E' forse per questo complesso di colpa mal gestito che sul sito dello stesso Ministero il comunicato stampa che annuncia la circolare dice una cosa ancora diversa? Si afferma infatti che: "Per la perdita, inoltre, deve intendersi per gli enti di diritto privato, il risultato negativo del conto economico derivante dalla prevalenza dei costi sui ricavi, e, per i soggetti pubblici, il disavanzo di competenza non coperto da un sufficiente avanzo di amministrazione." Questo sì è parlar chiaro. Poi dall'html si passa all'analogica carta e la musica cambia. Come dire, abbiamo scherzato, questa non è proprio una circolare. Oggi in Puglia il caldo ha segnato il suo record stagionale...

lunedì 23 luglio 2007

Casta diva

Da quando "La casta" è diventato il manuale del perfetto demagogo, i costi della politica occupano un numero di colonne di giornale crescente in modo quasi esponenziale. Non che non se ne sentisse il bisogno: quando si legge che il Parlamento italiano costa dieci volte quello spagnolo, quando ci informano che un pasto al ristorante della Camera costa al deputato 9 miseri euro (e si tratta ovviamente di un pranzo a quattro stelle) mentre ai comuni mortali, per lo stesso menù, uno chef di buon livello ne farebbe sborsare non meno di novanta, si ha l'immediata sensazione che il tesoretto vero stia da qualche altra parte, e lo stiano già spendendo senza renderne conto a nessuno. Resta però il vago sospetto che il fragore con cui nella credenza dei politici nostrani cascano da qualche mese i piatti più pregiati sia direttamente proporzionale al polverone che contemporaneamente copre le esigenze di modernità più vere e determinanti per competere con il resto d'Europa. E a questo nasconderello giocano tutte le parti in causa: quelle che di politica vivono come quelle che (forse anche un po' preda d'invidia) deprecano lo scialacquare di pubblici denari. Un esempio di questo dualismo si trova nella recente polemica sulla riduzione del numero delle sedi periferiche della Agenzia autonoma per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali. Nel disegno di legge che contempla il risparmio come virtù istituzionale, infatti, è stata inserita una norma che prevede il taglio di tutte le sedi regionali dell'Agenzia sostituendole con tre macro-sedi (Nord, Centro e Sud): una mannaia che immediatamente ha suscitato reazioni scomposte. Da un lato, chi non comprende questa mossa draconiana sostiene che la funzione principale delle sedi regionali è quella di garantire che la procedura per la copertura delle sedi di segreteria vacanti sia espletata in modo corretto. Eliminare improvvisamente questi baluardi di legittimità significherebbe avallare una sorta di far-west delle nomine, perché non ci sarebbe personale a sufficienza per seguirne l'iter dappertutto. Al contrario di chi, invece, ritiene assolutamente superfluo mantenere in vita tutte le strutture esistenti, bastandone tre per garantire il servizio a cui è tenuta l'Agenzia. Che la tesi catastrofista dei primi sia appena pelosa lo dimostrano alcune dichiarazioni neanche troppo velate di alcuni esponenti di categoria. Ad esempio, l'appena nominato vice-direttore dell'Agenzia si lamenta del fatto che questi tagli potrebbero vanificare l'esito delle elezioni appena tenute per il rinnovo dei consigli di amministrazione delle sedi regionali. Ben distante dunque da qualsiasi preoccupazione istituzionale. Quanto poi al merito delle critiche, l'impressione è che la lobby che finora ha spalleggiato in Parlamento i segretari senta il fiato sul collo. E tra mancati rinnovi contrattuali e incertezza sul complessivo futuro della categoria (su cui pesa la testardaggine a voler considerare questa figura come essenziale impedendone però un vero ricambio generazionale e di cultura), il rimaneggiamento dei consigli d'amministrazione sembra proprio questione di lana caprina.

venerdì 20 luglio 2007

La predica ai convertiti

Questo è il testo probabilmente definitivo degli articoli che ci interessano del D.L. n. 81/1007 sulla destinazione del 'tesoretto' (in rosso le modifiche rispetto al testo attualmente in vigore): ""Art. 2 (Utilizzo quota avanzo di amministrazione) 1. Non sono computate tra le spese rilevanti ai fini del patto di stabilità interno relativo alle province e ai comuni che negli ultimi 3 anni hanno rispettato il patto di stabilità interno le spese di investimento finanziate nell’anno 2007 mediante l’utilizzo di una quota dell’avanzo di amministrazione. 2. Per i singoli enti locali l’esclusione delle spese di investimento è commisurata all’avanzo di amministrazione accertato al 31 dicembre 2005 e determinata: a) nella misura del 17% (era del 7,6% , NdR) per le province la cui media triennale del periodo 2003-2005 dei saldi di cassa, come definita dall’articolo 1, comma 680, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, risulta positiva. Per le restanti province la misura è del 2,6% (era dell’1,4%, NdR); b) nella misura del 18,9% (era del 7,0% , NdR) per i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti la cui media triennale del periodo 2003-2005 dei saldi di cassa, come definita dall’articolo 1, comma 680, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, risulta positiva. Per i restanti comuni e fino a 100.000 abitanti della stessa fascia demografica la misura è del 2,9% (era dell’1,3%, NdR). c) nella misura del 7,0% per i comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti la cui media triennale del periodo 2003-2005 dei saldi di cassa, come definiti dall'articolo 1, comma 680, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, risulta positiva. Per i restanti comuni della stessa fascia demografica la misura è dell'1,3%.
Rispetto alle richieste avanzate dall'ANCI, peraltro, siamo ancora molto lontani. Decorazioni alle finestre.
Art. 3. Recupero maggiore gettito ICI - 1. All'articolo 2 del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, sono apportate le seguenti modificazioni: a) il comma 39 è sostituito dal seguente: "39. I trasferimenti erariali in favore dei singoli comuni sono ridotti in misura pari al maggior gettito derivante dalle disposizioni dei commi da 33 a 38, sulla base di una certificazione da parte del comune interessato, le cui modalità sono definite con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'interno. Con il predetto decreto, in particolare, si prevede che non siano ridotti i trasferimenti erariali in relazione all'eventuale quota di maggiore gettito aggiuntivo rispetto a quello previsto"; b) il comma 46 è sostituito dal seguente: "46. I trasferimenti erariali in favore dei singoli comuni sono ridotti in misura pari al maggior gettito derivante dalle disposizioni dei commi da 40 a 45, sulla base di una certificazione da parte del comune interessato, le cui modalità sono definite con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'interno. Con il predetto decreto, in particolare, si prevede che non siano ridotti i trasferimenti erariali in relazione all'eventuale quota di maggiore gettito aggiuntivo rispetto a quello previsto". 2. Per l'anno 2007, fino alla determinazione definitiva dei maggiori gettiti dell'imposta comunale sugli immobili in base alle certificazioni di cui ai commi 39 e 46 dell'articolo 2 del citato decreto-legge n. 262 del 2006, come sostituiti dal comma 1 del presente articolo, i contributi a valere sul fondo ordinario spettanti ai comuni sono ridotti in misura proporzionale alla maggiore base imponibile per singolo ente comunicata al Ministero dell'interno dall'Agenzia del territorio entro il 30 settembre 2007 e per un importo complessivo di euro 609.400.000. Per il medesimo periodo, in deroga all'articolo 179 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, i comuni sono autorizzati a prevedere ed accertare convenzionalmente quale maggiore introito dell'imposta comunale sugli immobili un importo pari alla detrazione effettuata per ciascun ente. Gli accertamenti relativi al maggior gettito reale effettuati dal 2007 sono computati a compensazione progressiva degli importi accertati convenzionalmente nel medesimo esercizio. 3. Gli importi residui convenzionalmente accertati rilevano ai fini della determinazione del risultato contabile di amministrazione di cui all'articolo 186 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al citato decreto legislativo n. 267 del 2000, affluendo tra i fondi vincolati e, ove l'avanzo non sia sufficiente, l'ente è tenuto ad applicare nella parte passiva del bilancio un importo pari alla differenza. 4. Ai soli fini del patto di stabilità interno per i comuni tenuti al rispetto delle disposizioni in materia gli importi comunicati di cui al comma 2 sono considerati convenzionalmente accertati e riscossi nell'esercizio di competenza e conseguentemente i trasferimenti statali sono considerati al netto della riduzione di cui allo stesso comma 2. 5. Con la medesima certificazione di cui ai commi 39 e 46 dell'articolo 2 del citato decreto-legge n. 262 del 2006, come sostituiti dal comma 1 del presente articolo, i comuni indicano il maggiore onere in termini di interessi passivi per anticipazioni di cassa eventualmente attivate per un massimo di quattro mesi a decorrere dal mese di novembre 2007 in diretta conseguenza delle minori disponibilità derivanti dalla riduzione di cui al comma 2. L'onere è posto a carico dello Stato e rimborsato ai comuni nel limite complessivo di 6 milioni di euro, eventualmente ripartiti in misura proporzionale ai maggiori oneri certificati."
Un'ancora di salvataggio per gli enti che ritenevano (in assenza di adeguate garanzie scritte) di rischiare una quota di trasferimenti se il gettito effettivo fosse stato superiore a quello da essi stessi certificato: una sorta di studi di settore alla rovescia. Mostrare denaro, vedere cammello.

giovedì 19 luglio 2007

In mare aperto

Tutti soddisfatti, dunque. Il Ministero dell'Economia e delle Finanze, in primis, che ha chiesto e ottenuto dopo l'ultima Finanziaria una sorveglianza più accurata sulle operazioni di finanza derivata effettuate dagli enti locali. Ricordate la circolare dello scorso 31 gennaio che, con la scusa di spiegare le nuove opportunità offerte in materia dalla legge, istruiva doviziosamente gli enti a comunicare in anticipo la volontà di concludere contratti di swap, pena la loro inefficacia erga omnes. Non solo, si paventava la chiamata in causa della magistratura contabile per gli enti inadempienti e si sottoponeva la bontà dei contratti in conclusione all'avallo di autorevoli società di rating. Un sistema, certo, garantista all'ennesima potenza che, stando ai dati ufficiali ora resi pubblici avrebbe migliorato, e di parecchio, il grado di serietà dei contratti di finanza derivata stipulati da Comuni, Province e Regioni. In generale, infatti, sono pochissime le posizioni dubbie segnalate alla Corte dei conti e alla Ragioneria generale dello Stato (si parla di dieci), a fronte di una vera e propria pioggia di comunicazioni, nate appunto dall'obbligo vincolante sopra ricordato. Così, la soddisfazione si estende agli istituti di credito che possono continuare a proporsi come interlocutori privilegiati per gli enti interessati a questo tipo di operazioni. La questione infatti è, almeno sotto lo stretto profilo della logica, perlomeno traballante. Si sostiene con tenacia da più parti la necessità di fissare una volta per tutte criteri di trasparenza nella gestione contabile degli enti locali, richiamandosi soprattutto alla linearità della contabilità economica come definitivo sistema da adottare in luogo dell'ormai obsoleta (e pericolosa) contabilità finanziaria basata sul bilancio autorizzatorio. E' una battaglia da combattere senz'altro, benché sia facile pronosticare una lunga stagione in trincea, conoscendo la ritrosia della burocrazia in generale ad autoriformarsi. Ma che, infine, la si vinca o no, è questa comunque la tenzone da appoggiare. Per contro, le stesse norme che già ora mettono paletti di consistenza variabile alla capacità di indebitamento degli enti (passata rapidamente dal 25% al 12% e poi ancora al 15% nel giro di un paio d'anni), prima autorizzano i derivati e poi, accorgendosi che probabilmente la situazione può sfuggire di mano (Taranto come caso di scuola, ma non come mosca bianca), li costringono in precisi ambiti per limitare i potenziali danni alla finanza pubblica. Lo scopo è commendevole, certo. Ma, in primo luogo, cosa sono i derivati se non prodotti finanziari comunque dal profilo rischioso? I vincoli prudenziali del Ministero sono benvenuti per impedire il formarsi di posizioni al limite del crac. E' però quasi comico prendersela con gli enti locali, quasi che la finanza derivata se la siano inventata loro. Anzi, è proprio la verifica sul campo che i contratti stipulati sono in regola a garantire maggiormente l'intero sistema contro l'eventualità di un default del debito. Quando il Commissario liquidatore di Taranto precisa che gli istituti di credito con i quali il Comune ha stipulato contratti derivati non sono creditori privilegiati perché i derivati non sono debito (e quindi non sono coperti dalle delegazioni di pagamento ordinariamente richieste nel caso di prestiti pluriennali) addossa agli stessi istituti la responsabilità di verificare a priori che gli enti con i quali trattano non siano a rischio, ma allo stesso tempo li diffida dall'accettare, come accaduto, delegazioni di pagamento che non valgono nulla, esponendoli ad un possibile buco. La tendenza a utilizzare strumenti così sofisticati ha un'unica, evidente, ragione per gli enti: fare cassa rapidamente con le somme versate up-front, cercando di approfittare di periodi di tassi d'interesse moderati, per lucrare sulle differenze con i tassi fissi dei mutui in ammortamento. Siccome questi spread sono sempre meno evidenti, vista anche la posizione strenuamente restrittiva della BCE, la convenienza è ridotta al lumicino e, in futuro, la quantità di contratti conclusi prevedibilmente si ridurrà. Oggi ci chiediamo se, invece, non sia il caso di interrompere il corto circuito un po' perverso che contempla allo stesso tempo: facoltà teorica di indebitarsi a causa di una percentuale limite molto alta (15%), impossibilità pratica a indebitarsi a causa del Patto di stabilità, facoltà di rinegoziare il proprio debito con la Cassa DD.PP. sborsando penali esosissime, ricorso alla finanza derivata per recuperare almeno in parte la liquidità così evaporata.

mercoledì 18 luglio 2007

A statuto speciale

Colgo al volo l'assist del consigliere delegato alla fiscalità del Consiglio nazionale dei ragionieri commercialisti, il quale, in un'audizione alla Commissione finanze del Senato, ha voluto affondare i colpi di sciabola nella carne di alcune questioni irrisolte del panorama tributario nazionale. Pur non riferendosi in modo specifico alla disciplina fiscale degli enti locali, l'intervento del consigliere è senz'altro leggibile anche alla luce degli argomenti che qui interessano. Infatti, punto primo, si lamenta l'assenza di un codice unificato delle leggi tributarie. Se questa è un'esigenza dell'operatore a riguardo della fiscalità erariale, figuriamoci in relazione alla messe di disposizioni di cui è composto il frammentario mosaico dei tributi locali. La prossima approvazione parallela del Codice delle autonomie e del provvedimento sul federalismo fiscale non va esplicitamente in questa direzione, purtroppo. Così, la buona volontà di sistematizzare un ambito così articolato è vanificata, nel primo caso, da un'assenza di analisi del problema, nel secondo, dallo sbilanciamento deciso a favore delle Regioni (che, a loro volta, delegherebbero ai Comuni alcune competenze in materia, in un gioco che assomiglia molto al rubamazzetto). Servirebbe, invece e al contrario, la decisa intenzione di decentrare consapevolmente ai Comuni i tributi che possono gestire perché ne possono controllare gettito e base imponibile, lasciando alle Regioni il piacere di ricevere dall'erario la fetta spettante della torta dei contributi dell'erario. Punto secondo: la splendida invenzione dello Statuto del contribuente ha ormai sette anni. Senza scomodare spiritosi paralleli con le crisi matrimoniali, basterebbe ricordare che una delle norme più nette (quella che impediva di fatto l'allungamento artificioso dei termini di accertamento) è stata invece regolarmente disattesa, quasi a segnare l'irriformabilità dell'intero edificio normativo. In più ci si lamenta, e giustamente, che i decreti-legge sono regola e non eccezione e che per stabilire rinvii di termini, ma non solo, si procede a colpi di comunicati stampa (mezzo irrituale come nessun altro, pur nell'era mediatica per eccellenza). Faccio mie queste istanze, naturalmente. E, per nostro ulteriore beneficio, ci metterei rapidamente accanto l'assoluta necessità di semplificare il quadro tributario, riducendo il numero dei balzelli e rivedendone le basi imponibili. Cosa ce ne facciamo di un pacchetto di tributi che vanno dall'ICI alla TARSU (o TIA), passando dalla TOSAP (COSAP) e dalla tassazione sulla pubblicità, senza dimenticare la sovraimposta sull'IRPEF o la quasi estinta sul nascere imposta di scopo? Complicano le operazioni di accertamento e forniscono un gettito totalmente asimmetrico: decisivo per la salute del bilancio in alcuni casi, del tutto irrisorio in altri. Concentriamo gli sforzi su un'imposta sul patrimonio come l'ICI (alla quale sarebbe comunque assimilata l'eventuale, benché improbabile, imposta di scopo), modulandola con un forfait per la pubblicità esposta dalle attività produttive; accorpiamo il prelievo sull'occupazione di spazi e aree pubbliche alla TARSU, prevedendo una maggiorazione per coloro che, a diverso titolo, hanno la necessità di utilizzare porzioni di territorio per la gestione di attività economiche. L'addizionale IRPEF non ha in realtà una vera valenza tributaria, si sa, dunque può restare così com'è o essere accorpata alla compartecipazione all'imposta nazionale fornita dal Tesoro. Si semplificherebbero i procedimenti amministrativi e ne beneficerebbe pure la chiarezza dei bilanci. I paragoni con l'estero sono sempre un poco antipatici, perché finiscono per dare l'impressione che il paese dei cachi è qui e non altrove. Però i buoni esempi, nel caso, non sono inutili. E nei maggiori sistemi tributari locali europei trova spazio una tassazione estremamente semplificata che fornisce in proporzione gettiti molto alti. Un sistema con una frammentazione pari alla nostra allontana il contribuente dalla pubblica amministrazione. Non vorremmo che si riavvicinasse esclusivamente per gettarci torte in faccia.

martedì 17 luglio 2007

La riparazione

Gli esami non cominciano mai. Sembrerebbe poter essere questa l'ideale didascalia di una tabella che riportasse la percentuale di progressioni di carriera documentabili dal 2000 a oggi negli enti locali. Statistiche recenti parlano di un rapporto di 8 a 10, nel senso che solamente due dipendenti non sono riusciti a convincere il proprio dirigente di riferimento che un salto di posizione economica si poteva anche fare. A parte il fatto che, generalizzando come è purtroppo d'uso, sono comprese sotto la stessa etichetta di 'avanzamento di carriera' tutte le progressioni effettuate, senza distinguerne le differenti articolazioni, per avere un quadro meno drastico delle 'carriere' negli enti locali serve giusto fare il punto sulla questione. Perché agli enti locali possono essere imputate le peggiori nefandezze in tema di efficienza, purché siano adeguatamente documentate, come dovrebbero. Ricordiamo innanzitutto che la progressione cosiddetta orizzontale nasce da un preciso articolo contrattuale all'interno della revisione generale del sistema di classificazione professionale. Il sistema precedente prevedeva i cosiddetti LED (livelli differenziati di retribuzione all'interno della stessa qualifica) che si esaurivano però in un unico gradino di carriera per gli appartenenti a quella qualifica, quello scatto economico in più che rappresentava per alcuni anche l'unico movimento professionale in alto. Il CCNL 1° aprile 1999, rinnovando l'intero impianto valutativo, afferma: "1. All’interno di ciascuna categoria è prevista una progressione economica che si realizza mediante la previsione, dopo il trattamento tabellare iniziale, di successivi incrementi economici secondo la disciplina dell’art. 13." Si tratta di più di un incremento economico per categoria che dunque lascia spazio a percorsi professionali più seri e, auspicabilmente, meno automatici. Infatti: " 2. La progressione economica di cui al comma 1 si realizza nel limite delle risorse disponibili nel fondo previsto dall’art. 14, comma 3 e nel rispetto dei seguenti criteri: a) per i passaggi nell’ambito della categoria A, sono utilizzati gli elementi di valutazione di cui alle lettere b) e c) adeguatamente semplificati in relazione al diverso livello di professionalità dei profili interessati; b) per i passaggi alla prima posizione economica successiva ai trattamenti tabellari iniziali delle categorie B e C, gli elementi di cui alla lettera c) sono integrati valutando anche l’esperienza acquisita; c) per i passaggi alla seconda posizione economica, successiva ai trattamenti tabellari iniziali delle categorie B e C, previa selezione in base ai risultati ottenuti, alle prestazioni rese con più elevato arricchimento professionale, anche conseguenti ad interventi formativi e di aggiornamento collegati alle attività lavorative ed ai processi di riorganizzazione, all’impegno e alla qualità della prestazione individuale; Quindi, per le categorie corrispondenti alle vecchie qualifiche 3a, 4a, 5a e 6a (oggi A, B e C) la possibilità di incrementare il proprio trattamento economico tabellare è legata anche ai risultati ottenuti, oltre che, fra l'altro, al livello qualitativo del proprio servizio lavorativo. Per la categoria direttiva, oltre che per gli ultimi passaggi delle categorie B e C, inoltre è necessaria una "selezione basata sugli elementi di cui al precedente punto c), utilizzati anche disgiuntamente, che tengano conto del: diverso impegno e qualità delle prestazioni svolte , con particolare riferimento ai rapporti con l’utenza; grado di coinvolgimento nei processi lavorativi dell’ente, capacità di adattamento ai cambiamenti organizzativi, partecipazione effettiva alle esigenze di flessibilità; iniziativa personale e capacità di proporre soluzioni innovative o migliorative dell’organizzazione del lavoro." L'impianto giuridico costruito dal contratto è dunque ben modulato, tenendo conto delle diverse esigenze professionali alle quali rispondono le categorie oggi vigenti. Certo, serve un ulteriore scatto in avanti per evitare che il tutto sia lasciato all'esclusiva discrezionalità del valutatore. Infatti, il successivo art. 6 disciplina meglio l'operatività delle progressioni, stabilendo che: "1. In ogni ente sono adottate metodologie permanenti per la valutazione delle prestazioni e dei risultati dei dipendenti, anche ai fini della progressione economica di cui al presente contratto; la valutazione è di competenza dei dirigenti, si effettua a cadenza periodica ed è tempestivamente comunicata al dipendente, in base ai criteri definiti ai sensi dell’art. 16, comma 2." Il che significa che, innanzitutto, è necessaria una regolamentazione del metodo valutativo. Questo è avvenuto, tipicamente, con specifiche contrattazioni decentrate dalle quali è scaturito un percorso amministrativo che deve giungere attraverso opportuni passaggi di controllo alla valutazione finale e dunque al passaggio o no alla posizione economica successiva. E' giusto far notare, a questo punto, allo scettico lettore esterno che in comuni di grosse dimensioni vi sono interi uffici nei quali il personale ha a malapena superato il primo passaggio orizzontale. Di modo che si può dire che, si, la progressione è generalizzata, ma si è anche fermata subito e dunque i meccanismi valutativi sono estremamente rigidi, al punto da mantenere sostanzialmente invariata la categoria di appartenenza, fino al pensionamento. Se si fanno pochissimi passaggi orizzontali, figuriamoci come saranno rare le progressioni di carriera verticale (soprattutto considerando il fatto che per il Consiglio di Stato rappresentano nuove assunzioni, con tutte le conseguenze del caso). Concediamo che i comuni di minori dimensioni siano più avvantaggiati, mancando di un adeguato sistema di controlli interni che contemperi le umane esigenze di miglioramento anche economico con quelle, altrettanto prosaiche, del bilancio pubblico e della buona amministrazione. D'altronde, il limite delle risorse disponibili non è valicabile. Dunque, se pagella valutativa dev'essere, che sia costruita con rigore ma senza il deleterio pregiudizio che troppi amministratori locali (specie nel decantato nord-est) dimostrano di avere nei confronti di un'intera categoria. Nessuno, credo, ha paura di essere valutato. Tutti, però, hanno il vago timore di scoprire che, a volte, la scheda è stata precompilata.

lunedì 16 luglio 2007

Vidocq

Stando alle stime di ANCI, sotto la cenere del decreto sul decentramento catastale coverebbe un fuoco di ICI evasa da far tremar le vene e i polsi. I dati riportati dal Lenzuolo rosa dicono che c'è una base imponibile non ancora emersa tale da far prevedere un maggior gettito di ben 362 milioni di euro all'anno. Trattandosi di un dato ottenuto, presumo, applicando l'aliquota media nazionale, siamo in presenza di un importo ulteriormente incrementabile. E già fermandosi qui ci sarebbe da riflettere. Soprattutto perché questo recupero sarebbe certamente esteso alle annualità arretrate ancora accertabili, moltiplicando dunque gli effetti positivi del provvedimento. Ma come si arriva a questa cifra esorbitante? Più dell'80% del maggior gettito deriverebbe da un'unica voce: evasione totale sulle aree fabbricabili. Il riclassamento delle unità immobiliari finora appartenute alla categoria A5 (le abitazioni di tipo 'ultrapopolare'), ora abolita, frutterebbe circa 50 milioni di euro. Altri 16,5 milioni si recupererebbero dal puro aggiornamento delle banche dati (dalle quali dovrebbero emergere cespiti accatastati ma mai denunciati ai fini ICI). Il restante milione e un quarto, spiccioli di tributo, arriverebbe dalla messa a regime di un sistema di classamento che, gestito direttamente dallo stesso ufficio amministrativo che rilascia il permesso di costruire, sarebbe più rapido e più preciso nel concludere l'iter rispetto al Catasto di derivazione risorgimentale. Quest'ultimo aspetto è frutto di un ottimismo forse eccessivo e, in ogni caso, prematuro. Infatti, prima di poter assistere ad una piena presa in carico dell'attività censuaria sarà indispensabile attendere qualche anno. Le tre opzioni attualmente disponibili sono teoricamente ben distribuite, offrendo cioè agli enti la gamma di opportunità che gli stessi sono in grado di cogliere. Non ci si dovrebbe però stupire se, nella prima fase, la scelta dovesse cadere sulla opzione meno impegnativa, quella cioè che prevede l'offerta del servizio di consultazione, l'aggiornamento della banca dati con variazioni relativamente significative e la riscossione dei tributi catastali (trattenendone una percentuale variabile tra il 5 e il 15%). Certamente la prospettiva è di elevato interesse, se non altro perché pone l'accento sulla centralità del patrimonio immobiliare nel sistema tributario degli enti locali. Idealmente risulta altamente improbabile che, dopo aver ceduto progressivamente le funzioni di controllo e certificazione, il legislatore opti per un'organizzazione fiscale decentrata che non preveda l'ICI. Al di là delle considerazioni comparative con altri Paesi dell'Unione europea come Francia, Gran Bretagna e Germania, dove il gettito delle imposte patrimoniali costituisce l'ossatura centrale della fiscalità locale (anche se non sono possibili confronti diretti con l'ICI italiana), l'attribuzione ai comuni di una parte significativa della filiera immobiliare avrebbe come principale risvolto la loro responsabilizzazione sul versante dell'equità fiscale complessiva, togliendo l'alibi dello scaricabarile sulle rendite attribuite dal Catasto. Sul tappeto però c'è, sensatamente, l'obiezione che la proprietà immobiliare è distribuita in modo disomogeneo sul territorio nazionale; pertanto si creerebbe una frattura tra comuni 'ricchi' e 'poveri'. Va anche detto che già oggi la struttura di bilancio nei comuni meno dotati prevede una perequazione contributiva dall'Erario che compensa, almeno in parte, la deficienza patrimoniale. Un'ultima osservazione andrebbe fatta sulla sproporzionata dimensione dell'evasione presunta sulle aree fabbricabili. Quei 295 milioni di euro l'anno sono attendibili? Mentre per i fabbricati abbiamo a che fare con valori attribuibili all'interno di un range dal quale ci si può discostare ma con giudizio, le aree fabbricabili rappresentano delle vere e proprie sabbie mobili. E' pur vero che la legislazione vigente cerca di attribuire un vantaggio assoluto all'ente, facendo riferimento alla sola approvazione dello strumento urbanistico per determinare l'edificabilità di un'area. Ma la giurisprudenza ha preso di recente una piega diversa: aspettiamoci un pronunciamento della Consulta che potrebbe, in caso di incostituzionalità, creare decisivi problemi in ordine alla valutazione delle aree. 295 milioni? Mi accontenterei della metà.

venerdì 13 luglio 2007

Ai materassi

Da Palermo giunge una notizia doppiamente significativa sul versante della pressione tributaria locale. Pare che l'ultima sfornata di cartelle esattoriali riguardanti la TARSU abbia comportato per l'utente medio un aggravio di non meno del 50% rispetto al precedente ruolo. Immagino le fronti imperlate di sudore degli addetti all'ufficio tributi, ovviamente non per il caldo. E temo che allungare gli orari di apertura non sarà sufficiente a ridurre l'affollamento davanti agli sportelli, sperando almeno di riuscire far rispettare la fila. Certo, dipende dal valore assoluto di quelle cartelle, che fino all'anno scorso potevano essere di importi quasi irrisori, oggi finalmente adeguati. E però resta la scelta di introdurre uno 'scalone' tributario probabilmente senza preventiva e cauta informazione. Dalla vicenda, e arrivo al punto che qui interessa, emergono, in ogni caso, almeno un paio di considerazioni di carattere generale. La prima è che, al di là delle colorite cronache locali, probabilmente abbondanti in facile ironia sulla rapidità con la quale un'amministrazione, subito dopo il rinnovo di un mandato elettorale, aumenta le aliquote e le tariffe dei propri tributi, un incremento così pesante e repentino delle tariffe è il risultato di anni nei quali il tasso di copertura è stato ben al di sotto del minimo consentito. Ora, non mi risulta che la specialità dello statuto siciliano abbia anche autorizzato il Consiglio regionale a modellare la tassa in modo differente dal resto d'Italia. Esiste, è vero, una legge siciliana del 2001 che, a differenza del resto delle regioni, pone a carico degli enti locali l'onere della TARSU sui locali occupati da scuole di ogni ordine e grado (ignorando la consolidata giurisprudenza di opinione evidentemente contraria). Peraltro, in questo ultimo caso, si tratta di una scelta che estende la nozione di soggetto passivo, non incidendo sulle modalità di applicazione della tassa. E dunque, per anni, il servizio di raccolta e smaltimento rifiuti è stato fornito a titolo quasi gratuito ai cittadini palermitani. Quando qualcuno si riempie la bocca di 'federalismo' dovrebbe fare più attenzione a notizie come questa, che mortificano la capacità gestionale della maggior parte degli enti i quali, consapevoli dell'onerosità del servizio, lavorano per incrementare la percentuale di differenziazione a scapito dello smaltimento selvaggio. Se improvvisamente le tariffe a metro quadro schizzano alle stelle non è però (azzardo) a causa di un rinnovato sentimento ecologista, ma più semplicemente a causa dell'inesorabile avvicinarsi dell'ora del passaggio delle consegne tra gestione comunale e gestione alle ATO, decisa dal Codice dell'Ambiente dello scorso anno e non ancora operativa, ma non per molto. Questo salto di qualità implica, come si sa, l'integrale copertura dei costi con il prelievo tariffario. Dunque, basta privilegi, ma solo perché si ha il fiato sul collo.
La seconda considerazione è che, appunto, in una città di quasi settecentomila abitanti non si è riusciti, fino ad oggi, a introdurre la Tariffa Ronchi. Diciamo fino al 2006, perché la Finanziaria 2007 ha congelato tutti gli eventuali passaggi da tassa a tariffa in attesa del trasferimento di competenze alle ATO. Certo che, a dimostrazione di quanto detto prima sul tasso di copertura, il caso-Palermo rientra sorprendentemente tra quelli previsti dall'art. 11, c. 1, lett. c), D.P.R. 27 aprile 1999, n. 158: "1. Gli enti locali sono tenuti a raggiungere la piena copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani attraverso la tariffa entro la fine della fase di transizione della durata massima cosi articolata: (...) c) otto anni per i comuni che abbiano raggiunto un grado di copertura dei costi inferiore al 55%; (...)". Tutto si tiene, dicono in Francia. Qui, l'ironia sta nel fatto che, comunque, il maggior costo del servizio è risultato a carico dei palermitani. E forse, nel frattempo, il servizio non è neppure migliorato...

giovedì 12 luglio 2007

Nel centro del mirino

L'IFEL (fondazione gestita da ANCI, costituita da poco più di un anno sulle ceneri dell'estinto consorzio ANCI-CNC) ha appena reso pubblico il primo rapporto su "La manovra finanziaria 2007 dei Comuni". Centoquaranta pagine corpose ma soprattutto ricche di informazioni che, in prospettiva di un aggiornamento annuale, soddisfano una sete mai veramente sazia di numeri e dati. La completezza del rapporto merita un'analisi delle singole porzioni per assaggiare la torta azzeccandone gli ingredienti. Ci vorrà qualche giorno (e qualche pagina) per valutarne appieno il senso. Adesso, invece, vorrei dedicare una ventina di righe all'iniziativa in sé, allo sforzo di racchiudere in un unico documento gli argomenti necessari a inserire nella giusta prospettiva la finanza locale e l'economia nella quale è amministrata. I padrinaggi politici mi interessano molto poco, in questo caso. Non siamo di fronte a un documento di parte (nel senso di pro o contro il governo statale). Il fatto che un'indagine di questo livello nasca sotto l'egida dell'ANCI può essere rilevante sotto un altro profilo: quello dell'eventuale monopolio dell'associazione di comuni più potente (per mezzi e influenza) nell'interpretazione dei dati economici e finanziari degli enti locali. E' un rischio inevitabile perché, ad oggi, solo ANCI si è fatta carico di sistematizzare nel quadro macro-economico nazionale le variabili più rilevanti della finanza locale. Casomai una tiratina d'orecchi si potrebbe fare all'istituto statistico nazionale che, per mission istituzionale, dovrebbe elaborare periodicamente i dati locali e pubblicarli con una frequenza più elevata di quella attuale, esageratamente ridotta. E neppure troppo analitica. Solo per fare un esempio, la recente analoga ricerca promossa appunto dall'ISTAT è sostanziosamente più frammentaria e comunque non raggiunge il livello di completezza proposto da IFEL. Torno così al significato del lavoro di quest'ultimo. L'aspetto più di interesse mi pare proprio quello della sua ripetibilità. La certezza che, nel tempo, i dati pubblicati oggi non saranno cristalizzati. Non prenderanno polvere (virtuale) nel nostro hard-disk. Tutto un altro paio di maniche, invece, è l'uso che ne dovremmo fare. Non è una lettura da comodino, questo è sicuro. Ma una raccolta di dati così ponderosa ha il valore di un'enciclopedia. Andrebbe consultata ogni tanto, per migliorare la qualità di pareri e relazioni che a intervalli regolari dobbiamo preparare, per indicare soglie di riferimento alle statistiche che riguardano il nostro ente, per non dimenticare che il bilancio locale è più ampio dei suoi confini territoriali. Invece, mi pare, di quest'ultimo aspetto si dimenticano soprattutto i Ministeri ai quali facciamo riferimento, i quali raccolgono da noi informazioni a go-go, ma puntualmente non ne restituiscono neppure una che sia appena un poco elaborata. Le sintesi del rapporto che in questi giorni appaiono sulla stampa specializzata ci forniscono un breve assaggio dei contenuti dell'indagine. Per pigrizia, di solito, non proviamo neppure a cercare il documento completo. Stavolta, invece, non mi lascerei sfuggire l'occasione.

mercoledì 11 luglio 2007

L'ordine della fenice

Parzialmente oscurata dalle numerose polemiche seguite all'obolo sugli avanzi di amministrazione, la questione dell'attuazione del federalismo fiscale è, in realtà, più viva che mai. E sorprende (beninteso piacevolmente) che il primo intervento a porre la vicenda sotto il giusto (ritengo) profilo non sia apparso sulla stampa specializzata ma su un quotidiano a tiratura nord-occidentale come La Stampa. L'analisi a cura di Nicola Grigoletto è tutt'altro che inzuppata di termini tecnici, scomodando persino Cary Grant e la Hollywood del tempo che fu. Come vedremo, però, l'abilità retorica del giornalista non gli impedisce di cogliere il bersaglio federalista senza sprecare colpi. A differenza delle pagine settimanali dei quotidiani economico-finanziari. Che sia più difficile costruire pezzi 'di colore' su fogli ordinariamente paludati come il Lenzuolo rosa, d'accordo. Ma lo Struzzo giallo, che un giorno sì e l'altro pure offre ai frequentatori di edicole prime pagine da fare (involontariamente) invidia a Cuore (non quello di De Amicis, ovvio), ci delude brillando per assenza. E poi, chi ha detto che per perorare una causa così importante sia indispensabile una farcitura in salsa normativa? Questo approfondimento può sempre arrivare dopo, completando con tutte le opportune valutazioni giuridico-tributarie un quadro di analisi che dovrebbe essere chiaro sin dal principio. Cosa sostiene Grigoletto? Senza girarci troppo attorno, che: "Il principio verso cui tendere (nell'ambito delle politiche fiscali decentrate NdR) dovrebbe essere che ciascuno spende ciò che ha («autonomia» delle entrate) e ne risponde («responsabilità» della spesa). Ora, l'Ici va esattamente in questa direzione, e i cittadini dei singoli Comuni toccano con mano tutti i giorni i servizi finanziati con i loro soldi (sicurezza, viabilità, trasporti, fognature, illuminazione delle strade, arredo urbano, aree verdi ecc.)." Questo semplice (meglio, lineare) ragionamento non si era ancora sentito a proposito della destinazione del Tesoretto, né da parte dei politici (locali o nazionali, non importa, essendo tutti accomunati dallo stesso silenzio accomodante), né da parte dei numerosi esperti che si esprimono in lungo e in largo su ogni argomento. Piuttosto, è sembrato fare capolino da parte dell'ANCI solo quando il Governo ha tirato i cordoni della borsa che conteneva gli avanzi di amministrazione, ma solo per la parte che concerne l'"autonomia", non quella della "responsabilità". E' molto più semplice dire immediatamente sì a un Governo che riduce l'ICI ma ne compensa il minor gettito, che contrastarlo solo quando sceglie di bloccare risorse che, in ogni caso, non gli appartengono. In questo senso, dunque, il succo del pezzo mi è sembrato un altro. "Gli sconti sulla prima casa vanno invece nella direzione opposta, perché le minori entrate dei Comuni dovranno essere compensate con maggiori trasferimenti da parte dello Stato. Insomma, è come se il Governo con la mano destra disegnasse una strada (federalismo fiscale) e con la sinistra ne cancellasse un pezzo (Ici). Un po' fa venire il mal di testa, e rimane il dubbio che il taglio delle tasse è un'altra cosa. Lo sconto prima casa corrisponde infatti allo 0,5% della montagna delle imposte che ogni anno versiamo allo Stato." A parte l'ultimo inciso, che qui non rileva, vien proprio da dire: "touché". Ciascun ente sa che quel poco di autonomia fiscale che l'ordinamento ha concesso trova nella modulazione dell'ICI sull'abitazione principale la sua espressione più verace. L'eventuale (perché ormai niente è più certo nell'implacabile bailamme sulla destinazione dell'extra-gettito) riduzione del prelievo è, per i comuni, un'operazione a somma zero solo per chi è del tutto indifferente alla 'responsabilità' come sopra intesa. Per gli altri, invece, ha il sapore del caffé tiepido: brodaglia senza nerbo, e soprattutto neppure dissetante, perché la disponibilità nominale di uguali risorse non è di certo la stessa cosa che poterle modulare anche solo parzialmente ma consapevolmente. Sul piatto, allora, rimettiamo il disco ormai ben rigato della detrazione dell'ICI dall'IRPEF. A qualcuno, prima o poi, verrà in mente, non trattandosi di proposta rivoluzionaria, ma semplicemente sensata. Per il momento, sembra che neppure alla Stampa ci abbiano pensato.

martedì 10 luglio 2007

Lauta ricompensa

Una curiosa risoluzione fa capolino dal sito dell'Amministrazione finanziaria e, nell'occuparsi di ICI versata con il modello F24, finisce per attribuire all'ente interpellante un autogol da cineteca. Il presupposto è, in sé, già un non-caso. Un ente ha ricevuto a titolo di ICI su aree fabbricabili una somma considerevole da un soggetto che, a quanto pare, era debitore di una cifra molto inferiore. La curiosità sta nel fatto che il Comune si chiede (e interpella perciò l'Agenzia) se quella somma, versata con F24 ma manifestamente eccessiva, debba essere restituita all'Agenzia stessa. Qui non ha alcuna rilevanza il fatto che all'epoca dei fatti fosse vigente una convenzione tra Comune e Agenzia delle Entrate per l'utilizzo del modello F24, poiché, come è noto, tale facoltà è da quest'anno generalizzata e perciò prescinde ormai da qualsiasi accordo individuale. Si nota immediatamente che l'ente "non propone alcuna soluzione interpretativa", come recita la formuletta di rito. E verrebbe da dire: "Perché dovrebbe?". In ogni caso, quale dovrebbe essere il percorso logico in base al quale ritenere creditrice l'Agenzia e non il contribuente? A parte il fatto che l'accertamento sull'esatto ammontare dovuto a titolo di ICI non si è ancora perfezionato (almeno stando a quanto riportato nella risoluzione) e che pertanto non si conosce il quantum che l'ente dovrebbe rimborsare, sorge il dubbio che l'interpello sia stato proposto non dal funzionario dell'ente, ma da (scusate la malizia) un amministratore poco avvezzo ad approfondire le norme e smanioso di vedere pubblicato il proprio quesito. L'Agenzia, peraltro, non fa trasparire alcuna insofferenza per essere costretta a rispondere al gran dubbio, anzi. Si dilunga nell'argomentare la natura del rapporto tra Agenzia ed ente locale all'interno della convenzione di riscossione e chiude in modo lapalissiano affermando che: "Ogni determinazione relativa a tale ultima imposta spetta al comune, così come spetta sempre a quest’ultimo rimborsare le eventuali somme incassate in eccedenza rispetto all’importo ICI effettivamente dovuta dal contribuente." Anche perché, conclude l'Agenzia: "Sulla base delle considerazioni sopra riportate si ritiene (...) che il comune non debba procedere al riversamento all'Agenzia delle Entrate dell’eccedenza di cui trattasi, e che in tal senso, infatti, non sono state predisposte particolari procedure." Infine, e questo è l'aspetto più sorprendente, nella risoluzione si cita in continuazione il fatto che il contribuente abbia compensato il debito ICI (calcolato correttamente o no, poco interessa) con un credito IVA. Quale rilievo abbia questo aspetto (in una questione già di per sé priva di rilevanza) non si comprende. Non si tratta di voler a tutti i costi trovare il pelo nell'uovo (per quanto, questa sia attività in generale poco praticata), quanto piuttosto di verificare a priori (possibilmente) che il diritto d'interpello sia utilizzato per chiarire problematiche davvero controverse. Manca, in sostanza, un filtro in entrata che attribuisca ai differenti quesiti un peso relativo e, quando serve, scarti quelli manifestamente inutili. A meno che, in questo caso, l'Agenzia non abbia voluto sottilmente additare l'ente a mo' di esempio (negativo) di come non deve essere utilizzato il prezioso istituto.

lunedì 9 luglio 2007

La quarta corsia

Sembra, sempre più spesso, di avere a che fare con le tre scimmiette. Che qui potremmo anche ridurre a due, entrambe sorde. Due Ministeri diversi raccolgono dati uguali per finalità apparentemente indispensabili e ogni ente si sente un po' preso in giro. Perché un altro ministero ancora (quello, va da sè, dell'Innovazione tecnologica) predica un giorno sì e l'altro pure sull'arretratezza dell'amministrazione digitale locale, e diffonde direttive di gran respiro incurante della scarsissima propensione dei suoi cugini più importanti a farne tesoro. Ma la pagliuzza negli occhi degli enti locali non vale davvero la trave in quelli dei dicasteri in questione, i quali sull'informatica si applicano davvero, per realizzare però procedure telematiche che non parlano fra di loro e che, purtroppo, rielaborano, in pratica, gli stessi dati. Non si è infatti neppure conclusa l'annuale operazione 'Conto del personale' a cura del Ministero dell'Economia e delle Finanze (ramo Tesoro), che certamente impegna gli uffici preposti in un riepilogo esaustivo di tutta l'attività 2006, che già all'orizzonte si profila il censimento biennale del personale a cura del Ministero dell'Interno. Previsto, per carità, nientemeno che dall'art. 95 del D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. Ma che ha lo stesso sapore della minestra riscaldata. Dal Viminale cercano di convincerci (o forse è un goffo tentativo di autoconvincersi) che l'invio di questi dati è vitale per la conoscenza dei trend delle autonomie locali. Nella circolare del 12 giugno 2007, infatti, il Ministero dell'Interno, in uno slancio di rara sincerità, si espone fino a dire che: "La rilevazione rappresenta uno strumento indispensabile per aggiornare il patrimonio informativo concernente le risorse umane a disposizione delle autonomie locali, oltre a costituire una fonte di conoscenze utile alla predisposizione di tutti i provvedimenti sull’organizzazione e il funzionamento degli enti locali e, di riflesso, delle leggi finanziarie." Peccato che le stesse informazioni, tra l'altro elaborate con un dettaglio ben maggiore, siano nel frattempo già state trasmesse al Tesoro (tramite la concorrente procedura SICO). Questo giochetto non ha alcuna utilità pratica, perché basterebbe la semplice condivisione delle informazioni già disponibili per garantire quel livello di informazione che pare così fondamentale. Eppure l'art. 95 citato dice semplicemente che: "Il Ministero dell'interno aggiorna periodicamente (...) i dati del censimento generale del personale in servizio presso gli enti locali." Non vi è traccia, nella norma, dell'obbligo di realizzare un ulteriore adempimento a carico degli enti. Quando l'ANCI fa il gesto eroico di sfilarsi dai tavoli di concertazione con il Governo, non dovrebbe limitarsi a rivendicare una soluzione concreta ai temi (bollenti) ormai noti. Un posticino dovrebbe trovarlo anche per queste che, in apparenza, sono quisquilie ma nascondono dietro alla loro evanescenza il nocciolo di una questione vitale. L'amministrazione digitale non può essere davvero tale se non è anche uso razionale delle risorse.

venerdì 6 luglio 2007

Conferito gravemente

Che dilemma! Proporre agli enti una sempre più intensiva esternalizzazione delle proprie attività, attraverso, in particolare, la costituzione di società di capitali 'ad hoc'; oppure ragionare in termini autarchici e adoperarsi per un più stringente controllo interno di gestione. Il lavoro dei consulenti di buon livello degli enti locali si dibatte da tempo sul percorso da seguire per, ragionevolmente, giungere a un livello ottimale di rapporto risorse impiegate/servizi offerti. L'alternativa parrebbe risolvibile in poche battute, a favore naturalmente della soluzione più in voga. L'odierno numero dello Struzzo giallo riporta una sorta di peana alle esternalizzazioni, in un intervento che elenca le magnifiche sorti e progressive delle società a maggioranza o totalità di capitale pubblico. Poiché il dubbio non pare sfiorare l'autore, che scrupolosamente premette la critica più frequente a questa tendenza privatistica delle pubbliche amministrazioni locali (l'accusa di porre in essere un elemento di turbativa o comunque di provocare indesiderate distorsioni della libera concorrenza), cerchiamo di verificare almeno la sostenibilità di talune stentoree affermazioni. Primo punto: flessibilità di gestione e risparmi di spesa. Si indica nella via privatistica un modo sicuro per superare le rigidità della P.A. e assicurare decisioni manageriali rapide ed efficienti. Ma è un po' come dire che tutte le società private sono per definizione in grado di operare ottimizzando i tempi stagnanti. In mancanza di una dimostrazione del teorema qui sottinteso, ci accontenteremmo di sentire dire che probabilmente il privato è più efficiente del pubblico. Mi viene in mente però la recentissima esperienza da queste parti (l'industrioso nord) di una Spa nata per la gestione del servizio idrico integrato, a totale capitale pubblico. Il mio comune ha acquisito una partecipazione nella costituenda società nell'estate del 2006. La società ha iniziato a gestire il servizio per il 15% dei comuni soci lo scorso 1° luglio. Non sono proprio certo che si tratti di un esempio di scuola in termini di celerità efficientista. Secondo e terzo punto: vantaggi sotto il profilo dell'indebitamento. Si tratterebbe contemporaneamente di beneficiare di una maggiore capacità di indebitamento (attraverso la costituzione di diritti reali sui beni immobili conferiti) per la realizzazione anche di opere pubbliche e, allo stesso tempo, di ridurre la rigidità del bilancio corrente, schiacciato dagli interessi passivi e dalle quote capitale. In effetti l'eccessiva disinvoltura con la quale si sfrutta la capacità teorica di indebitamento è un rischio che può trovare adeguato sollievo nella forma societaria. Ma qui, semplicemente, si elude il problema. In assenza di bilanci consolidati, ci credo che gli enti risultano meno in sofferenza. Peccato che il capitale investito nelle società dai comuni le renda a tutti gli effetti parte di un unico sistema economico-patrimoniale, con le conseguenze del caso. Quarto punto: Patto di stabilità quasi sicuramente rispettato. Identica obiezione del punto precedente, con l'aggravante che in questo caso si approfitta abilmente ma scientemente della assenza di una normativa cogente, e nonostante la posizione giustamente prudenziale della Corte dei conti che, dal suo canto, non può peraltro fare di più che sollecitare una verifica congiunta dei dati dell'ente e delle partecipate al fine di verificare il rispetto del patto (con tutti i limiti più volte espressi in queste pagine sul meccanismo dei parametri di Maastricht). Quinto punto: vantaggi fiscali assicurati. L'IVA sugli acquisti può essere scaricata con maggiore frequenza, trattandosi di società commerciali. Inoltre, si dice, vi sarebbero vantaggi anche sotto il profilo dell'IRAP. A parte che nessuno obbliga l'ente locale ad utilizzare il metodo retributivo per pagare quest'ultima, non è matematicamente dimostrabile che l'aliquota più bassa faccia di sicuro pagare di meno: gli imponibili nei due casi sono calcolati in modo completamente diverso. Aggiungerei, inoltre, che la possibile esenzione da imposta di registro è stata esclusa dall'Agenzia delle entrate quando il trasferimento di proprietà degli immobili conferiti è avvenuto a distanza di tempo eccessiva rispetto all'originaria costituzione della società, configurandosi in tal modo come un'operazione commerciale ordinaria. Sesto e ultimo punto: sviluppo del territorio e della comunità locale. Qui non vengono neppure offerti argomenti a favore. Trattasi di un vantaggio esclusivamente dichiarato sulla carta, e sulla fiducia. Gli anglo-sassoni lo chiamano wishful thinking. In Italia, tutto dipende da chi governa l'ente. L'idea di interesse generale è ancora troppo audace.

giovedì 5 luglio 2007

Come eravamo

La recente giurisprudenza (non solo amministrativa) si sta facendo carico di un compito gravoso e malinconico. La certificazione di impotenza gestionale di un'intera categoria professionale: i segretari comunali. Ricoperti di prestigio e influenza, fino all'avvento della Bassanini-bis (L. 127/1997), i notai comunali si sono visti sfilare una dopo l'altra le innumerevoli prerogative a loro concesse attraverso l'incessante lavorio della potente lobby parlamentare a loro legata. Non che la tristezza abbia, a causa di ciò, adombrato i loro volti, poiché il lato meramente pecuniario della vicenda è sempre stato a vantaggio dei segretari. D'accordo che il contratto collettivo più recente è scaduto dal 2001, ma la sostanziale scomparsa di qualsiasi forma di loro responsabilità diretta non ne ha intaccato il più che interessante trattamento economico. Quello che, in tutta evidenza, ai Segretari non va giù è che si sta consolidando un indirizzo delle principali magistrature tendente ad affermare senza alcuna deroga il principio di esclusività della competenza dei dirigenti negli atti di gestione dell'ente locale. A uno sguardo meno superficiale, questa presa di posizione non fa altro che evidenziare in giallo il chiaro dettato della norma. Pare però che qualche tentativo per aggirare il divieto di ingerenza non manchi mai. Soprattutto quando serve a tenersi stretto il Sindaco di turno il quale, nel caso più recente, non avendo gradito una presa di posizione del dirigente dell'Ufficio tecnico, si era celermente rivolto al segretario per ottenere immediata riparazione al torto. Quest'ultimo non si fece certo ripetere due volte l'invito ad avocare (illegittimamente, va da sé) a sé il provvedimento contestato, ribaltandone le conclusioni, forse confidando nel fatto che il dirigente non avrebbe osato contraddire una così autorevole scelta. Peccato per il segretario che il vento abbia soffiato in direzione contraria. Così, dopo una prima favorevole pronuncia del tribunale di primo grado, altri due gradi di giudizio hanno sottolineato che un conto è la funzione di coordinamento del personale (quindi anche dei dirigenti), un altro è quella gerarchica, esclusa oggi dalla legge e non derogabile da norme statutarie o regolamentari. Certo, nei comuni più piccoli un caso del genere è più raro, perché la carenza di figure apicali costringe gli amministratori ad affidarsi al segretario come responsabile del servizio. Peraltro dai casi di sovrapposizione della figura di segretario del comune e responsabile del servizio sono comunque esclusi quelli che riguardano l'ufficio tecnico, la ragioneria e la polizia municipale. E se il principio di legge è dunque saldissimo, ci si dovrà adeguare, pena la continua riproposizione di cause sempre uguali nelle premesse e dall'esito scontato. Ce n'è anche per i direttori generali, infine. Benché per definire questa figura si siano scomodate espressioni direttamente mutuate dal management privato, va ricordato che non spetta al d.g. il compito di impegnare verso terzi l'amministrazione. Quindi, la sottoscrizione di contratti sarà effettuata dai dirigenti. E per quanto i direttori generali debbano svolgere l'alto e oneroso compito di garantire la realizzazione dei programmi amministrativi, le mani in pasta ce le metterà sempre qualcun altro.

mercoledì 4 luglio 2007

Cassa continua

Giunto in Gazzetta il D.L. 2 luglio 2007, n. 81, ecco il testo dell'art. 3 sul quale qualche riflessione pare opportuna: "Art. 3. Recupero maggiore gettito ICI - 1. All'articolo 2 del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, sono apportate le seguenti modificazioni: a) il comma 39 è sostituito dal seguente: "39. I trasferimenti erariali in favore dei singoli comuni sono ridotti in misura pari al maggior gettito derivante dalle disposizioni dei commi da 33 a 38, sulla base di una certificazione le cui modalità sono definite con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'interno."; b) il comma 46 è sostituito dal seguente: "46. I trasferimenti erariali in favore dei singoli comuni sono ridotti in misura pari al maggior gettito derivante dalle disposizioni dei commi da 40 a 45, sulla base di una certificazione le cui modalità sono definite con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'interno.". 2. Per l'anno 2007, fino alla determinazione definitiva dei maggiori gettiti dell'imposta comunale sugli immobili in base alle certificazioni di cui ai commi 39 e 46 dell'articolo 2 del citato decreto-legge n. 262 del 2006, come sostituiti dal comma 1 del presente articolo, i contributi a valere sul fondo ordinario spettanti ai comuni sono ridotti in misura proporzionale alla maggiore base imponibile per singolo ente comunicata al Ministero dell'interno dall'Agenzia del territorio entro il 30 settembre 2007 e per un importo complessivo di euro 609.400.000. Per il medesimo periodo, in deroga all'articolo 179 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, i comuni sono autorizzati a prevedere ed accertare convenzionalmente quale maggiore introito dell'imposta comunale sugli immobili un importo pari alla detrazione effettuata per ciascun ente. Gli accertamenti relativi al maggior gettito reale effettuati dal 2007 sono computati a compensazione progressiva degli importi accertati convenzionalmente nel medesimo esercizio. 3. Gli importi residui convenzionalmente accertati rilevano ai fini della determinazione del risultato contabile di amministrazione di cui all'articolo 186 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al citato decreto legislativo n. 267 del 2000, affluendo tra i fondi vincolati e, ove l'avanzo non sia sufficiente, l'ente è tenuto ad applicare nella parte passiva del bilancio un importo pari alla differenza. 4. Ai soli fini del patto di stabilità interno per i comuni tenuti al rispetto delle disposizioni in materia gli importi comunicati di cui al comma 2 sono considerati convenzionalmente accertati e riscossi nell'esercizio di competenza e conseguentemente i trasferimenti statali sono considerati al netto della riduzione di cui allo stesso comma 2. 5. Con la medesima certificazione di cui ai commi 39 e 46 dell'articolo 2 del citato decreto-legge n. 262 del 2006, come sostituiti dal comma 1 del presente articolo, i comuni indicano il maggiore onere in termini di interessi passivi per anticipazioni di cassa eventualmente attivate per un massimo di quattro mesi a decorrere dal mese di novembre 2007 in diretta conseguenza delle minori disponibilità derivanti dalla riduzione di cui al comma 2. L'onere è posto a carico dello Stato e rimborsato ai comuni nel limite complessivo di 6 milioni di euro, eventualmente ripartiti in misura proporzionale ai maggiori oneri certificati." Il maggiore gettito ICI è, ovviamente, quello che deriverebbe dal riclassamento degli immobili ex rurali e di categoria E, a seguito dell'attuazione del D.L. n. 262/2006. Proprio in ragione di questa sua natura presunta, l'esecutivo costruisce sul nuovo gettito un castello contabile dalle fondamenta fragiline. Partendo, infatti, dal presupposto che l'importo dei trasferimenti erariali sarà comunque decurtato di questi maggiori incassi (di qualsiasi entità risultino, alla fine), e in attesa che li si definisca nel loro esatto ammontare, si costringono i comuni a mettere in atto la procedura che segue: 1) Approvare entro novembre una variazione di bilancio (meglio, uno storno) per incrementare il gettito ICI di un importo proporzionale alla maggiore base imponibile comunicata per ciascun comune dall'Agenzia del territorio al Ministero dell'interno (e da questi, ritengo, agli enti). Nella stessa variazione si dovrà ridurre il contributo ordinario dello stesso importo. 2) Registrare un accertamento pari al maggior introito presunto, in deroga alla regola generale che stabilisce come accertata un'entrata "sulla base di idonea documentazione", normalmente stabilita da ruoli o da altre forme stabilite per legge. 3) Poiché si presume che gli importi corretti non possano essere conosciuti prima della chiusura dell'esercizio, si renderà indispensabile riportare a residui la quota non incassata dell'accertamento convenzionalmente iscritto, il quale concorrerà regolarmente alla formazione dell'avanzo di amministrazione 2007, come quota vincolata. 4) Per i comuni soggetti al Patto di stabilità, si prevede che maggiori e minori entrate siano convenzionalmente attribuite ai saldi di competenza e di cassa (una sorta di incasso virtuale), neutralizzando così l'impatto dei minori trasferimenti. Inoltre, nell'eventualità che gli enti debbano fare ricorso ad un'anticipazione di cassa per effetto del ritardo negli introiti (ricordiamo infatti che il saldo dei trasferimenti è erogato nel mese di ottobre, mentre la seconda rata dell'ICI è accreditata non prima di gennaio dell'anno successivo), è individuato un periodo (anche questo convenzionale) di quattro mesi per il quale lo Stato provvederà a rimborsare ai Comuni gli interessi passivi sull'esposizione bancaria eventualmente maturati. Su quest'ultimo punto la limitazione a soli quattro mesi della 'copertura' statale appare beffarda. Se la necessità di utilizzare l'anticipazione di tesoreria nasce per effetto dello sfasamento temporaneo anzidetto, non si vede perché non si debba prendere in considerazione un tempo più congruo. Il completamento dei versamenti da parte dei concessionari, per gli enti che non hanno scelto la riscossione diretta, non avviene mai prima della fine di febbraio. Se l'erario non si fida, venga pure a vedere. L'intero impianto della procedura, peraltro, si ispira a una macchinosità di antico stampo. Poiché il metodo della finzione contabile prescelto non è certo un modello di corretta contabilizzazione, sarebbe stato forse meglio mantenere gli importi dei trasferimenti già comunicati (e sui quali gli enti hanno costruito il preventivo 2007) e decurtare, con una precisione sicuramente maggiore, quelli del 2008. Ma ci balocchiamo con le ipotesi. In realtà, contano solo le casse dell'erario. Queste sì non devono mai andare in sofferenza.